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domenica 21 settembre 2014

Licenziamento per violazione del segreto bancario

Nella sentenza n.19612 del 17 settembre 2014, la Corte di Cassazione ha ritenuto legittimo il licenziamento irrogato alla dipendente di un istituto bancario che aveva avvisato il cliente degli accertamenti disposti sul suo conto corrente.

Dopo che il Tribunale aveva ritenuto illegittimo il recesso, la Corte di Appello di Roma aveva sconfessato la pronuncia di primo grado, condannando la lavoratrice a restituire all’azienda le somme percepite a titolo risarcitorio.

Secondo la Corte del merito, infatti, la condotta contestata alla dipendente era stata di una gravità tale da giustificare il licenziamento.

Contro questa sentenza, la lavoratrice aveva adito la Cassazione, precisando  come, non avendo potuto subito visionare in prima persona la richiesta, avesse supposto che si trattasse di accertamenti disposti non dall’A.G. penale, ma da quella civile nell’ambito d’un processo per separazione personale fra coniugi riguardante il cliente.

La ricorrente, inoltre, aveva sostenuto di avere agito in conformità con le direttive aziendali, in base alle quali,  trattandosi di un  cliente di particolare importanza, avrebbe dovuto curarne personalmente la posizione.

A proposito della ritenuta violazione del segreto bancario, la lavoratrice aveva dedotto che questo non atterrebbe al rapporto fiduciario tra la banca ed il dipendente o tra la banca ed i terzi, bensì ai vincoli tra la banca ed il cliente.  Rapporto che, sempre a detta della ricorrente, sarebbe stato da lei  salvaguardato nel rispetto della prassi aziendale.

La lavoratrice aveva quindi contestato alla Corte territoriale la ravvisata  giusta causa di licenziamento, lamentando  la sproporzione tra la sanzione espulsiva e l’infrazione contestatale.

A sostegno della tesi volta a negare la lesione del rapporto fiduciario posto alla base del rapporto di lavoro, la ricorrente aveva sottolineato come la banca, in seguito alla sua reintegrazione disposta al termine del primo grado di giudizio, le avesse affidato, per oltre tre anni, la direzione di un’altra importante filiale.

Infine, la lavoratrice aveva ricordato che il procedimento penale, che l’aveva vista coinvolta per i fatti oggetto di contestazione, si era concluso con il suo proscioglimento dall’accusa di favoreggiamento.

Investita della questione, la Cassazione ha ritenuto infondate le censure mosse dalla ricorrente.

In particolare la Suprema Corte ha precisato che l’analisi volta ad accertare  se la violazione disciplinare addebita avesse compromesso irrimediabilmente la fiducia necessaria al permanere del rapporto di lavoro, deve riferirsi all’affidamento circa il futuro corretto adempimento dell’obbligazione lavorativa in funzione della realizzazione di leciti interessi aziendali.

Per quanto riguarda un istituto di credito, costituisce un lecito interesse quello di poter contare su lavoratori che eseguano correttamente la prestazione richiesta, eseguendo tutte le direttive aziendali senza esporre la banca a potenziali responsabilità.

Di contro, sarebbe un interesse illecito quello di fidelizzare il proprio cliente fornendogli non già migliori condizioni contrattuali, ma un aiuto, penalmente sanzionabile,  ad eludere indagini e/o misure cautelari reali legittimamente disposte dall’A.G., aiuto che, nella specie, la ricorrente aveva prestato al cliente informandolo degli accertamenti a suo carico.

Dopo questa premessa, gli ermellini hanno affermato che solo il primo di quelli sopra richiamati rappresenta un interesse giuridicamente tutelabile.

A proposito del secondo, la Corte ha precisato di non ignorare che alcuni istituti di credito possono, tacitamente o meno, incoraggiare i dipendenti affinché curino i clienti di maggior riguardo anche mediante aiuti illeciti come quello innanzi descritto.

Tuttavia, ciò non toglie che il dipendente a tanto sollecitato può andare esente da responsabilità solo ove provi di aver eseguito un preciso ordine o dimostri l’esistenza di cogenti prassi aziendali in tal senso, il che nella vicenda in oggetto non poteva dirsi emerso.

Si tratta di una conclusione che non risulta inficiata dall’asserita supposizione che gli accertamenti in corso fossero stati disposti non dall’A.G. penale, ma da quella civile nell’ambito d’un processo per separazione personale fra coniugi riguardante il cliente, in quanto ciò non esclude l’infrazione, né ne attenua la gravità.

Parimenti, il fatto che, a seguito dell’ordine di reintegra emesso in prime cure, la società abbia affidato alla ricorrente la direzione di un’altra importante filiale non smentisce l’intervenuta lesione del rapporto fiduciario tra le parti, in quanto tale provvedimento era stato disposto in applicazione del combinato disposto degli artt. 18 della legge n.300/1970 e 2103 c.c., ai sensi dei quali,  la dipendente, che già in precedenza espletava mansioni di direttrice di un’importante filiale, non poteva essere dequalificata in occasione dell’ottemperanza alla sentenza del Tribunale, provvisoriamente esecutiva.

In sostanza, la Suprema Corte ha ribadito come i giudici dell’appello avessero correttamente valutato, sia sotto il profilo oggettivo che per quello soggettivo, la proporzionalità tra infrazione disciplinare e sanzione.

Da ultimo, gli ermellini hanno ritenuto  ininfluente il proscioglimento della lavoratrice dall’accusa di favoreggiamento, non avendo il ricorso neppure allegato l’esistenza dei presupposti di vincolatività di un eventuale giudicato penale. 

Per tutte le ragioni sopra richiamate, la Cassazione ha concluso con il rigetto del ricorso, con conseguente condanna della dipendente al pagamento delle spese del processo di legittimità, liquidate in 4.000,00 € per compensi professionali, 100,00 € per esborsi,  oltre accessori come per legge.



Valerio Pollastrini

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