Ad
un datore di lavoro era stato contestato il reato di riduzione in schiavitù (1), per avere
tenuto alle proprie dipendenze alcuni cittadini rumeni in condizioni di estremo
degrado materiale, poiché ospitati in locali fatiscenti, in pessime condizioni
igienico - sanitarie, con somministrazione scarsa o nulla di cibo e privazione
del compenso.
La
Corte di Appello di Roma, riformando la sentenza del Tribunale di Viterbo,
aveva riqualificato la condotta originariamente contestata come maltrattamenti
in famiglia (2) ed aveva
ridotto la pena di otto anni e tre mesi di reclusione, inflitta all’imputato al
termine del primo grado di giudizio, rideterminandola nella misura di due anni di
reclusione.
Secondo
la Corte del merito, le condizioni inflitte
non avevano impedito alle persone offese di sottrarsi all'iniquo regime lavorativo, senza che
fossero state dissuase attraverso
minacce e/o violenze.
Il
giudice dell’appello, pertanto, aveva ritenuto che la condotta contestata
integrasse il meno grave reato di maltrattamenti in famiglia.
Più
volte, infatti, la giurisprudenza ha ritenuto sussistente tale fattispecie di
reato anche nell'ambito dei rapporti lavorativi di natura cd. parafamiliare, caratterizzati
da alcuni elementi risultati presenti nel caso di specie, come l'esistenza di
relazioni abituali ed intense tra datore di lavoro e dipendenti, consuetudini
di vita tra tali soggetti, assoggettamento dei lavoratori e la fiducia riposta dal soggetto passivo in quello
attivo.
L’imputato
aveva adito la Suprema Corte, deducendo l’insussistenza del dolo, in quanto gli
sarebbero state attribuite condotte logicamente a lui non riferibili.
Investita
della questione, la Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, poiché manifestamente
infondato.
Secondo
gli ermellini, escludendo correttamente la sussistenza del più grave reato di
riduzione in schiavitù, la Corte territoriale aveva valutato adeguatamente le
condizioni di estrema durezza del rapporto lavorativo, instauratosi tra
l'imputato ed alcuni dipendenti di
nazionalità rumena.
In
particolare, dagli atti era emerso come le suddette condizioni fossero caratterizzate da situazioni di acuto
disagio, riferite al vitto, all'alloggio e alle relative condizioni igieniche.
La
Cassazione ha poi richiamato alcuni precedenti nei quali la giurisprudenza di
legittimità aveva escluso la sussistenza del reato di riduzione in schiavitù,
attribuendo alle condotte imputate la
più lieve fattispecie dei maltrattamenti in famiglia (3), come, ad
esempio, nel caso in cui,nell'ambito di un rapporto professionale o di lavoro,
il soggetto attivo si trovi un una posizione di supremazia, connotata
dall'esercizio di un potere direttivo o disciplinare tale da rendere
ipotizzabile una condizione di soggezione, anche solo psicologica, del soggetto
passivo, che appaia riconducibile ad un rapporto di natura parafamiliare (4).
Tornando
al caso di specie la Suprema Corte ha
ritenuto configurata la suddetta ipotesi di reato, in quanto la vicinanza tra
il datore di lavoro ed i suo subordinati era tale da imporre a questi ultimi di
vivere, in condizioni estremamente precarie, in un alloggio fornito dal primo e
nel quale la dipendenza e la soggezione
dei secondi si era manifestata al punto che fosse il ricorrente a fornire il vitto
ai dipendenti, trattenendo addirittura i loro documenti d'identità al fine di
impedirne l'allontanamento.
Sulla
base di tali elementi, pertanto, la Corte di Appello, ritenendo correttamente
che il rapporto lavorativo anzidetto fosse
di natura parafamiliare, aveva riscontrato la presenza di condizioni
sufficienti ad integrare il reato ascritto.
Per
tale ragione la Cassazione ha concluso con il rigetto del ricorso ed ha
condannato il datore di lavoro al pagamento delle spese processuali, oltre ad una somma aggiuntiva in favore della cassa delle
ammende, determinata nella misura di 1.000,00 €.
Valerio
Pollastrini
(1)
–
Art.600, comma 1, del Codice Penale;
(2)
-
ai sensi dell'art.572 del Codice Penale;
(3)
-
Cass.,
Sentenza n.28603 del 28 marzo 2013; Cass., Sentenza n.16094 del 11 aprile 2012;
Cass., Sentenza n.685 del 22 settembre 2010;
(4)
-
Cass., Sentenza n.43100 del 10 ottobre 2011;
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