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domenica 22 giugno 2014

Maternità e conservazione dello status di lavoratore

Nella sentenza n. C-507/12 del 19 giugno 2014, la Corte di Giustizia Europea ha affermato che  la donna che abbia smesso di lavorare o di cercare un impiego a causa della maternità  conserva la qualità di “lavoratore”, purché,  entro un ragionevole periodo di tempo dopo la nascita del figlio, rientri in azienda o trovi un altro impiego.

Si tratta di un principio che trova diretta applicazione esclusivamente in favore delle cittadine degli stati membri in stato interessante o puerpere nel periodo vicino al parto e che, pertanto, non può essere esteso alle straniere, a meno che le stesse non abbiano acquisito lo status di lavoratore ai sensi della direttiva sul diritto di libera circolazione e di soggiorno dei cittadini dell’Unione.

Il caso di specie ha riguardato una lavoratrice  francese che, trasferitasi nel Regno Unito, aveva lavorato  come insegnante ausiliaria addetta al controllo dei bambini piccoli.

Dopo essere rimasta in cinta, la donna, occupata con contratto interinale presso alcune scuole materne,  aveva abbandonato il proprio impiego in prossimità del sesto mese di gravidanza, in quanto le prestazioni abitualmente svolte le erano diventate troppo faticose.

La dipendente aveva quindi richiesto  il pagamento dell’indennità integrativa del reddito che, però, le era stata rifiutata perché l’amministrazione aveva ritenuto che la stessa avesse perso la qualità di lavoratore.
                                                                                     
Nel maturare la propria decisione, la Corte di Giustizia ha richiamato quanto disposto dall’art.7 della  Direttiva 2004/38/CE  del Parlamento Europeo,  relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri.

Secondo tale direttiva, ciascun cittadino dell’Unione ha il diritto di soggiornare per un periodo superiore a tre mesi nel territorio di un altro Stato membro, purché risulti titolare di un rapporto di lavoro subordinato o autonomo nello Stato europeo ospitante.

Il paragrafo 1, lettera a), della norma  specifica  come  il cittadino dell’Unione che abbia cessato il rapporto subordinato o autonomo conservi la qualità di lavoratore nei seguenti casi:

-         temporanea inabilità al lavoro a seguito di una malattia o di un infortunio;

-         comprovato stato di disoccupazione involontaria dopo lo svolgimento per oltre un anno di un’attività lavorativa, purché l’interessato si sia registrato presso l’ufficio di collocamento competente al fine di trovare un nuovo impiego;

-         in caso di comprovato stato di disoccupazione involontaria al termine di un contratto di lavoro a tempo determinata inferiore ad un anno o nel caso in cui tale stato si configuri  durante i primi dodici mesi, purché l’interessato si sia registrato presso l’ufficio di collocamento competente al fine di trovare un lavoro. In tale circostanza, la conservazione della qualità di lavoratore subordinato permarrà per un periodo che non può essere inferiore a sei mesi;

-         partecipazione ad un corso di formazione professionale. Salvo il caso di disoccupazione involontaria, la conservazione della qualità di lavoratore subordinato presuppone l’esistenza di un collegamento tra l’attività professionale precedentemente svolta ed il corso seguito.

Il giudicante europeo, tuttavia, ha precisato che la direttiva sul diritto di libera circolazione e di soggiorno dei cittadini dell’Unione non elenca in maniera esaustiva le circostanze nelle quali un lavoratore migrante possa continuare a beneficiare dello status di lavoratore anche nel caso in cui abbia perso l’impiego.

Sul punto, costituisce però giurisprudenza costante della stessa Corte il principio in base al quale la gravidanza,  in alcun modo assimilabile ad uno stato patologico, deve essere nettamente distinta dalla malattia.

In conseguenza di tale principio, la donna, che durante la  maternità cessi momentaneamente di lavorare nelle ultime fasi della gravidanza e nel periodo successivo al parto, non può essere qualificata come persona temporaneamente inabile al lavoro a seguito di una malattia.

Sempre richiamando la giurisprudenza consolidata, la Corte ha poi ribadito che,   ai sensi del TFUE, la qualifica di lavoratore, e quindi  dei diritti ad essa connessi, non dipende necessariamente dall’esistenza o dalla prosecuzione effettiva di un rapporto di lavoro.

Pertanto,  ogni cittadino di uno Stato membro che, indipendentemente dal luogo di residenza e dalla cittadinanza, si sia avvalso del diritto alla libera circolazione dei lavoratori ed abbia svolto un’attività lavorativa in uno Stato dell’Unione diverso da quello di residenza, rientra nella sfera di applicazione dell’articolo 45 TFUE, ai sensi del quale  deve considerarsi lavoratore la persona che fornisce, per un certo periodo di tempo,  prestazioni in conseguenza delle quali percepisce una retribuzione.

In linea di principio, una volta terminato il rapporto di lavoro l’interessato perde la qualità di lavoratore, tuttavia,  tale qualifica continua a produrre alcuni effetti anche dopo la cessazione del rapporto.

A detta della Corte, le limitazioni fisiche collegate alle ultime fasi della gravidanza ed al periodo immediatamente successivo al parto, che costringano una donna a cessare la propria attività subordinata,  non sono  idonee a privarla della qualità di lavoratore.

La circostanza che tale persona per vari mesi non sia stata effettivamente presente sul mercato del lavoro dello Stato membro ospitante, infatti, non implica che la stessa abbia cessato di farne parte  durante lo stesso  periodo, purché dopo il parto riprenda il suo lavoro o trovi un altro impiego entro un termine ragionevole.

Diversamente, il rischio di perdere la qualità di lavoratore nello Stato membro ospitante potrebbe dissuadere le cittadine dell’Unione  dall’esercitare il loro diritto di libera circolazione.

Nel valutare i casi analoghi a quello in commento, il Giudice nazionale è dunque chiamato a  tenere conto di tutte le circostanze specifiche della fattispecie ad oggetto, nonché delle disposizioni interne disciplinanti la durata del congedo di maternità, al fine di  stabilire correttamente  se il periodo intercorso tra il parto e la ripresa del lavoro possa essere considerato ragionevole.

In conclusione, la Corte di Giustizia Europea ha ribadito che  l’articolo 45 TFUE deve essere interpretato nel senso che la donna, che abbia smesso di lavorare o di cercare un impiego a causa delle limitazioni fisiche collegate alle ultime fasi della gravidanza e al periodo successivo al parto, conserva la qualità di lavoratore, purché rientri in azienda o trovi un’altra occupazione entro un ragionevole periodo di tempo dopo la nascita del figlio.

Valerio Pollastrini

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