Dopo
che il Tribunale aveva ritenuto illegittimo il recesso, la Corte di Appello di
Roma aveva sconfessato la pronuncia di primo grado, condannando la lavoratrice
a restituire all’azienda le somme percepite a titolo risarcitorio.
Secondo
la Corte del merito, infatti, la condotta contestata alla dipendente era stata
di una gravità tale da giustificare il licenziamento.
Contro
questa sentenza, la lavoratrice aveva adito la Cassazione, precisando come, non avendo potuto subito visionare in
prima persona la richiesta, avesse supposto che si trattasse di accertamenti
disposti non dall’A.G. penale, ma da quella civile nell’ambito d’un processo
per separazione personale fra coniugi riguardante il cliente.
La
ricorrente, inoltre, aveva sostenuto di avere agito in conformità con le
direttive aziendali, in base alle quali, trattandosi di un cliente di particolare importanza, avrebbe
dovuto curarne personalmente la posizione.
A
proposito della ritenuta violazione del segreto bancario, la lavoratrice aveva
dedotto che questo non atterrebbe al rapporto fiduciario tra la banca ed il
dipendente o tra la banca ed i terzi, bensì ai vincoli tra la banca ed il
cliente. Rapporto che, sempre a detta
della ricorrente, sarebbe stato da lei salvaguardato
nel rispetto della prassi aziendale.
La
lavoratrice aveva quindi contestato alla Corte territoriale la ravvisata giusta causa di licenziamento, lamentando la sproporzione tra la sanzione espulsiva e l’infrazione
contestatale.
A
sostegno della tesi volta a negare la lesione del rapporto fiduciario posto
alla base del rapporto di lavoro, la ricorrente aveva sottolineato come la
banca, in seguito alla sua reintegrazione disposta al termine del primo grado
di giudizio, le avesse affidato, per oltre tre anni, la direzione di un’altra
importante filiale.
Infine,
la lavoratrice aveva ricordato che il procedimento penale, che l’aveva vista
coinvolta per i fatti oggetto di contestazione, si era concluso con il suo
proscioglimento dall’accusa di
favoreggiamento.
Investita
della questione, la Cassazione ha ritenuto infondate le censure mosse dalla
ricorrente.
In
particolare la Suprema Corte ha precisato che l’analisi volta ad accertare se la violazione disciplinare addebita avesse
compromesso irrimediabilmente la fiducia necessaria al permanere del rapporto
di lavoro, deve riferirsi all’affidamento circa il futuro corretto adempimento
dell’obbligazione lavorativa in funzione della realizzazione di leciti
interessi aziendali.
Per
quanto riguarda un istituto di credito, costituisce un lecito interesse quello
di poter contare su lavoratori che eseguano correttamente la prestazione
richiesta, eseguendo tutte le direttive aziendali senza esporre la banca a
potenziali responsabilità.
Di
contro, sarebbe un interesse illecito quello di fidelizzare il proprio cliente
fornendogli non già migliori condizioni contrattuali, ma un aiuto, penalmente
sanzionabile, ad eludere indagini e/o
misure cautelari reali legittimamente disposte dall’A.G., aiuto che, nella
specie, la ricorrente aveva prestato al cliente informandolo degli accertamenti
a suo carico.
Dopo
questa premessa, gli ermellini hanno affermato che solo il primo di quelli
sopra richiamati rappresenta un interesse giuridicamente tutelabile.
A
proposito del secondo, la Corte ha precisato di non ignorare che alcuni
istituti di credito possono, tacitamente o meno, incoraggiare i dipendenti
affinché curino i clienti di maggior riguardo anche mediante aiuti illeciti
come quello innanzi descritto.
Tuttavia,
ciò non toglie che il dipendente a tanto sollecitato può andare esente da
responsabilità solo ove provi di aver eseguito un preciso ordine o dimostri
l’esistenza di cogenti prassi aziendali in tal senso, il che nella vicenda in
oggetto non poteva dirsi emerso.
Si
tratta di una conclusione che non risulta inficiata dall’asserita supposizione
che gli accertamenti in corso fossero stati disposti non dall’A.G. penale, ma
da quella civile nell’ambito d’un processo per separazione personale fra coniugi
riguardante il cliente, in quanto ciò non esclude l’infrazione, né ne attenua
la gravità.
Parimenti,
il fatto che, a seguito dell’ordine di reintegra emesso in prime cure, la
società abbia affidato alla ricorrente la direzione di un’altra importante
filiale non smentisce l’intervenuta lesione del rapporto fiduciario tra le
parti, in quanto tale provvedimento era stato disposto in applicazione del
combinato disposto degli artt. 18 della legge n.300/1970 e 2103 c.c., ai sensi
dei quali, la dipendente, che già in
precedenza espletava mansioni di direttrice di un’importante filiale, non
poteva essere dequalificata in occasione dell’ottemperanza alla sentenza del
Tribunale, provvisoriamente esecutiva.
In
sostanza, la Suprema Corte ha ribadito come i giudici dell’appello avessero
correttamente valutato, sia sotto il profilo oggettivo che per quello
soggettivo, la proporzionalità tra infrazione disciplinare e sanzione.
Da
ultimo, gli ermellini hanno ritenuto ininfluente il proscioglimento della
lavoratrice dall’accusa di favoreggiamento, non avendo il ricorso neppure
allegato l’esistenza dei presupposti di vincolatività di un eventuale giudicato
penale.
Per
tutte le ragioni sopra richiamate, la Cassazione ha concluso con il rigetto del
ricorso, con conseguente condanna della dipendente al pagamento delle spese del
processo di legittimità, liquidate in 4.000,00 € per compensi professionali, 100,00
€ per esborsi, oltre accessori come per
legge.
Valerio
Pollastrini
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