Nella
vicenda in commento, un’impiegata era stata costretta a subire le avances di un
collega che, toccandole il sedere, le si era rivolto con i seguenti termini: “stasera ho un c…o…”.
La
Corte di Appello di L'Aquila, confermando la sentenza di primo grado emessa dal
Tribunale del capoluogo abruzzese, aveva condannato l’uomo (1) per l’atto sessuale imposto alla collega e per
averne leso l'onore ed il decoro pronunciando la frase suddetta.
Nell’impugnare
questa pronuncia, l’imputato aveva contestato alla Corte del merito l’omesso controllo
dell’attendibilità delle dichiarazioni rese in giudizio dalla persona offesa,
nonché lo scarso rilievo attribuito alla deposizione di un test, svilite in
ragione dei tempo trascorso.
In
particolare, il ricorrente aveva negato che detto teste avesse affermato di non
ricordare i fatti, avendo lo stesso precisato di non avere visto con assoluta
certezza alcun colloquio svoltosi tra le parti in prossimità della sua postazione lavorativa.
L’imputato,
inoltre, aveva sostenuto che la frase pronunciata non potesse assumere valenze
ingiuriose. Un’analisi del significato
intrinseco delle parole contenute nella locuzione proferita evidenzierebbe, a
suo dire, l’assenza di qualsivoglia intenzione di umiliare o dileggiare
l'interlocutrice. Tuttavia, il giudice
dell’appello aveva ritenuto che tale frase, proprio perché pronunciata nella
fase dell'approccio sessuale, dovesse essere ricondotta nell'ambito di una
assai grossolana proposta.
Il
ricorrente, invece, aveva dedotto l’assenza di ogni dileggio o disprezzo della
collega, in quanto il contenuto autoreferenziale dell'espressione avrebbe
esplicitato un effetto prodottosi nella sua persona.
In
sostanza, secondo la tesi dell’uomo, da quanto appena sottolineato sarebbe
illogico desumere l’offensività delle sue parole dal collegamento
funzionale della frase rispetto all'approccio sessuale.
Investita
della questione, la Cassazione ha manifestato, innanzitutto, l’infondatezza
della censura con la quale il ricorrente aveva dedotto la non adeguata valutazione di dichiarazioni
testimoniali che avrebbero smentito la versione resa dalla persona offesa.
In
proposito, la Suprema Corte ha precisato che il teste aveva escluso con assoluta
certezza di avere assistito ad un colloquio avvenuto tra le parti nei pressi
della sua postazione lavorativa.
Gli
ermellini, tuttavia, hanno ritenuto fondata la doglianza difensiva in ordine
alla mancanza di illiceità nella frase incriminata.
Sul
punto, infatti, la Corte territoriale si era limitata a considerare il solo
aspetto del reato sessuale, quasi facendolo coincidere con quello della lesione
verbale dell'altrui onore, mentre, invece, avrebbe dovuto anzitutto analizzare
il contenuto oggettivo della frase e verificare se esso, per le parole
pronunciate, esprimesse appunto, come necessario per l'integrazione del reato,
offesa dell'altrui onore e decoro.
Nonostante
l’indubbia volgarità della terminologia utilizzata, la Cassazione ha ritenuto
che la frase “…Giuseppì…stasera ho un c…o…”,
stante l'inequivoco riferimento dell'imputato non già alla interlocutrice,
bensì a se stesso, non avesse arrecato
un’offesa alla dignità altrui, condizione necessaria per l’integrazione del
reato contestato.
Per
tale ragione, la Corte di legittimità ha annullato senza rinvio l’impugnata
sentenza relativamente al reato di ingiuria perché il fatto non sussiste, con
conseguente eliminazione della pena, già apportata dal primo giudice a titolo
di aumento per la continuazione rispetto al più grave reato base, di giorni
venti di reclusione, residuando la pena finale di mesi undici e giorni dieci di
reclusione.
Quanto
al resto, la Suprema Corte ha concluso con il rigetto del ricorso.
Valerio
Pollastrini
1)
-
per i reati di cui agli artt.609-bis e 594 c.p.;
Nessun commento:
Posta un commento