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domenica 12 ottobre 2014

La prova dei danni derivanti dall’esposizione ad amianto

Nella sentenza n.20734 del 1° ottobre 2014, la Corte di Cassazione ha precisato che la valutazione della prova fornita dal lavoratore, relativa alla sua esposizione all’amianto in misura superiore alle soglie previste dalla legge, deve essere compiuta in termini di ragionevole certezza.

Detta prova, in sostanza, esclusa la rilevanza della mera possibilità di una concentrazione di fibre qualificata, risulta perfezionata solamente  in presenza di un elevato grado probabilistico.

Nel caso di specie, la Corte di Appello di Bologna, riformando la pronuncia del Tribunale, aveva riconosciuto il diritto del lavoratore ad usufruire dei benefici di cui all’art.13, comma 8, della Legge n.257/1992 ed aveva   condannato l’Inps ad applicare l’accredito contributivo determinato moltiplicando per il coefficiente 1,5 il periodo lavorativo intercorrente tra il 29 gennaio 1963 ed il 6 luglio 1976.

Attraverso le risultanze della disposta Consulenza Tecnica, la Corte territoriale aveva accertato che, nell’indicato periodo ultradecennale, l’operaio, addetto al reparto filatura di un’azienda produttrice di filati sintetici, era stato esposto all’amianto in misura superiore al c.d. “valore soglia” indicato  nel Decreto Legislativo n.277/1991.

Avverso tale pronuncia, l’Istituto aveva proposto ricorso per Cassazione, rilevando come sia  la predetta Consulenza Tecnica che  i successivi chiarimenti resi dal perito avessero evidenziato che, nonostante l’esposizione patita dal lavoratore fosse stata sicuramente possibile e probabilmente superiore al livello di 100 fibre litro, avevano valutato tale livello probabilistico come di “significatività contenuta”, stimata nella misura del 51/54% e, quindi, ben distante da quell’elevato grado di probabilità in base al quale potrebbe dirsi raggiunta la prova dell’esposizione qualificata all’amianto.

Richiamando le ragioni precedentemente esposte  in analoga controversia, la Suprema Corte ha ritenuto la doglianza fondata (1).

Innanzitutto, gli ermellini hanno ricordato che, in linea generale, il fatto costitutivo del diritto ad usufruire dei benefici di cui all’art.13, comma 8, della Legge n.257/1992,  non si identifica con la mera durata ultradecennale di una attività lavorativa svolta in un luogo  in cui sia presente l’amianto, bensì attraverso  l’esposizione del dipendente al rischio di ammalarsi a causa dell’inspirazione  decennale  di fibre di amianto presenti in quantità superiore ai valori limite prescritti dal Decreto Legislativo n.277/1991.

Di  conseguenza, un accertamento giudiziale che evidenzi la semplice durata di quell’attività senza attestarne il rischio effettivo, omettendo così  l’apprezzamento di una esposizione “qualificata”, non è sufficiente ai fini del riconoscimento del diritto al beneficio contributivo.
                               
Secondo l’orientamento predominante espresso dalla giurisprudenza di legittimità, la prova, che grava sul lavoratore, dell’esposizione all’amianto in misura superiore alle soglie previste dalla legge deve essere valutata in termini di ragionevole certezza, nel senso che, esclusa la rilevanza della mera possibilità di una concentrazione di fibre qualificata, questa può essere ravvisata in presenza di un elevato grado di probabilità (2).

Al termine di questa premessa, gli ermellini hanno osservato come, sconfessando l’opinione espressa dal giudice del primo grado, la Corte territoriale avesse ritenuto raggiunta la prova dell’esposizione qualificata in virtù della Consulenza Tecnica di Ufficio.

La relazione peritale aveva specificato che, per tutto il periodo considerato, l’esposizione del lavoratore doveva ritenersi sicuramente possibile e probabilmente superiore al livello delle 100 fibre annuo, tuttavia, tale livello di probabilità, date le condizioni specifiche delineate, appariva di significatività contenuta.

Il perito aveva ulteriormente specificato che l’esposizione concretizzatasi in termini di concentrazione ambientale stimata media, fibre/cc-ambiente, fosse pertanto possibile e probabile, anche se tale probabilità positiva appariva quantificabile in termini di contenuta positiva significatività (51 – 54%).

Detto ciò, la Cassazione ha ritenuto insufficiente la motivazione espressa dai giudici di appello in ordine all’accertamento di un fatto decisivo per il giudizio, mediante l’adesione alle risultanze della Consulenza Tecnica citata,  atteso che la censurata motivazione non era stata in grado di spiegare come un giudizio probabilistico di “contenuta significatività”, stimato in poco più del 50%, potesse tradursi in quel grado di “elevata probabilità”, qualificato come necessario dalla giurisprudenza di legittimità sopra espressa.

Per tutte le richiamate considerazioni, la Cassazione ha ritenuto  fondato il ricorso.

Valerio Pollastrini

 
1)      - Cass., Sentenza n.4579/2012;
2)      - Cass., Sentenza n.19456/2007; Cass., Sentenza n.10390/2009; Cass., Sentenza n.4579/2012; Cass., Sentenza n.16119/2005;  Cass., Sentenza n.4898/2010;

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