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lunedì 1 settembre 2014

Elementi di prova della sussistenza di un rapporto di lavoro domestico

Nella sentenza n.11479, depositata il 7 novembre 2013, il Tribunale di Bari è stato chiamato ad accertare se il rapporto intercorso tra le parti fosse di natura subordinata oppure il semplice frutto di una relazione affettiva.

Il caso di specie è quello di una donna che, due anni dopo il decesso del presunto datore di lavoro,  si era rivolta al giudice sostenendo di aver svolto in nero, a favore di quest’ultimo, prestazioni di collaboratrice domestica per circa 5 anni.

La ricorrente aveva dedotto di non aver percepito alcuna retribuzione per l’attività espletata e, pertanto, aveva chiesto agli eredi del datore di lavoro il pagamento della complessiva somma di 103.676.291 lire, nonché la regolarizzazione della propria posizione assicurativa e previdenziale.

Costituitisi in giudizio, gli eredi avevano però replicato che la ricorrente, in realtà, non avesse mai  intrattenuto alcun rapporto di lavoro subordinato con il proprio congiunto, ma avesse frequentato lo stesso in forza di un rapporto di natura personale.

Investito della questione, il Tribunale ha ritenuto infondato il ricorso.

Nella premessa, il giudicante ha osservato come, nel caso di specie, fosse necessario verificare se, in base alle risultanze di causa, potesse dirsi intercorso fra le parti un rapporto lavorativo connaturato, in concreto, dai  caratteri della subordinazione, sottolineando, a tal fine, l’incombenza a carico della  lavoratrice dell'onere di provare la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della pretesa fatta valere in giudizio (1).

Come noto, l'elemento centrale del rapporto di lavoro subordinato, desumibile dall'art. 2094 c.c., è ravvisabile nella collaborazione nell'impresa alle dipendenze e sotto la direzione del datore di lavoro, tenendo conto, però, che il fulcro della subordinazione consiste nella soggezione del prestatore di lavoro al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore, che deve estrinsecarsi nell'emanazione di ordini specifici, oltre che nell'esercizio (ancorché potenziale) di una assidua attività di vigilanza e controllo nell'esecuzione delle prestazioni lavorative (2).

Tuttavia, nella pratica non è sempre agevole individuare la subordinazione e, per tale ragione,  la giurisprudenza è solita ricorrere ad una serie di indici sussidiari, rivelatori della natura dipendente del rapporto di lavoro, quali la vincolatività dell'orario, l'esclusività del rapporto, la retribuzione fissa a tempo, l'assenza di rischio in capo al lavoratore e l'inerenza della prestazione al ciclo produttivo del datore (3).

In proposito, peraltro, deve aggiungersi  che i suddetti indici hanno natura sussidiaria, in quanto svolgono una funzione di natura complementare e secondaria, meramente indiziaria rispetto all'unico elemento probante della subordinazione, rappresentato dalla dimostrazione della permanente disponibilità del prestatore nei confronti del datore di lavoro, con assoggettamento gerarchico al potere di direzione e controllo di quest'ultimo (4).

Sulla scorta delle considerazioni sin qui richiamate, il Tribunale ha sottolineato come l'istruttoria svolta non consenta di avvalorare l'assunto secondo cui la ricorrente avrebbe intrattenuto con il de cuius un rapporto di lavoro subordinato con le mansioni di collaboratrice domestica, con l'orario e nel periodo indicati.

In primo luogo, infatti, non risulta comprovato l'elemento centrale della subordinazione, consistente, come detto, nella soggezione al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro, che deve essere esplicato attraverso l'emanazione di ordini e direttive specifici e pregnanti, da valutarsi con riferimento all'incarico conferito ed alle modalità concrete della sua attuazione (5).

In particolare, il giudicante ha ritenuto assolutamente inette a suffragare gli assunti di parte attrice le deposizioni dei testi indicati dalla ricorrente, che avevano riferito del rapporto lavorativo asseritamente intrattenuto nel periodo dedotto in narrativa.

I testi, infatti, si erano limitati solamente a riferire della presenza della donna accanto al presunto datore di lavoro quando si recavano a trovarlo, mentre non avevano fornito elementi concreti in ordine alla soggezione della ricorrente al potere direttivo dello stesso.

A ciò si aggiunga che dall'istruttoria espletata, non solo non fossero emerse chiare ed univoche manifestazioni tangibili di soggezione personale della ricorrente ai poteri di direzione e disciplina dell'asserito datore di lavoro, ma non si potesse neppure evincersi con  certezza la prova di elementi sintomatici sufficientemente concludenti, come l'osservanza consueta del medesimo orario lavorativo predeterminato e costante nel tempo, la percezione di un compenso fisso periodicamente erogato, l'inserimento stabilizzato e continuo nel contesto datoriale esteso a compiti costanti e predeterminati che ne attestino il pieno inserimento nell'organizzazione di vita del resistente.

I testi di parte attrice, infatti, pur riferendo di aver visto la ricorrente in compagnia dell’uomo, non erano state in grado di precisare nulla sugli eventuali orari di lavoro, sulla corresponsione della retribuzione e sulla continuità delle prestazioni svolte.

Di contro,  l'impostazione difensiva delle parti resistenti aveva trovato piena conferma nelle dichiarazioni dei testi indicati dalle stesse e che smentiscono univocamente e graniticamente la tesi della subordinazione.

In questo caso la prova testimoniale aveva permesso di accertare l'esistenza di un rapporto personale tra la  ricorrente ed il presunto datore di lavoro che, come tale, non può essere inquadrato nell'ambito di un rapporto di lavoro subordinato.

Se è ben vero che in un rapporto di collaborazione domestica possano instaurarsi consuetudini di tipo confidenziale, è altrettanto incontrovertibile che, nel caso di specie, appare nettamente prevalente il rapporto di natura personale intercorso tra le parti. Sul punto sono illuminanti le dichiarazioni delle figlie del de cuius che, durante l’interrogatorio formale, avevano chiarito come la relazione tra la ricorrente ed il proprio padre, iniziata prima che il secondo "andasse via da casa", fosse stata la causa della separazione tra i loro genitori, circostanza confermata dal ricorso per separazione giudiziale, in cui erano stati indicati, ai fini dell’addebito, i dettagli della relazione pubblicamente nota tra la donna e l’asserito datore di lavoro.

In virtù di quanto sinora esposto, dunque, il Tribunale ha ritenuto  che, in mancanza di prove relative alla subordinazione nell'espletamento delle prestazioni di natura domestica, la presenza della ricorrente presso il domicilio dell’asserito datore fosse riconducibile unicamente ad un vincolo di fatto meramente personale ed affettivo.

Per le tutte considerazioni sin qui svolte, pertanto, la domanda proposta dalla ricorrente è stata rigettata.

Valerio Pollastrini

 
(1)   – Tribunale di Roma, Sentenza del 4 marzo 2002; Cass., Sentenza n.10262 del 15 luglio 2002;
(2)   - Cass., Sentenza n.16849/2011;  Cass., Sentenza n.26986/2009; Cass., Sentenza n.5534/2003; Cass., Sentenza n.4889/2002; Cass., Sentenza n.7608/1991;
(3)   - Cass., Sentenza n.9256/2009; Cass., Sentenza n.4500/2007; Cass., Sentenza n.849/2004; Cass., Sentenza n.2970/2001; Cass., Sentenza n.224/2001;
(4)   - Cass., Sentenza n.3745/1995; Cass., Sentenza n.326/1996;
(5)   - Cass., Sentenza n.26986/2009;

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