Nel
caso di specie, sia l’amministratore che
un membro del consiglio di amministrazione della stessa società erano stati
accusati di averne cagionato il fallimento con alcune operazioni dolose, con le quali
avevano omesso sistematicamente di
versare i contributi previdenziali ed assistenziali, oltre altre voci
retributive, accumulando così un debito
di circa due milioni di euro.
Agli
stessi, inoltre, era stata contestata la falsa
apposizione in bilancio di crediti inesistenti.
La
vicenda è giunta in Cassazione dopo che la Corte di Appello, confermando la pronuncia di primo grado, aveva condannato gli imputati per il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale
impropria e documentale.
Ad
avviso dei ricorrenti, per la configurazione del reato la condotta attiva dovrebbe essere integrata
da una pluralità di azioni coordinate verso l'esito preordinato, idoneo,
dunque, a determinare l'insolvenza della società.
Richiamando
la giurisprudenza di legittimità (1), gli imputati avevano lamentato che
oggetto di contestazione dovrebbero essere gli
atti positivi comportanti
un'indebita diminuzione dell’attivo societario e che quindi risultino
intrinsecamente pericolosi per la natura economico-finanziaria dell’impresa.
In
base alle suddette considerazioni, i
ricorrenti avevano sostenuto che la loro
condotta non potesse integrare la
fattispecie in esame, in quanto meramente omissiva.
Investita
della questione, la Cassazione ha ricordato che, ai sensi dell’art.223, comma
2, n.2, del R.D. n.267 del 16 marzo 1942, le operazioni dolose si configurano
nel comportamento con il quale gli amministratori cagionino il fallimento dell’impresa
attraverso abusi o infedeltà nell'esercizio della carica ricoperta.
In
sostanza, si tratta di condotte che non necessariamente costituiscono di per sé
dei reati, ma che si traducono in una condotta dell’amministratore che cagioni,
attraverso il ricorso ad abusi o infedeltà, il fallimento dell’azienda.
Per
la configurazione del reato, pertanto, è necessario che dal comportamento abusivo,
infedele o illegittimo del titolare del potere sociale, sia derivato un depauperamento
dell'impresa, dal quale sia scaturito il fallimento.
Nel
rigettare il ricorso, la Suprema Corte ha ribadito come anche l’omesso
versamento di cifre rilevanti agli enti previdenziali e agli altri enti preposti,
costituisce comportamento doloso in
grado di determinare uno stato di
gravissima e irrevocabile esposizione debitoria della società, dal quale derivi
la dichiarazione di fallimento.
Par
la fattispecie di reato in commento, oltre all’omesso versamento delle ritenute
previdenziali e fiscali, assume un particolare rilievo sia il mancato accantonamento delle somme suddette,
che la falsa predisposizione di bilanci positivi a fronte di una situazione reale
assolutamente negativa.
Valerio
Pollastrini
(1)
–
Cass., Sentenza n.17690/2010;
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