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venerdì 5 settembre 2014

Inosservanza dell’orario di lavoro – Sanzione disciplinare

Nella sentenza n.18462 del 29 agosto 2014, la Corte di Cassazione ha confermato che in tutti i casi in cui la condotta posta in essere sia immediatamente percepibile dal lavoratore come illecita, perché contraria ai principi etici  o a norme di rilevanza penale, per la legittimità della corrispondente sanzione  non è necessaria la preventiva affissione del codice disciplinare aziendale.

Il caso di specie trae origine dalla sentenza con la quale il Tribunale di Bergamo aveva dichiarato la legittimità della sanzione disciplinare della sospensione dal servizio per dieci giorni, con privazione della retribuzione, comminata ad un dipendente che si era rifiutato di rispettare l'orario di servizio, presentandosi  al lavoro mezz'ora dopo l'ora fissata per l'inizio della prestazione.

Tuttavia, il Giudice del primo grado aveva condannato l’azienda a corrispondere al ricorrente la somma corrispondente alla parte di retribuzione trattenuta, in quanto il lavoratore si era sempre trattenuto mezz'ora oltre l'orario per recuperare il ritardo nell’inizio della prestazione giornaliera.

In parziale riforma della sentenza del Tribunale, la Corte di Appello di Brescia, aveva condannato il dipendente a restituire all’azienda  la somma predetta, osservando che il recupero della prestazione non valesse a riconoscergli il diritto alla relativa retribuzione, stante l’inutilizzabilità del lavoro svolto oltre l’orario prestabilito.

La Corte territoriale, inoltre, aveva chiarito che l’illecito inerente all’inosservanza dell’orario di lavoro non richiederebbe l’affissione del codice disciplinare, in quanto riguarderebbe lo stesso rapporto sinallagmatico delle prestazioni delle parti.

Contro questa sentenza, il lavoratore aveva adito la Cassazione, contestando l’affermata inutilità del codice disciplinare ai fini della legittimità della sanzione.

Il ricorrente aveva poi lamentato la violazione del suo diritto di difesa, in quanto, nell’ambito del procedimento disciplinare a suo carico, l’azienda aveva disposto la sua convocazione presso una sede diversa da quella abituale di esecuzione della prestazione.

Infine, il ricorrente aveva contestato la dedotta inutilizzabilità della prestazione svolta oltre l’orario di lavoro, dalla quale era scaturita la sua condanna alla restituzione della relativa retribuzione.

Investita della questione, la Suprema Corte ha premesso che, in tutti i casi nei quali il comportamento sanzionabile sia immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito, perché contrario al c.d. minimo etico o a norme di rilevanza penale, non sia necessario provvedere alla affissione del codice disciplinare, in quanto il lavoratore ben può rendersi conto, anche al di là di una analitica predeterminazione dei comportamenti vietati e delle relative sanzioni da parte del codice disciplinare, della illiceità della propria condotta.

Nel caso in esame, pur non assumendo rilevanza penale, sul piano civilistico l’illiceità della condotta sanzionata  appariva evidente, in quanto la mancata effettuazione della prestazione interrompe il vincolo sinallagmatico che caratterizza il rapporto di lavoro.

Per tale ragione, la Cassazione ha osservato come  un comportamento disciplinarmente rilevante contrario a principi civilistici fondamentali, quali quello della sinallagmaticità delle prestazioni, non richieda la pubblicazione del codice disciplinare.

In merito all’audizione del ricorrente, predisposta dall’azienda, nell’ambito del procedimento disciplinare, in luogo diverso da quello di abituale esecuzione delle prestazioni, la Suprema Corte ha escluso la sussistenza del diritto del lavoratore ad essere ascoltato presso il luogo ove svolge la propria mansione o nel corso dell’orario di lavoro.

In conclusione gli ermellini hanno poi confermato che l’osservanza dell’orario di lavoro prefissato costituisce un obbligo del lavoratore disciplinarmente sanzionabile.

L’utilizzabilità della prestazione in un determinato orario, infatti, consegue all’organizzazione produttiva dell’azienda e, dunque, non può essere modificata unilateralmente dal dipendente, pertanto, il datore di lavoro aveva correttamente sottratto dalla retribuzione l’ammontare relativo al lavoro non effettuato nei termini prestabiliti, a nulla rilevando il recupero al di fuori dell’orario prefissato.

Per tutte le ragioni sopra indicate, la Cassazione ha rigettato il ricorso ed ha condannato il lavoratore al pagamento delle spese del processo di legittimità, liquidate in 1.500,00 € per compensi professionali, 100,00 € per esborsi, oltre accessori di legge e spese generali del quindici per cento.

Valerio Pollastrini

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