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domenica 19 ottobre 2014

Ambiente di lavoro – Malattia professionale - Risarcimento del danno biologico

Nella sentenza n.21661 del 14 ottobre 2014, la Corte di Cassazione ha ritenuto un datore di lavoro responsabile della malattia professionale che aveva colpito uno dei suoi dipendenti.

Con ricorso al Pretore di Ascoli Piceno, una società aveva convenuto in giudizio un suo ex dipendente per la restituzione di un appartamento concessogli in uso per il più agevole svolgimento delle mansioni assegnategli.

Nel costituirsi in giudizio, il lavoratore aveva proposto domanda riconvenzionale con la quale aveva richiesto che venisse accertata la responsabilità datoriale nella subita lesione personale permanente scaturita da un’ipoacusia da trauma acustico cronico.

Il Tribunale di Ascoli Piceno, accogliendo la domanda del dipendente, aveva condannato il datore di lavoro al risarcimento del  danno biologico e morale in ragione di complessivi  96.521,60 €, oltre agli interessi come in motivazione.

Nell’impugnare la sentenza di primo grado, il datore di lavoro aveva contestato sia le risultanze della C.t.u. che le testimonianze assunte, in base alle quali il giudice avrebbe ritenuto  accertata la sua responsabilità  per l'ipoacusia accusata dal dipendente.

In subordine, il ricorrente aveva sostenuto che dalla lesione complessiva dell'attitudine al lavoro dovesse essere scorporata la quota di danno prodotta da causa extra lavorativa.

La Corte di Appello di Ancona, tuttavia, aveva respinto il gravame.

A questo punto, il datore di lavoro aveva proposto ricorso per Cassazione, deducendo che la sentenza impugnata avesse basato principalmente la sua decisione sul contenuto di un documento, nella fattispecie costituito dalla relazione al Procuratore della Repubblica di Ascoli Piceno esibita dal lavoratore in sede di consulenza,  risalente ad epoca anteriore all'inizio della causa.

Tale censura è stata ritenuta infondata dalla Suprema Corte, che, in proposito, ha precisato come il giudice dell’appello non si fosse basato unicamente su detto documento, quanto, piuttosto, sulle valutazioni del C.t.u..

Contestando l’operato del C.t.u. che, sempre a detta del ricorrente, avrebbe basato le proprie risultante su quanto riferitogli dal dipendente, il datore di lavoro aveva poi chiesto alla Cassazione se il giudice di appello potesse porre, quale base della decisione, fatti riferiti dal periziando nel corso di una Consulenza tecnica, contrastanti con quelli specificamente affermati dallo stesso periziando nella memoria costitutiva a fondamento della formulata domanda risarcitoria.

Il ricorrente, inoltre, aveva lamentato che la sentenza impugnata avrebbe accertato la sua responsabilità risarcitoria per una ipoacusia di natura neurosensoriale, nonostante il lavoratore non avesse fornito la prova della derivazione causale della stessa dall'ambiente di lavoro.

Anche tali censure sono state ritenute infondate, in quanto, dall’istruttoria, era emerso che il C.t.u. aveva maturato il proprio convincimento, non soltanto  sulle dichiarazioni del lavoratore, ma anche sulla sua accertata esposizione ad ambiente rumoroso, pari sostanzialmente al limite di 90 db, previsto dal D.Lgs n.277\1991 quale soglia di intollerabilità del rumore, e dopo aver acclarato un danno uditivo, non ricollegabile ad origini extra professionali.

La rumorosità dell'ambiente di lavoro, inoltre, risultava  confermata da un esame audiometrico eseguito presso la A.s.l.; dalle testimonianze escusse, nonché dalla presenza nei luoghi di lavoro di cuffie, del cui utilizzo il datore di lavoro era tenuto ad effettuare debito controllo (1).

Per tutte le ragioni sin qui esposte, la Cassazione ha concluso rigettando il ricorso, con conseguente condanna del datore di lavoro al pagamento delle spese per il processo di legittimità, liquidate in 4.000,00 € per compensi, 100,00 € per esborsi, oltre accessori di legge.

Valerio Pollastrini

1)      - Cass., Sentenza n.7772\1998; Cass., Sentenza n.3576\1986;

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