Il
caso di specie è quello di una donna che, due anni dopo il decesso del presunto
datore di lavoro, si era rivolta al giudice
sostenendo di aver svolto in nero, a favore di quest’ultimo, prestazioni di
collaboratrice domestica per circa 5 anni.
La
ricorrente aveva dedotto di non aver percepito alcuna retribuzione per l’attività
espletata e, pertanto, aveva chiesto agli eredi del datore di lavoro il
pagamento della complessiva somma di 103.676.291 lire, nonché la regolarizzazione
della propria posizione assicurativa e previdenziale.
Costituitisi
in giudizio, gli eredi avevano però replicato che la ricorrente, in realtà, non
avesse mai intrattenuto alcun rapporto
di lavoro subordinato con il proprio congiunto, ma avesse frequentato lo stesso
in forza di un rapporto di natura personale.
Investito
della questione, il Tribunale ha ritenuto infondato il ricorso.
Nella
premessa, il giudicante ha osservato come, nel caso di specie, fosse necessario
verificare se, in base alle risultanze di causa, potesse dirsi intercorso fra
le parti un rapporto lavorativo connaturato, in concreto, dai caratteri della subordinazione, sottolineando,
a tal fine, l’incombenza a carico della lavoratrice dell'onere di provare la sussistenza
di tutti gli elementi costitutivi della pretesa fatta valere in giudizio (1).
Come
noto, l'elemento centrale del rapporto di lavoro subordinato, desumibile
dall'art. 2094 c.c., è ravvisabile nella collaborazione nell'impresa alle
dipendenze e sotto la direzione del datore di lavoro, tenendo conto, però, che il
fulcro della subordinazione consiste nella soggezione del prestatore di lavoro
al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore, che deve
estrinsecarsi nell'emanazione di ordini specifici, oltre che nell'esercizio
(ancorché potenziale) di una assidua attività di vigilanza e controllo
nell'esecuzione delle prestazioni lavorative (2).
Tuttavia,
nella pratica non è sempre agevole individuare la subordinazione e, per tale
ragione, la giurisprudenza è solita ricorrere
ad una serie di indici sussidiari, rivelatori della natura dipendente del
rapporto di lavoro, quali la vincolatività dell'orario, l'esclusività del
rapporto, la retribuzione fissa a tempo, l'assenza di rischio in capo al lavoratore
e l'inerenza della prestazione al ciclo produttivo del datore (3).
In
proposito, peraltro, deve aggiungersi che i suddetti indici hanno natura
sussidiaria, in quanto svolgono una funzione di natura complementare e
secondaria, meramente indiziaria rispetto all'unico elemento probante della
subordinazione, rappresentato dalla dimostrazione della permanente
disponibilità del prestatore nei confronti del datore di lavoro, con
assoggettamento gerarchico al potere di direzione e controllo di quest'ultimo (4).
Sulla
scorta delle considerazioni sin qui richiamate, il Tribunale ha sottolineato
come l'istruttoria svolta non consenta di avvalorare l'assunto secondo cui la
ricorrente avrebbe intrattenuto con il de
cuius un rapporto di lavoro subordinato con le mansioni di collaboratrice
domestica, con l'orario e nel periodo indicati.
In
primo luogo, infatti, non risulta comprovato l'elemento centrale della
subordinazione, consistente, come detto, nella soggezione al potere direttivo e
disciplinare del datore di lavoro, che deve essere esplicato attraverso l'emanazione
di ordini e direttive specifici e pregnanti, da valutarsi con riferimento
all'incarico conferito ed alle modalità concrete della sua attuazione (5).
In
particolare, il giudicante ha ritenuto assolutamente inette a suffragare gli
assunti di parte attrice le deposizioni dei testi indicati dalla ricorrente,
che avevano riferito del rapporto lavorativo asseritamente intrattenuto nel
periodo dedotto in narrativa.
I
testi, infatti, si erano limitati solamente a riferire della presenza della
donna accanto al presunto datore di lavoro quando si recavano a trovarlo,
mentre non avevano fornito elementi concreti in ordine alla soggezione della
ricorrente al potere direttivo dello stesso.
A
ciò si aggiunga che dall'istruttoria espletata, non solo non fossero emerse
chiare ed univoche manifestazioni tangibili di soggezione personale della
ricorrente ai poteri di direzione e disciplina dell'asserito datore di lavoro,
ma non si potesse neppure evincersi con certezza la prova di elementi sintomatici
sufficientemente concludenti, come l'osservanza consueta del medesimo orario
lavorativo predeterminato e costante nel tempo, la percezione di un compenso
fisso periodicamente erogato, l'inserimento stabilizzato e continuo nel
contesto datoriale esteso a compiti costanti e predeterminati che ne attestino
il pieno inserimento nell'organizzazione di vita del resistente.
I
testi di parte attrice, infatti, pur riferendo di aver visto la ricorrente in
compagnia dell’uomo, non erano state in grado di precisare nulla sugli
eventuali orari di lavoro, sulla corresponsione della retribuzione e sulla
continuità delle prestazioni svolte.
Di
contro, l'impostazione difensiva delle
parti resistenti aveva trovato piena conferma nelle dichiarazioni dei testi
indicati dalle stesse e che smentiscono univocamente e graniticamente la tesi
della subordinazione.
In
questo caso la prova testimoniale aveva permesso di accertare l'esistenza di un
rapporto personale tra la ricorrente ed
il presunto datore di lavoro che, come tale, non può essere inquadrato
nell'ambito di un rapporto di lavoro subordinato.
Se
è ben vero che in un rapporto di collaborazione domestica possano instaurarsi
consuetudini di tipo confidenziale, è altrettanto incontrovertibile che, nel
caso di specie, appare nettamente prevalente il rapporto di natura personale
intercorso tra le parti. Sul punto sono illuminanti le dichiarazioni delle
figlie del de cuius che, durante l’interrogatorio
formale, avevano chiarito come la relazione tra la ricorrente ed il proprio
padre, iniziata prima che il secondo "andasse via da casa", fosse
stata la causa della separazione tra i loro genitori, circostanza confermata dal
ricorso per separazione giudiziale, in cui erano stati indicati, ai fini dell’addebito,
i dettagli della relazione pubblicamente nota tra la donna e l’asserito datore
di lavoro.
In
virtù di quanto sinora esposto, dunque, il Tribunale ha ritenuto che, in mancanza di prove relative alla
subordinazione nell'espletamento delle prestazioni di natura domestica, la
presenza della ricorrente presso il domicilio dell’asserito datore fosse riconducibile
unicamente ad un vincolo di fatto meramente personale ed affettivo.
Per
le tutte considerazioni sin qui svolte, pertanto, la domanda proposta dalla
ricorrente è stata rigettata.
Valerio
Pollastrini
(1)
–
Tribunale di Roma, Sentenza del 4 marzo 2002; Cass., Sentenza n.10262 del 15
luglio 2002;
(2)
-
Cass., Sentenza n.16849/2011; Cass.,
Sentenza n.26986/2009; Cass., Sentenza n.5534/2003; Cass., Sentenza n.4889/2002;
Cass., Sentenza n.7608/1991;
(3)
-
Cass., Sentenza n.9256/2009; Cass., Sentenza n.4500/2007; Cass., Sentenza
n.849/2004; Cass., Sentenza n.2970/2001; Cass., Sentenza n.224/2001;
(4)
-
Cass., Sentenza n.3745/1995; Cass., Sentenza n.326/1996;
(5)
-
Cass., Sentenza n.26986/2009;
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