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mercoledì 2 luglio 2014

Condanna del datore di lavoro per il decesso del dipendente inesperto

Nella sentenza n.24616 dell’11 giugno 2014, la Corte di Cassazione, Sezione Penale, ha confermato la responsabilità del datore di lavoro per il decesso del proprio dipendente in seguito ad infortunio in azienda.

Nel caso di specie, la Corte di Appello aveva confermato la sentenza con la quale il Tribunale aveva condannato a 10 mesi di reclusione il legale rappresentante di un’azienda edile, ritenuto responsabile (1) della morte di un suo dipendente.

Il sinistro si era  verificato durante i lavori di ristrutturazione  di un edificio.

La vittima era un lavoratore in prova, assunto il giorno stesso dell'infortunio senza aver ricevuto preventivamente alcuna  formazione sui rischi specifici dell'attività che avrebbe dovuto svolgere.

Mente era adibito alla demolizione di  una struttura, il dipendente era  salito sul tetto, il cui accesso non era interdetto da alcun cartello, per porre una protezione all'area di pertinenza ed  era precipitato nel vuoto da un'altezza di circa 23 metri.

Il datore di lavoro era stato ritenuto responsabile dell’accaduto in quanto,  violando gli artt.21 e 22  del D.Lgs. n.626 del  19 settembre 1994, aveva  consentito o, comunque, non impedito che il proprio dipendente eseguisse l'attività di manovale, in modo autonomo,  senza avere provveduto preventivamente ad impartirgli  un'adeguata informazione sui rischi specifici connessi all'attività da svolgere nel cantiere.

Il datore di lavoro, inoltre, aveva omesso di accertarsi che  il lavoratore medesimo avesse acquisito un’adeguata formazione in materia di sicurezza e salute relativa al proprio posto di lavoro e alle proprie mansioni.

La responsabilità dell’imputato era poi stata dedotta in quanto lo stesso non aveva garantito idonee condizioni di sicurezza del luogo di lavoro, consentendo al dipendente di  operare  liberamente  in prossimità dell’area dell’infortunio, privo delle opere di sbarramento, necessarie ad impedire l’eventuale caduta delle persone (2).

Investita della questione, la Cassazione ha ribadito la correttezza dell’affermazione con la quale i giudici del merito avevano chiarito che, salvo i casi della assoluta abnormità del comportamento del dipendente, il datore di lavoro è responsabile anche degli infortuni ascrivibili a imperizia, negligenza ed imprudenza del lavoratore.

Al riguardo, la Suprema Corte ha ricordato come la particolare posizione di garanzia rivestita imponga al datore di lavoro di predisporre tutti gli accorgimenti,  le procedure e le cautele necessari a garantire la massima protezione della salute e della incolumità del dipendente.

Si tratta di un onere   che impedisce al datore di lavoro di fare  affidamento sull’autonomo  rispetto da parte del lavoratore delle norme sulla sicurezza e che, parimenti, gli impone un costante accertamento volto ad assicurarsi che  la concreta esecuzione dei lavoro avvenga nel rispetto di tutte le misure di prevenzione.

Poiché le norme  antinfortunistiche mirano a tutelare il lavoratore anche dagli incidenti che potrebbero essere causati da  una sua negligenza, imprudenza o imperizia, il comportamento anomalo del dipendente può considerarsi l’esclusiva causa dell’evento, escludendo così la responsabilità del datore di lavoro, solo quando una simile condotta risulti assolutamente estranea al processo produttivo o alle mansioni attribuite, risolvendosi, di fatto, in un’azione del tutto esorbitante ed imprevedibile.

Al datore di lavoro, invece, va imputata la responsabilità dell’evento nel caso in cui il comportamento dell’infortunato, quand’anche avventato, disattento, imprudente, o negligente, non sia eccezionale ed imprevedibile, in quanto  posto in essere nel contesto dell'attività lavorativa svolta.

Tornando al caso di specie, la Cassazione ha ribadito la correttezza dell’accertamento compiuto dai giudici di merito che aveva evidenziato  la non abnormità del comportamento del lavoratore, dal momento che le modalità esecutive della prestazione da cui era scaturito l’infortunio mortale, anche se errate e pericolose, rientravano nel novero delle violazioni comportamentali tipiche dei dipendenti che ritengono di avere acquisito piena competenza ed abilità nelle proprie mansioni, in virtù delle quali scelgano  autonomamente di adottare  tecniche operative diverse da quelle normalmente seguite.

Si tratta, in  sostanza, di condotte che, in quanto prevedibili,  devono essere neutralizzate dal datore di lavoro attraverso gli opportuni accorgimenti.

Nella vicenda in commento, dunque,  l’azienda avrebbe dovuto impartire il divieto  di salire sul tetto, attraverso apposite istruzioni, segnalazioni evidenti e permanenti  o, ancora, per mezzo di idonee barriere.

Per tutte le richiamate motivazioni, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso, confermando la condanna dell’imprenditore disposta nella sentenza di Appello.

Valerio Pollastrini

 
(1)   - delitto di cui all'art.589, comma 2,  c.p.;
(2) – in violazione dei seguenti precetti: art.9, comma 1, lett.a), del D.Lgs. n.494 del 14 agosto 1996; art.4 del D.Lgs. n.626/1994; artt.16 e 24 del D.P.R. n.164 del 7 gennaio 1956;

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