Il
caso di specie è giusto all’attenzione degli ermellini dopo che la Corte di
Appello di Ancona, in riforma della sentenza di primo grado, aveva rigettato la
domanda con la quale un lavoratore aveva chiesto la condanna dell’Inail al
pagamento della rendita ex D.P.R. n.1124/1965, nonché dell’indennità per
inabilità temporanea, in relazione all'infortunio in itinere subito in data 3
giugno 1998.
La
Corte del merito aveva precisato che l’infortunio si era verificato poco prima
delle 8.00, orario di inizio della prestazione lavorativa, allorquando il
ricorrente si trovava alla guida dell’autovettura lungo il tragitto per raggiungere
l’azienda.
Dalla
disposta Consulenza Tecnica d’Ufficio era
stato accertato che la distanza tra l’abitazione e l’ingresso della ditta era
di poco meno di un chilometro.
Si
tratta di una distanza che risultava essere
coperta dal servizio di linea di trasporto pubblico, con partenze alle 7.05 ed
alle 7.55 e con percorrenze del tragitto in circa tre minuti.
Ciò
posto la Corte di Appello aveva ritenuto che nella specie l’uso del mezzo proprio non
fosse necessitato, atteso che il lavoratore aveva senz’altro a disposizione il
servizio di linea e che, utilizzando anche la corsa delle ore 7.55, avrebbe
potuto raggiungere il posto di lavoro all’orario programmato.
Inoltre,
data la media età lavorativa e la mancata allegazione di problemi fisici o di
salute, il ricorrente avrebbe potuto percorrere a piedi il tragitto non superiore
al chilometro senza eccessivo dispendio di energie fisiche.
Contro
questa sentenza, il lavoratore aveva adito la Cassazione, osservando che l’uso del mezzo meccanico sarebbe stato
giustificato dalla distanza tra abitazione e luogo di lavoro, tenuto conto che,
in simili casi, la giurisprudenza è
solita indicare la distanza minima in
circa metri 600 metri.
Il
ricorrente, inoltre, aveva rilevato che utilizzando il servizio di linea alle
ore 7.55 sarebbe giunto alla fermata in prossimità della ditta alle 7.58,
dovendo altresì percorrere più di 100 metri prima di entrare nello
stabilimento, raggiungere gli spogliatoi, cambiarsi e timbrare il cartellino
entro le ore 8.00, con impossibilità di rispettare l’orario di lavoro.
Investita
della questione, la Cassazione ha ritenuto il ricorso infondato.
Richiamando
il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, la Suprema
Corte ha ricordato che l'infortunio in itinere, subito dal lavoratore nel
percorrere, con mezzo proprio, la distanza fra la sua abitazione e il luogo di
lavoro, ai fini dell’indennizzabilità postula:
a)
la sussistenza di un nesso eziologico tra il percorso seguito e l'evento, nel
senso che tale percorso costituisca per l'infortunato quello normale per
recarsi al lavoro e per tornare alla propria abitazione;
b)
la sussistenza di un nesso almeno occasionale tra itinerario seguito ed
attività lavorativa, nel senso che il primo non sia dal lavoratore percorso per
ragioni personali o in orari non collegabili alla seconda;
c)
la necessità dell'uso del veicolo privato, adoperato dal lavoratore, per il
collegamento tra abitazione e luogo di lavoro, considerati i suoi orari di
lavoro e quelli dei pubblici servizi di trasporto (1).
Gli
ermellini hanno poi aggiunto che, in linea generale, per l’estensione della
copertura assicurativa all’infortunio in itinere è necessario che il
comportamento del lavoratore sia giustificato da un'esigenza funzionale alla
prestazione lavorativa, tale da legarla indissolubilmente all'attività di
locomozione, posto che il suddetto infortunio merita tutela nei limiti in cui
l'assicurato non abbia aggravato, per suoi particolari motivi o esigenze
personali, la condotta extralavorativa connessa alla prestazione per ragioni di
tempo e di luogo, interrompendo così il collegamento che giustificava la
copertura assicurativa.
In
sostanza, il rischio elettivo, escludente l'indennizzabilità e che postula un
maggior rigore valutativo, rispetto all'attività lavorativa diretta, implica
tutto ciò che, estraneo e non attinente all'attività lavorativa, sia dovuto a
scelta arbitraria del lavoratore, che abbia volutamente creato, ed affrontato,
in base a ragioni ed impulsi personali, una situazione diversa da quella
inerente la sua attività lavorativa e per nulla connessa ad essa (2).
Di
conseguenza, la valutazione dell’uso del mezzo proprio, con l’assunzione degli
ingenti rischi connessi alla circolazione stradale, deve tener conto che il
mezzo di trasporto pubblico costituisce lo strumento normale per la mobilità
delle persone e comporta il grado minimo di esposizione al rischio di incidenti
(3).
Sempre
con riferimento ai principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità, la
Cassazione ha ribadito che la valutazione dell'inerenza del rischio
all'attività lavorativa ed alle sue modalità costituisce un apprezzamento di
fatto di competenza del giudice del merito (4).
Alla
stregua degli esposti principi, pertanto, il motivo di ricorso articolato
dall’istante non può trovare accoglimento.
La
Corte distrettuale, infatti, aveva ritenuto che, nella fattispecie concreta,
l’uso del mezzo proprio non fosse necessitato, in quanto il lavoratore avrebbe potuto agevolmente disporre del servizio di linea di
trasporto pubblico e, data la media età
lavorativa e la mancata allegazione di problemi fisici o di salute, avrebbe
potuto percorrere comodamente a piedi il tragitto non superiore al chilometro.
Si
tratta di un’argomentazione che, a detta della Suprema Corte, risulta priva di
vizi logici.
Per
tutte le ragioni sopra indicate, la Cassazione ha concluso con il rigetto del
ricorso.
Valerio
Pollastrini
1)
-
Cass., Sentenza n.7717/2004;
2)
-
Cass., Sentenza n.6449/2008; Cass., Sentenza n.19047/2005;
3)
-
Cass., Sentenza n.19940/2004;
4)
-
Cass., Sentenza n.6725/2013; Cass., Sentenza n.22759/2011; Cass., Sentenza n.6449/1998;
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