Si
tratta di un principio che trova diretta applicazione esclusivamente in favore
delle cittadine degli stati membri in stato interessante o puerpere nel periodo
vicino al parto e che, pertanto, non può essere esteso alle straniere, a meno
che le stesse non abbiano acquisito lo status di lavoratore ai sensi della
direttiva sul diritto di libera circolazione e di soggiorno dei cittadini
dell’Unione.
Il
caso di specie ha riguardato una lavoratrice francese che, trasferitasi nel Regno Unito, aveva
lavorato come insegnante ausiliaria
addetta al controllo dei bambini piccoli.
Dopo
essere rimasta in cinta, la donna, occupata con contratto interinale presso alcune
scuole materne, aveva abbandonato il
proprio impiego in prossimità del sesto mese di gravidanza, in quanto le prestazioni
abitualmente svolte le erano diventate troppo faticose.
La
dipendente aveva quindi richiesto il
pagamento dell’indennità integrativa del reddito che, però, le era stata
rifiutata perché l’amministrazione aveva ritenuto che la stessa avesse perso la
qualità di lavoratore.
Nel
maturare la propria decisione, la Corte di Giustizia ha richiamato quanto
disposto dall’art.7 della Direttiva
2004/38/CE del Parlamento Europeo, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione
e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio
degli Stati membri.
Secondo
tale direttiva, ciascun cittadino dell’Unione ha il diritto di soggiornare per
un periodo superiore a tre mesi nel territorio di un altro Stato membro, purché
risulti titolare di un rapporto di lavoro subordinato o autonomo nello Stato
europeo ospitante.
Il
paragrafo 1, lettera a), della norma
specifica come il cittadino dell’Unione che abbia cessato il
rapporto subordinato o autonomo conservi la qualità di lavoratore nei seguenti
casi:
-
temporanea
inabilità al lavoro a seguito di una malattia o di un infortunio;
-
comprovato
stato di disoccupazione involontaria dopo lo svolgimento per oltre un anno di
un’attività lavorativa, purché l’interessato si sia registrato presso l’ufficio
di collocamento competente al fine di trovare un nuovo impiego;
-
in
caso di comprovato stato di disoccupazione involontaria al termine di un
contratto di lavoro a tempo determinata inferiore ad un anno o nel caso in cui
tale stato si configuri durante i primi
dodici mesi, purché l’interessato si sia registrato presso l’ufficio di
collocamento competente al fine di trovare un lavoro. In tale circostanza, la
conservazione della qualità di lavoratore subordinato permarrà per un periodo
che non può essere inferiore a sei mesi;
-
partecipazione
ad un corso di formazione professionale. Salvo il caso di disoccupazione
involontaria, la conservazione della qualità di lavoratore subordinato
presuppone l’esistenza di un collegamento tra l’attività professionale
precedentemente svolta ed il corso seguito.
Il
giudicante europeo, tuttavia, ha precisato che la direttiva sul diritto di
libera circolazione e di soggiorno dei cittadini dell’Unione non elenca in
maniera esaustiva le circostanze nelle quali un lavoratore migrante possa continuare
a beneficiare dello status di lavoratore anche nel caso in cui abbia perso l’impiego.
Sul
punto, costituisce però giurisprudenza costante della stessa Corte il principio
in base al quale la gravidanza, in alcun
modo assimilabile ad uno stato patologico, deve essere nettamente distinta
dalla malattia.
In
conseguenza di tale principio, la donna, che durante la maternità cessi momentaneamente di lavorare nelle
ultime fasi della gravidanza e nel periodo successivo al parto, non può essere
qualificata come persona temporaneamente inabile al lavoro a seguito di una
malattia.
Sempre
richiamando la giurisprudenza consolidata, la Corte ha poi ribadito che, ai
sensi del TFUE, la qualifica di lavoratore, e quindi dei diritti ad essa connessi, non dipende
necessariamente dall’esistenza o dalla prosecuzione effettiva di un rapporto di
lavoro.
Pertanto,
ogni cittadino di uno Stato membro che,
indipendentemente dal luogo di residenza e dalla cittadinanza, si sia avvalso
del diritto alla libera circolazione dei lavoratori ed abbia svolto un’attività
lavorativa in uno Stato dell’Unione diverso da quello di residenza, rientra
nella sfera di applicazione dell’articolo 45 TFUE, ai sensi del quale deve considerarsi lavoratore la persona che
fornisce, per un certo periodo di tempo, prestazioni in conseguenza delle quali
percepisce una retribuzione.
In
linea di principio, una volta terminato il rapporto di lavoro l’interessato
perde la qualità di lavoratore, tuttavia, tale qualifica continua a produrre alcuni
effetti anche dopo la cessazione del rapporto.
A
detta della Corte, le limitazioni fisiche collegate alle ultime fasi della
gravidanza ed al periodo immediatamente successivo al parto, che costringano
una donna a cessare la propria attività subordinata, non sono idonee a privarla della qualità di lavoratore.
La
circostanza che tale persona per vari mesi non sia stata effettivamente
presente sul mercato del lavoro dello Stato membro ospitante, infatti, non
implica che la stessa abbia cessato di farne parte durante lo stesso periodo, purché dopo il parto riprenda il suo
lavoro o trovi un altro impiego entro un termine ragionevole.
Diversamente,
il rischio di perdere la qualità di lavoratore nello Stato membro ospitante
potrebbe dissuadere le cittadine dell’Unione dall’esercitare il loro diritto di libera circolazione.
Nel
valutare i casi analoghi a quello in commento, il Giudice nazionale è dunque
chiamato a tenere conto di tutte le
circostanze specifiche della fattispecie ad oggetto, nonché delle disposizioni
interne disciplinanti la durata del congedo di maternità, al fine di stabilire correttamente se il periodo intercorso tra il parto e la
ripresa del lavoro possa essere considerato ragionevole.
In
conclusione, la Corte di Giustizia Europea ha ribadito che l’articolo 45 TFUE deve essere interpretato
nel senso che la donna, che abbia smesso di lavorare o di cercare un impiego a
causa delle limitazioni fisiche collegate alle ultime fasi della gravidanza e
al periodo successivo al parto, conserva la qualità di lavoratore, purché rientri
in azienda o trovi un’altra occupazione entro un ragionevole periodo di tempo
dopo la nascita del figlio.
Valerio
Pollastrini
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