A
detta della Suprema Corte, una simile condotta si traduce nella violazione dei
principi di correttezza e buona fede e giustifica la sanzione del recesso.
Il
caso di specie è quello del licenziamento irrogato ad un
macellaio che durante l’assenza per malattia era stato sorpreso a svolgere la propria
prestazione in favore di un’altra macelleria.
I
due gradi di giudizio del merito si erano conclusi con l’accoglimento dell’impugnativa
del recesso avanzata dal dipendente.
In
particolare, la Corte di Appello, dopo aver accertato la sussistenza della
malattia, aveva ritenuto sproporzionata la sanzione del recesso, dal momento
che la prestazione eseguita presso terzi non aveva compromesso la guarigione
del lavoratore.
Investita
della questione, la Suprema Corte, in accoglimento del ricorso del datore di
lavoro, aveva cassato l’impugnata sentenza.
Con
nuova pronuncia, la Corte di Appello, in sede di rinvio, aveva respinto la
domanda del lavoratore.
Questa
volta la Corte territoriale aveva osservato che, attraverso la condotta oggetto
di contestazione, il dipendente avesse violato i principi di correttezza e
buona fede connessi al rapporto di lavoro.
Oltre
al pacifico dato di fatto dello svolgimento di una prestazione in diretta
concorrenza con il proprio datore di lavoro, dagli atti era inoltre emerso che
la malattia che aveva determinato l’assenza
del lavoratore era stata simulata.
Un
testimone, infatti, aveva ascoltato la telefonata nella quale il dipendente aveva
offerto il proprio aiuto all’interlocutore, promettendogli che si sarebbe assentato dal
lavoro prendendosi una giornata di
malattia.
Alla
luce di tali criteri, questa volta il licenziamento era stato dichiarato
legittimo.
Contro
tale ultima sentenza, il lavoratore aveva adito la Cassazione, lamentando la
sproporzione della sanzione espulsiva rispetto alla contestata condotta.
In
particolare il ricorrente aveva dedotto l’inattendibilità della dichiarazione
rilasciata dal teste, oltre all’esiguità temporale della prestazione svolta in
favore di terzi.
Nuovamente
investita della questione, la Suprema Corte ha sottolineato come nella sentenza
impugnata il giudice dell’appello avesse accertato che il ricorrente avesse
svolto un’attività concorrenziale con
quella del proprio datore di lavoro.
La
Cassazione ha quindi preso atto che l'art.151del Contratto Collettivo Nazionale
di riferimento prevede espressamente l'irrogazione del licenziamento in caso di
violazione del dovere di non concorrenza. A tale proposito, la Corte di Appello
aveva ritenuto che la gravità della violazione legittimasse l’applicazione
della richiamata norma contrattuale, in quanto il lavoratore, in spregio dei
principi di correttezza e buona fede, aveva preteso di svolgere in favore di un’altra
azienda le stesse prestazioni che la malattia gli avrebbe impedito di eseguire
per conto del proprio datore di lavoro
Per
tali ragioni, la Suprema Corte ha concluso con il rigetto del ricorso,
confermando dunque la legittimità del licenziamento.
Valerio
Pollastrini
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