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domenica 19 ottobre 2014

Avances subite sul posto di lavoro

Nella sentenza n.43314 del 30 settembre-16 ottobre 2014, la Corte di Cassazione ha escluso la sussistenza del reato di ingiuria nelle frasi scurrili di natura sessuale pronunciate da un lavoratore nei confronti di una collega.

Nella vicenda in commento, un’impiegata era stata costretta a subire le avances di un collega che, toccandole il sedere, le si era rivolto con i seguenti termini: “stasera ho un c…o…”.

La Corte di Appello di L'Aquila, confermando la sentenza di primo grado emessa dal Tribunale del capoluogo abruzzese, aveva  condannato l’uomo (1) per  l’atto sessuale imposto alla collega e per averne leso l'onore ed il decoro pronunciando la frase suddetta.

Nell’impugnare questa pronuncia, l’imputato aveva contestato alla Corte del merito l’omesso controllo dell’attendibilità delle dichiarazioni rese in giudizio dalla persona offesa, nonché lo scarso rilievo attribuito alla deposizione di un test, svilite in ragione dei tempo trascorso.

In particolare, il ricorrente aveva negato che detto teste avesse affermato di non ricordare i fatti, avendo lo stesso precisato di non avere visto con assoluta certezza alcun colloquio svoltosi tra le parti in prossimità della  sua postazione lavorativa.

L’imputato, inoltre, aveva sostenuto che la frase pronunciata non potesse assumere valenze ingiuriose.  Un’analisi del significato intrinseco delle parole contenute nella locuzione proferita evidenzierebbe, a suo dire, l’assenza di qualsivoglia intenzione di umiliare o dileggiare l'interlocutrice.  Tuttavia, il giudice dell’appello aveva ritenuto che tale frase, proprio perché pronunciata nella fase dell'approccio sessuale, dovesse essere ricondotta nell'ambito di una assai grossolana proposta.

Il ricorrente, invece, aveva dedotto l’assenza di ogni dileggio o disprezzo della collega, in quanto il contenuto autoreferenziale dell'espressione avrebbe esplicitato un effetto prodottosi nella sua persona.

In sostanza, secondo la tesi dell’uomo, da quanto appena sottolineato sarebbe illogico desumere l’offensività delle sue parole   dal collegamento funzionale della frase rispetto all'approccio sessuale.

Investita della questione, la Cassazione ha manifestato, innanzitutto, l’infondatezza della censura con la quale il ricorrente aveva dedotto la  non adeguata valutazione di dichiarazioni testimoniali che avrebbero smentito la versione resa dalla persona offesa.

In proposito, la Suprema Corte ha precisato che il teste aveva escluso con assoluta certezza di avere assistito ad un colloquio avvenuto tra le parti nei pressi della sua postazione lavorativa.

Gli ermellini, tuttavia, hanno ritenuto fondata la doglianza difensiva in ordine alla mancanza di illiceità nella frase incriminata.

Sul punto, infatti, la Corte territoriale si era limitata a considerare il solo aspetto del reato sessuale, quasi facendolo coincidere con quello della lesione verbale dell'altrui onore, mentre, invece, avrebbe dovuto anzitutto analizzare il contenuto oggettivo della frase e verificare se esso, per le parole pronunciate, esprimesse appunto, come necessario per l'integrazione del reato, offesa dell'altrui onore e decoro.

Nonostante l’indubbia volgarità della terminologia utilizzata, la Cassazione ha ritenuto che la frase “…Giuseppì…stasera ho un c…o…”, stante l'inequivoco riferimento dell'imputato non già alla interlocutrice, bensì a se stesso,  non avesse arrecato un’offesa alla dignità altrui, condizione necessaria per l’integrazione del reato contestato.

Per tale ragione, la Corte di legittimità ha annullato senza rinvio l’impugnata sentenza relativamente al reato di ingiuria perché il fatto non sussiste, con conseguente eliminazione della pena, già apportata dal primo giudice a titolo di aumento per la continuazione rispetto al più grave reato base, di giorni venti di reclusione, residuando la pena finale di mesi undici e giorni dieci di reclusione.

Quanto al resto, la Suprema Corte ha concluso con il rigetto del ricorso.

Valerio Pollastrini


1)      - per i reati di cui agli artt.609-bis e 594 c.p.;

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