Nel
caso di specie, un dipendente, rientrato
in servizio dopo un periodo di assenza qualificata come infortunio sul lavoro, si era nuovamente assentato
per malattia, producendo un certificato medico che asseriva il collegamento
dell’evento morboso al pregresso
infortunio.
L’Inail,
rispondendo ad uno specifico interpello proposto dall’azienda, aveva respinto
la richiesta del lavoratore, affermando,
in sostanza, che il periodo di ricaduta non fosse riconducibile all’evento
infortunistico già indennizzato.
Il
datore di lavoro aveva quindi considerato la nuova assenza come una malattia comune e, dal momento che con la
stessa risultava superato il periodo di comporto, aveva licenziato il dipendente.
Dopo
che la Corte di Appello ne aveva rigettato la domanda, il lavoratore aveva
adito la Cassazione, contestando all’azienda la violazione dell’obbligo di buona fede nell'esecuzione del
contratto.
A
suo dire, infatti, il datore di lavoro, prima di procedere al licenziamento, avrebbe
dovuto comunicargli l’approssimarsi
della maturazione del periodo di comporto, oltre alla possibilità di usufruire
del periodo di aspettativa non retribuita prevista dal Contratto Collettivo,
ovvero della riqualificazione della causa di assenza.
Investita
della questione, la Suprema Corte ha preliminarmente osservato che il lavoratore
avrebbe potuto desumere l’effettiva qualificazione dell’assenza - non
riconducibile al pregresso infortunio – anche da ulteriori elementi, come i
certificati di assenza per malattia comune inviati dallo stesso, la sottoposizione
alle visite di controllo domiciliari da
parte dei medici incaricati dall’Inps e la mancata erogazione dell’indennità INAIL.
La
Cassazione ha poi ritenuto priva di rilievo giuridico la censura del ricorrente
inerente alla mancata comunicazione del mancato riconoscimento da parte dell'INAIL della riconducibilità dell’assenza per malattia
all’infortunio pregresso.
Dalla
normativa di riferimento (1), infatti, non
si evince alcun obbligo di informativa a carico del datore di lavoro sull’imminenza
della scadenza del periodo di comporto o sull’offerta di un periodo di
aspettativa consentito dalla normativa contrattuale collettiva applicabile.
Per
la Suprema Corte, dunque, in assenza di
qualsiasi obbligo previsto dalla contrattazione collettiva, il datore di lavoro
non ha l'onere di avvertire preventivamente il lavoratore della imminente
scadenza del periodo di comporto per malattia, consentendo allo stesso di
esercitare l’eventualmente facoltà di richiedere tempestivamente un periodo di
aspettativa.
Per
tutte le richiamate ragioni la Cassazione
ha concluso con il rigetto del ricorso.
Valerio
Pollastrini
(1)
-
artt.52 e 53 del T.U. 1124/65;
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