Nel
caso in commento, la Corte di Appello , riformando la pronuncia di primo grado,
aveva respinto l’opposizione aziendale
contro l’ ordinanza-ingiunzione
emessa dalla Direzione Provinciale del lavoro per il pagamento di sanzioni
concernenti violazioni in materia di orario di lavoro.
In
particolare, alla società erano state contestate le seguenti violazioni, con
riguardo ai periodi ed ai lavoratori specificamente indicati:
-
mancata
concessione del riposo giornaliero di undici ore consecutive ogni ventiquattro;
-
mancata
concessione del periodo di riposo di almeno ventiquattro ore consecutive ogni
sette giorni;
Inoltre,
l’azienda aveva adibito alcuni dipendenti al lavoro notturno, oltre il limite
delle otto ore in media nelle ventiquattro.
Nella
pronuncia di primo grado, successivamente sconfessata dalla Corte di Appello, il
Tribunale aveva accolto il ricorso del datore di lavoro in considerazione del
consenso espresso dai dipendenti interessati in merito alle modalità di ripartizione dei turni
di lavoro, deducendo che costoro potessero
liberamente disporre del loro diritto ai riposi nel pieno esercizio
dell'autonomia contrattuale individuale.
Si
tratta di un assunto che però non era stato condiviso dalla Corte di Appello
che, in proposito, aveva ricordato come
il D.Lgs. n.66/2003, nel disciplinare le tutele dei dipendenti in
materia di ripartizione dell’orario di lavoro, consenta alla sola
contrattazione collettiva, e solo entro determinate condizioni, la
possibilità di derogare la disciplina
legale, comprensiva di prescrizioni finalizzate alla protezione di valori di
rango costituzionale, inclusi, tra l’altro, nella Carta dei diritti
fondamentali dell'Unione Europea.
A
ciò si aggiunga che l'art.36 della Costituzione sancisce l'irrinunciabilità del lavoratore ai
suoi diritti alle ferie ed ai riposi settimanali.
Con
specifico riferimento ai suddetti
principi, nonché a quanto previsto dalle Direttive Comunitarie 93/104/CE e
2000/34/CE, il D.Lgs.. n.66/2003 ha fissato i limiti massimi dell'orario di
lavoro giornaliero e settimanale, i limiti del ricorso al lavoro straordinario
e notturno e la disciplina dei riposi giornalieri e settimanali.
Solamente
la contrattazione collettiva ed, eventualmente, i Decreti Ministeriali, in
ragione della peculiarità dell'attività lavorativa ovvero di particolari
esigenze produttive, hanno la possibilità derogare alla disciplina legale e,
per ciò che attiene al caso di specie, nulla avevano disposto in tal senso.
Contro
la sentenza di appello, la società aveva adito la Cassazione.
Investita
della questione, la suprema Corte ha premesso che la Direttiva 104/93/CE del 23
novembre 1993 ha definito alcuni principi fondamentali nell’ambito dell’organizzazione
dell'orario di lavoro, con particolare riguardo all'orario settimanale, ai
riposi, alle pause giornaliere, al lavoro notturno ed ai ritmi di lavoro, al
riposo settimanale ed alle ferie annuali.
In
applicazione della richiamata Direttiva,
l’ordinamento italiano ha compiuto una revisione
della disciplina interna.
Nel
nostro Paese, dunque, la regolamentazione dell'orario di lavoro, dei riposi e
della turnazione nelle giornate di lavoro è rimessa alla contrattazione delle
parti, entro i limiti stabiliti dal D.Lgs.
n.66 dell’8 aprile 2003, il cui art.1 chiarisce che le disposizioni ivi contenute
sono dirette a disciplinare in modo uniforme su tutto il territorio nazionale i
profili di gestione del rapporto di lavoro, connessi alla organizzazione
dell'orario.
Ai
sensi dell'art.7, ferma restando la durata normale dell'orario settimanale, il
lavoratore ha diritto ad undici ore di riposo consecutivo ogni ventiquattro ore
ed il riposo giornaliero deve essere fruito in modo continuativo, fatte salve
le attività caratterizzate da periodi di prestazione frazionati durante la
giornata.
Con
riferimento ai riposi settimanali, invece, il successivo art. 9, comma 1, dispone
che il lavoratore ha diritto ogni sette giorni ad un periodo di riposo di
almeno ventiquattro ore consecutive, di regola in coincidenza con la domenica,
da cumulare con le ore di riposo giornaliero.
Il
suddetto periodo di riposo consecutivo va poi calcolato come media nell’arco di
un periodo non superiore a 14 giorni.
Seppur
modificato dalla Legge n.133/2008, il secondo comma del suddetto articolo 7,
applicabile ratione temporis al caso di specie, annoverava le seguenti
ipotesi quali uniche eccezioni alla disposizioni
di cui al comma 1:
a)
attività
di lavoro in turni ogni volta che il lavoratore cambi squadra e non possa
usufruire, tra la fine del servizio di una squadra e l'inizio di quello della
squadra successiva, di periodi di riposo giornaliero settimanale;
b)
attività
caratterizzate da periodi di lavoro frazionati durante la giornata;
Sempre
il D.Lgs. n.66/2003, prevede all’articolo 13 che l'orario di lavoro dei dipendenti adibiti
a prestazioni notturne non può superare le otto ore di media nelle ventiquattro
ore, salva l'individuazione da parte dei contratti collettivi, anche aziendali,
di un periodo di riferimento più ampio sul quale calcolare come media il
suddetto limite.
L'art.
17, infine, contempla la facoltà, riconosciuta alla contrattazione collettiva,
di derogare, entro determinati limiti e a determinate condizioni, la disciplina
legale relativa ai riposi giornalieri , alle pause, alle modalità di
organizzazione ed alla durata del lavoro notturno, specificando che, in assenza
della disciplina collettiva, i Decreti Ministeriali possano eventualmente
regolamentare aspetti particolari relativi alle stesse materie.
Dopo
questo lungo excursus della normativa di riferimento, la Cassazione ha
riepilogato la tesi sostenuta dal ricorrente, in base alla quale, in mancanza di una previsione espressa che ne
escluda la facoltà, il singolo
lavoratore interessato potrebbe derogare i limiti legali in tema di riposi
giornalieri o settimanali e di lavoro notturno.
A
detta dell’azienda, in sostanza, attraverso il consenso espresso dal dipendente
sarebbe possibile per il datore di lavoro determinare un’articolazione della
prestazione in violazione delle
prescrizioni di tutela fissate dalla legge.
Per
la Suprema Corte una simile interpretazione si pone in palese contrasto con i principi fondamentali sia dell’ordinamento
nazionale che di quello comunitario, che,
come invece ricordato nella premessa, ha dettato una disciplina vincolistica a
tutela del lavoratore, derogabile solo ad opera della contrattazione collettiva
e nei limiti e con le modalità stabilite dalla legge.
La
Cassazione ha quindi concluso con il rigetto del ricorso, confermando, così,
quanto disposto nella pronuncia di appello.
Valerio
Pollastrini
(1)
–
disciplinate dal D.Lgs. n.66/2003;
(2)
-
unitamente alla successiva Direttiva 2000/34/CE;
Nessun commento:
Posta un commento