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venerdì 4 luglio 2014

Il consenso del dipendente non consente la deroga delle norme sull’orario di lavoro

Nella sentenza n.11574/2014, la Corte di Cassazione ha ricordato che il datore di lavoro non può avvalersi del consenso del dipendente per aggirare i limiti fissati dalla legge in materia di regolamentazione dell’orario di lavoro. Tali norme, infatti, possono essere derogate solamente dalla contrattazione collettiva.

Nel caso in commento, la Corte di Appello , riformando la pronuncia di primo grado, aveva respinto l’opposizione aziendale  contro  l’ ordinanza-ingiunzione emessa dalla Direzione Provinciale del lavoro per il pagamento di sanzioni concernenti violazioni in materia di orario di lavoro.

In particolare, alla società erano state contestate le seguenti violazioni, con riguardo ai periodi ed ai lavoratori specificamente indicati:

-         mancata concessione del riposo giornaliero di undici ore consecutive ogni ventiquattro;

-         mancata concessione del periodo di riposo di almeno ventiquattro ore consecutive ogni sette giorni;

Inoltre, l’azienda aveva adibito alcuni dipendenti al lavoro notturno, oltre il limite delle otto ore in media nelle ventiquattro.

Nella pronuncia di primo grado, successivamente sconfessata dalla Corte di Appello, il Tribunale aveva accolto il ricorso del datore di lavoro in considerazione del consenso espresso dai dipendenti interessati  in merito alle modalità di ripartizione dei turni di lavoro, deducendo che  costoro potessero liberamente disporre del loro diritto ai riposi nel pieno esercizio dell'autonomia contrattuale individuale.

Si tratta di un assunto che però non era stato condiviso dalla Corte di Appello che, in proposito, aveva ricordato come  il D.Lgs. n.66/2003, nel disciplinare le tutele dei dipendenti in materia di ripartizione dell’orario di lavoro, consenta alla sola contrattazione collettiva, e solo entro determinate condizioni,   la possibilità di derogare la disciplina legale, comprensiva di prescrizioni finalizzate alla protezione di valori di rango costituzionale, inclusi, tra l’altro, nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea.

A ciò si aggiunga che l'art.36 della Costituzione  sancisce l'irrinunciabilità del lavoratore ai suoi diritti alle ferie ed ai riposi settimanali.

Con specifico  riferimento ai suddetti principi, nonché a quanto previsto dalle Direttive Comunitarie 93/104/CE e 2000/34/CE, il D.Lgs.. n.66/2003 ha fissato i limiti massimi dell'orario di lavoro giornaliero e settimanale, i limiti del ricorso al lavoro straordinario e notturno e la disciplina dei riposi giornalieri e settimanali.

Solamente la contrattazione collettiva ed, eventualmente, i Decreti Ministeriali, in ragione della peculiarità dell'attività lavorativa ovvero di particolari esigenze produttive, hanno la possibilità derogare alla disciplina legale e, per ciò che attiene al caso di specie, nulla avevano disposto in tal senso.

Contro la sentenza di appello, la società aveva adito la Cassazione.

Investita della questione, la suprema Corte ha premesso che la Direttiva 104/93/CE del 23 novembre 1993 ha definito alcuni  principi fondamentali nell’ambito dell’organizzazione dell'orario di lavoro, con particolare riguardo all'orario settimanale, ai riposi, alle pause giornaliere, al lavoro notturno ed ai ritmi di lavoro, al riposo settimanale ed alle ferie annuali.

In applicazione della richiamata  Direttiva, l’ordinamento italiano ha compiuto una  revisione della disciplina interna.

Nel nostro Paese, dunque, la regolamentazione dell'orario di lavoro, dei riposi e della turnazione nelle giornate di lavoro è rimessa alla contrattazione delle parti, entro i limiti stabiliti dal  D.Lgs. n.66 dell’8 aprile 2003, il cui art.1  chiarisce che le disposizioni ivi contenute sono dirette a disciplinare in modo uniforme su tutto il territorio nazionale i profili di gestione del rapporto di lavoro, connessi alla organizzazione dell'orario.

Ai sensi dell'art.7, ferma restando la durata normale dell'orario settimanale, il lavoratore ha diritto ad undici ore di riposo consecutivo ogni ventiquattro ore ed il riposo giornaliero deve essere fruito in modo continuativo, fatte salve le attività caratterizzate da periodi di prestazione frazionati durante la giornata.

Con riferimento ai riposi settimanali, invece, il successivo art. 9, comma 1, dispone che il lavoratore ha diritto ogni sette giorni ad un periodo di riposo di almeno ventiquattro ore consecutive, di regola in coincidenza con la domenica, da cumulare con le ore di riposo giornaliero.

Il suddetto periodo di riposo consecutivo va poi calcolato come media nell’arco di un periodo non superiore a 14 giorni.

Seppur modificato dalla Legge n.133/2008, il secondo comma del suddetto articolo 7, applicabile ratione temporis  al caso di specie, annoverava le seguenti ipotesi quali uniche eccezioni alla disposizioni di cui al comma 1:

a)     attività di lavoro in turni ogni volta che il lavoratore cambi squadra e non possa usufruire, tra la fine del servizio di una squadra e l'inizio di quello della squadra successiva, di periodi di riposo giornaliero settimanale;

b)    attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati durante la giornata;

Sempre il D.Lgs. n.66/2003, prevede all’articolo 13  che l'orario di lavoro dei dipendenti adibiti a prestazioni notturne non può superare le otto ore di media nelle ventiquattro ore, salva l'individuazione da parte dei contratti collettivi, anche aziendali, di un periodo di riferimento più ampio sul quale calcolare come media il suddetto limite.

L'art. 17, infine, contempla la facoltà, riconosciuta alla contrattazione collettiva, di derogare, entro determinati limiti e a determinate condizioni, la disciplina legale relativa ai riposi giornalieri , alle pause, alle modalità di organizzazione ed alla durata del lavoro notturno, specificando che, in assenza della disciplina collettiva, i Decreti Ministeriali possano eventualmente regolamentare aspetti particolari relativi alle stesse materie.

Dopo questo lungo excursus della normativa di riferimento, la Cassazione ha riepilogato la tesi sostenuta dal ricorrente, in base alla quale,  in mancanza di una previsione espressa che ne escluda la facoltà,  il singolo lavoratore interessato potrebbe derogare i limiti legali in tema di riposi giornalieri o settimanali e di lavoro notturno.

A detta dell’azienda, in sostanza, attraverso il consenso espresso dal dipendente sarebbe possibile per il datore di lavoro determinare un’articolazione della prestazione  in violazione delle prescrizioni di tutela fissate dalla legge.

Per la Suprema Corte una simile interpretazione si pone in palese  contrasto con i principi fondamentali sia dell’ordinamento nazionale che di quello  comunitario, che, come invece ricordato nella premessa, ha dettato una disciplina vincolistica a tutela del lavoratore, derogabile solo ad opera della contrattazione collettiva e nei limiti e con le modalità stabilite dalla legge.

La Cassazione ha quindi concluso con il rigetto del ricorso, confermando, così, quanto disposto nella pronuncia di appello.

Valerio Pollastrini

 
(1)   – disciplinate dal D.Lgs. n.66/2003;
(2)   - unitamente alla successiva Direttiva 2000/34/CE;

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