Il
caso di specie è giunto in Cassazione dopo che la Corte di Appello di Trieste,
confermando quanto disposto dal Tribunale di primo grado, aveva rigettato la
domanda di regresso proposta dall’INAlL nei confronti di un’azienda, finalizzata al recupero di quanto pagato dall’Istituto
in conseguenza dell’infortunio sul lavoro subito da un dipendente.
Dalle
prove raccolte, la Corte del merito aveva accertato che il dipendente era
caduto dal tetto di un capannone, alto 8-10 metri, mentre era intento a riparare il foro di un camino che era stato tolto.
Si
trattava di una prestazione nella quale l’infortunato era esperto, avendola svolta in altre
occasioni e per la quale aveva ricevuto l’ordine di realizzare un camminamento
sino al punto in cui intervenire.
Inoltre,
era stato appurato che il punto della caduta era molto distante dai
camminamenti, posti a fianco, e che nel sito non vi erano parapetti o
impalcati, ma soltanto un parapetto naturale costituito dalla struttura stessa,
nonché che l’evento si era verificato in una fase del tutto iniziale di
approntamento dei camminamenti, nella quale non era stato ancora possibile
creare la struttura su cui agganciare le cinture di sicurezza.
Lo
stesso infortunato, infatti, aveva riferito di essersi incamminato dove non vi
era ancora il camminamento a tavoloni nella suddetta fase di preparazione e di
essersi allontanato diversi metri rispetto al punto in cui egli stesso aveva
predisposto le misure di sicurezza.
Secondo
la Corte del merito, pertanto, appariva con tutta evidenza che il lavoratore
aveva disatteso l’ordine ricevuto di realizzare un camminamento fino al punto
in cui intervenire, allontanandosi inopinatamente da dove aveva predisposto le
misure di sicurezza.
Tale
ultima circostanza aveva indotto il giudice dell’appello ad escludere l’applicabilità
dell’azione di regresso invocata dall’INAIL, perché, a quanto emerso dagli
atti, non era stato ancora possibile approntare l'ancoraggio delle cinture di
sicurezza.
Avverso
detta sentenza, l’azienda aveva adito la Cassazione, lamentando che il
comportamento adottato dall’infortunato non poteva essere configurato come
condotta anomala, esorbitante o atipica (c.d. rischio elettivo), sicché, anche
se allo stesso fosse ascrivibile la colpa o un concorso di colpa, ciò non
servirebbe ad escludere la responsabilità del datore di lavoro, vista anche l’accertata
inesistenza di precauzioni diverse dalle cinture di sicurezza.
Nel
ritenere fondata detta censura, la Suprema Corte ha richiamato nella premessa
il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità in base al quale:
a)
le
norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro sono dirette a tutelare
il dipendente non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma
anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello
stesso, con la conseguenza che il datore di lavoro è sempre responsabile
dell’infortunio, sia quando ometta di adottare le idonee misure proiettive, sia
quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso,
non potendo attribuirsi alcun effetto esimente, per l’imprenditore,
all'eventuale concorso di colpa del lavoratore, la cui condotta può comportare
l’esonero totale del medesimo imprenditore da ogni responsabilità solo quando
presenti i caratteri dell’abnormità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al
procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, così da porsi come causa
esclusiva dell'evento, essendo necessaria, a tal fine, una rigorosa
dimostrazione del l’indipendenza del comportamento del lavoratore dalla sfera
di organizzazione e dalle finalità del lavoro, e, con essa, dell’estraneità del
rischio affrontato a quello connesso alle modalità ed esigenze del lavoro da
svolgere (1);
b)
in
particolare, costituisce rischio elettivo la deviazione, puramente arbitraria
ed animata da finalità personali, dalle normali modalità lavorative, che
comporta rischi diversi da quelli inerenti le usuali modalità di esecuzione
della prestazione. Tale genere di rischio risulta connotato dal simultaneo
concorso dei seguenti elementi:
-
presenza
di un atto volontario ed arbitrario, ossia illogico ed estraneo alle finalità
produttive;
-
direzione
di tale atto alla soddisfazione di impulsi meramente personali;
-
mancanza di nesso di derivazione con lo
svolgimento dell’attività lavorativa (2).
Tornando
al caso di specie, gli ermellini hanno
osservato come, sul punto, la Corte triestina, si era limitata a rilevare che:
a)
l’infortunato
aveva riferito di essersi incamminato dove non vi era ancora il camminamento a
tavoloni, nella suddetta fase di preparazione, e di essersi allontanato diversi
metri da dove egli stesso aveva predisposto le misure di sicurezza;
b)
pertanto,
con tutta evidenza, il lavoratore aveva disatteso l’ordine ricevuto di
realizzare un camminamento fino al punto in cui intervenire, allontanandosi
inopinatamente da dove aveva predisposto le misure di sicurezza.
Il
Giudice dell’appello, tuttavia, aveva mancato di conformarsi ai principi
precedentemente richiamati, visto che non aveva indicato le ragioni, né aveva
specificato adeguatamente le modalità del suddetto allontanamento dal camminamento
predisposto.
In
sostanza, la Corte del merito non aveva
chiarito se nella condotta del dipendente fossero, in concreto, rinvenibili
tutti gli elementi per configurarla come abnorme, inopinabile ed esorbitante
rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, circostanze
idonee ad esonerare il datore di lavoro da ogni responsabilità rispetto
all'infortunio, o se, invece, l’incidente si fosse verificato per colpa
esclusiva o concorrente del lavoratore, situazione che non esclude detta responsabilità
datoriale.
Per
tali ragioni, la Suprema Corte ha cassato la sentenza impugnata ed ha rinviato
la questione alla Corte di Appello di Venezia che, al fine di definire la
controversia, dovrà attenersi ai principi sin qui espressi.
Valerio
Pollastrini
1)
-
Cass., Sentenza n.19494 del 10 settembre 2009; Cass., Sentenza n.9689 del 23
aprile 2009; Cass., Sentenza n.4656 del 25 febbraio 2011; Cass., Sentenza
n.2455 del 4 febbraio 2014;
2)
-
Cass., Sentenza n.21113 del 2 ottobre 2009; Cass., Sentenza n.11417 dell’8
maggio 2009; Cass., Sentenza n.9649 del 13 giugno 2012;
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