Nel
caso di specie, la Corte di Appello aveva confermato la sentenza con la quale
il Tribunale aveva condannato a 10 mesi di reclusione il legale rappresentante
di un’azienda edile, ritenuto responsabile (1) della morte di un suo dipendente.
Il
sinistro si era verificato durante i lavori
di ristrutturazione di un edificio.
La
vittima era un lavoratore in prova, assunto il giorno stesso dell'infortunio
senza aver ricevuto preventivamente alcuna
formazione sui rischi specifici dell'attività che avrebbe dovuto
svolgere.
Mente
era adibito alla demolizione di una
struttura, il dipendente era salito sul
tetto, il cui accesso non era interdetto da alcun cartello, per porre una
protezione all'area di pertinenza ed era
precipitato nel vuoto da un'altezza di circa 23 metri.
Il
datore di lavoro era stato ritenuto responsabile dell’accaduto in quanto, violando gli artt.21 e 22 del D.Lgs. n.626 del 19 settembre 1994, aveva consentito o, comunque, non impedito che il
proprio dipendente eseguisse l'attività di manovale, in modo autonomo, senza avere provveduto preventivamente ad
impartirgli un'adeguata informazione sui
rischi specifici connessi all'attività da svolgere nel cantiere.
Il
datore di lavoro, inoltre, aveva omesso di accertarsi che il lavoratore medesimo avesse acquisito un’adeguata
formazione in materia di sicurezza e salute relativa al proprio posto di lavoro
e alle proprie mansioni.
La
responsabilità dell’imputato era poi stata dedotta in quanto lo stesso non
aveva garantito idonee condizioni di sicurezza del luogo di lavoro, consentendo
al dipendente di operare liberamente in prossimità dell’area dell’infortunio, privo
delle opere di sbarramento, necessarie ad impedire l’eventuale caduta delle
persone (2).
Investita
della questione, la Cassazione ha ribadito la correttezza dell’affermazione con
la quale i giudici del merito avevano chiarito che, salvo i casi della assoluta
abnormità del comportamento del dipendente, il datore di lavoro è responsabile
anche degli infortuni ascrivibili a imperizia, negligenza ed imprudenza del
lavoratore.
Al
riguardo, la Suprema Corte ha ricordato come la particolare posizione di
garanzia rivestita imponga al datore di lavoro di predisporre tutti gli
accorgimenti, le procedure e le cautele
necessari a garantire la massima protezione della salute e della incolumità del
dipendente.
Si
tratta di un onere che impedisce al
datore di lavoro di fare affidamento
sull’autonomo rispetto da parte del lavoratore
delle norme sulla sicurezza e che, parimenti, gli impone un costante
accertamento volto ad assicurarsi che la
concreta esecuzione dei lavoro avvenga nel rispetto di tutte le misure di
prevenzione.
Poiché
le norme antinfortunistiche mirano a
tutelare il lavoratore anche dagli incidenti che potrebbero essere causati da una sua negligenza, imprudenza o imperizia, il
comportamento anomalo del dipendente può considerarsi l’esclusiva causa dell’evento,
escludendo così la responsabilità del datore di lavoro, solo quando una simile
condotta risulti assolutamente estranea al processo produttivo o alle mansioni
attribuite, risolvendosi, di fatto, in un’azione del tutto esorbitante ed imprevedibile.
Al
datore di lavoro, invece, va imputata la responsabilità dell’evento nel caso in
cui il comportamento dell’infortunato, quand’anche avventato, disattento,
imprudente, o negligente, non sia eccezionale ed imprevedibile, in quanto posto in essere nel contesto dell'attività
lavorativa svolta.
Tornando
al caso di specie, la Cassazione ha ribadito la correttezza dell’accertamento compiuto
dai giudici di merito che aveva evidenziato la non abnormità del comportamento del
lavoratore, dal momento che le modalità esecutive della prestazione da cui era
scaturito l’infortunio mortale, anche se errate e pericolose, rientravano nel
novero delle violazioni comportamentali tipiche dei dipendenti che ritengono di
avere acquisito piena competenza ed abilità nelle proprie mansioni, in virtù
delle quali scelgano autonomamente di
adottare tecniche operative diverse da
quelle normalmente seguite.
Si
tratta, in sostanza, di condotte che, in
quanto prevedibili, devono essere
neutralizzate dal datore di lavoro attraverso gli opportuni accorgimenti.
Nella
vicenda in commento, dunque, l’azienda
avrebbe dovuto impartire il divieto di
salire sul tetto, attraverso apposite istruzioni, segnalazioni evidenti e
permanenti o, ancora, per mezzo di
idonee barriere.
Per
tutte le richiamate motivazioni, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso,
confermando la condanna dell’imprenditore disposta nella sentenza di Appello.
Valerio
Pollastrini
(1)
-
delitto di cui all'art.589, comma 2, c.p.;
(2) – in violazione
dei seguenti precetti: art.9, comma 1, lett.a), del D.Lgs. n.494 del 14 agosto
1996; art.4 del D.Lgs. n.626/1994; artt.16 e 24 del D.P.R. n.164 del 7 gennaio
1956;
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