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martedì 10 giugno 2014

Reato di maltrattamenti in famiglia configurato nell’ambito di un rapporto di lavoro

Nella sentenza n.24057  del 9 giugno 2014, la Corte di Cassazione ha ribadito la condanna del datore di lavoro per  il reato di maltrattamenti in famiglia ai danni di alcuni dipendenti, ospitati, in condizioni di estremo degrado,  in locali fatiscenti.

Ad un datore di lavoro era stato contestato il reato di riduzione in schiavitù (1), per avere tenuto alle proprie dipendenze alcuni cittadini rumeni in condizioni di estremo degrado materiale, poiché ospitati in locali fatiscenti, in pessime condizioni igienico - sanitarie, con somministrazione scarsa o nulla di cibo e privazione del compenso.

La Corte di Appello di Roma, riformando la sentenza del Tribunale di Viterbo, aveva riqualificato la condotta originariamente contestata come maltrattamenti in famiglia (2) ed aveva ridotto la pena di otto anni e tre mesi di reclusione, inflitta all’imputato al termine del primo grado di giudizio, rideterminandola nella misura di due anni di reclusione.

Secondo la Corte del merito,  le condizioni inflitte non avevano impedito alle persone offese di sottrarsi  all'iniquo regime lavorativo, senza che fossero state  dissuase attraverso minacce e/o violenze.

Il giudice dell’appello, pertanto, aveva ritenuto che la condotta contestata integrasse il meno grave reato di maltrattamenti in famiglia.

Più volte, infatti, la giurisprudenza ha ritenuto sussistente tale fattispecie di reato anche nell'ambito dei rapporti lavorativi di natura cd. parafamiliare, caratterizzati da alcuni elementi risultati presenti nel caso di specie, come l'esistenza di relazioni abituali ed intense tra datore di lavoro e dipendenti, consuetudini di vita tra tali soggetti, assoggettamento dei lavoratori e la  fiducia riposta dal soggetto passivo in quello attivo.

L’imputato aveva adito la Suprema Corte, deducendo l’insussistenza del dolo, in quanto gli sarebbero state attribuite condotte logicamente a lui non riferibili.

Investita della questione, la Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, poiché manifestamente infondato.

Secondo gli ermellini, escludendo correttamente la sussistenza del più grave reato di riduzione in schiavitù, la Corte territoriale aveva valutato adeguatamente le condizioni di estrema durezza del rapporto lavorativo, instauratosi tra l'imputato ed alcuni  dipendenti di nazionalità rumena.

In particolare, dagli atti era emerso come le suddette condizioni  fossero caratterizzate da situazioni di acuto disagio, riferite al vitto, all'alloggio e alle relative condizioni igieniche.

La Cassazione ha poi richiamato alcuni precedenti nei quali la giurisprudenza di legittimità aveva escluso la sussistenza del reato di riduzione in schiavitù, attribuendo alle condotte imputate  la più lieve fattispecie dei maltrattamenti in famiglia (3), come, ad esempio, nel caso in cui,nell'ambito di un rapporto professionale o di lavoro, il soggetto attivo si trovi un una posizione di supremazia, connotata dall'esercizio di un potere direttivo o disciplinare tale da rendere ipotizzabile una condizione di soggezione, anche solo psicologica, del soggetto passivo, che appaia riconducibile ad un rapporto di natura parafamiliare (4).

Tornando al caso di specie la  Suprema Corte ha ritenuto configurata la suddetta ipotesi di reato, in quanto la vicinanza tra il datore di lavoro ed i suo subordinati era tale da imporre a questi ultimi di vivere, in condizioni estremamente precarie, in un alloggio fornito dal primo e nel quale  la dipendenza e la soggezione dei secondi si era manifestata al punto che fosse il ricorrente a fornire il vitto ai dipendenti, trattenendo addirittura i loro documenti d'identità al fine di impedirne l'allontanamento.

Sulla base di tali elementi, pertanto, la Corte di Appello, ritenendo correttamente che il rapporto lavorativo anzidetto fosse di natura parafamiliare, aveva riscontrato la presenza di condizioni sufficienti ad integrare il reato ascritto.

Per tale ragione la Cassazione ha concluso con il rigetto del ricorso ed ha condannato il datore di lavoro al pagamento delle spese processuali, oltre  ad una somma aggiuntiva in favore della cassa delle ammende, determinata nella misura di 1.000,00 €.

Valerio Pollastrini

(1)   – Art.600, comma 1, del Codice Penale;
(2)   - ai sensi dell'art.572 del  Codice Penale;
(3)   - Cass., Sentenza n.28603 del 28 marzo 2013; Cass., Sentenza n.16094 del 11 aprile 2012; Cass., Sentenza  n.685 del 22 settembre 2010;
(4)   - Cass., Sentenza n.43100 del 10 ottobre 2011;

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