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giovedì 26 giugno 2014

Diritto del lavoratore all’equo premio per le invenzioni d’azienda

Nella sentenza n.1437 del  25 giugno 2014, la Cassazione ha riepilogato le condizioni che consentono al dipendente di ottenere un premio per le invenzioni realizzate nel corso del rapporto di lavoro.

Il caso in commento è giunto all’attenzione della Suprema Corte dopo che, nei primi due gradi di giudizio,  era stata respinta la domanda di un dipendente, finalizzata ad ottenere dal datore di lavoro   il riconoscimento dell'equo premio previsto dall'art. 23, comma 2, del  R.D. n.1127/39, in relazione ad otto invenzioni realizzate nell’esecuzione delle sue prestazioni.

Sulla scorta degli ordini di servizio depositati agli atti, il giudice del gravame aveva ritenuto  che l'attività di invenzione costituisse l'oggetto precipuo delle mansioni dirigenziali ascritte al ricorrente e, pertanto, aveva concluso  che l'elevato trattamento economico  percepito  integrasse l'equo premio di cui all'art.23 R.D. n.1127/39,  previsto quale speciale retribuzione volta a compensare proprio quella ricerca di un "quid novi" assunta contrattualmente.

Avverso tale decisione, il dipendente aveva proposto ricorso per Cassazione, dolendosi che, nel ricondurre le mansioni a lui ascritte nell'alveo delle invenzioni di servizio, la Corte del merito avesse omesso il doveroso esame del contratto di lavoro,  conferendo rilievo al trattamento economico e ad un superminimo definito di notevolissima entità.

Per rafforzare la suddetta censura, il ricorrente aveva richiamato l’orientamento giurisprudenziale che, ai fini dell’esclusione della erogazione del premio, richiede la previsione espressa della corresponsione del trattamento economico quale compenso per l'attività di invenzione.

Investita della questione, la Cassazione ha premesso che   l'attività di invenzione deve necessariamente risultare in maniera esplicita dal contratto, mediante un'operazione ermeneutica da esperire ex ante e non ex post.

La Suprema Corte ha quindi ricordato come l'art.23 del  R.D. n.1127/1939 distingue l'ipotesi dell'invenzione realizzata nell'esecuzione di un rapporto di lavoro in cui l'attività inventiva costituisce l’oggetto del contratto  ed è retribuita a tale scopo, nella quale i diritti derivanti dall'invenzione stessa appartengono al datore di lavoro (1), da quella in cui, in assenza di una retribuzione compensativa di tale specifica attività, pur appartenendo al datore  i diritti derivanti dall’invenzione, all'esecutore spetta un equo premio (2).

La norma richiamata così dispone in considerazione  del fatto che l'invenzione venga realizzata dal dipendente nell'ambito delle strutture organizzate dal datore di lavoro, circostanza che  impone il contemperamento di due distinti interessi: quello del lavoratore, che deve conseguire un concreto riconoscimento del proprio apporto, e quello dell'imprenditore, volto ad acquisire i risultati degli impegni organizzativi e degli investimenti economici anche di rilevante entità.

Proprio per bilanciare i due distinti interessi, al diritto del datore di lavoro di trarre profitto dall'invenzione, deve corrispondere un sicuro vantaggio per il dipendente,  o attraverso  l'erogazione di una specifica retribuzione, oppure con la corresponsione  di un equo premio. Entrambi gli istituti, infatti, assolvono alla funzione esclusiva di compensare il risultato inventivo conseguito (3).

Qualora l’invenzione costituisca l’oggetto della prestazione lavorativa, detto vantaggio può essere contrattualmente prefissato dalle parti  con la pattuizione di una retribuzione compensativa.

In tale circostanza, lo specifico elemento retributivo predefinito compensa il risultato dell’invenzione realizzata dal lavoratore, senza che questi abbia diritto ad un premio ulteriore.

Diversamente, nell'ipotesi della cd. invenzione d'azienda, la prestazione del dipendente non consiste nel perseguimento di un risultato inventivo, sicché l’eventuale conseguimento dello stesso esula dall'oggetto dell’attività lavorativa, anche se ad essa connesso.

In altre pronunce (4) la Suprema Corte ha rimarcato che, nella prima delle suddette ipotesi,  l'ammissibilità  di  componenti retributive legate al risultato va individuata proprio nel fatto che l’attività inventiva, vale a dire  il particolare impegno finalizzato al  raggiungimento di un risultato prefigurato dalle parti, dotato dei requisiti della brevettabilità stabiliti dalla legge, costituisce l’oggetto del contratto.

La Cassazione, inoltre, già in passato aveva sottolineato che 1'indagine volta ad accertare l'effettivo dispiegarsi della volontà delle parti non può operare ex post, quando cioè  l'invenzione sia stata conseguita. Utilizzando un simile  criterio, infatti, si dovrebbe considerare pattuita tale attività  in tutti i casi in cui la prestazione lavorativa dia luogo, comunque, ad un'invenzione.

Invece, ricorrendo al criterio ex ante sull'effettivo intendimento delle parti, non assumendo  rilievo la maggiore o minore probabilità che dall'attività lavorativa pattuita scaturisca l'invenzione,  ogniqualvolta sia probabile quel risultato, si dovrebbe automaticamente considerare come rientrante nella previsione contrattuale (5).

Queste considerazioni mettono in luce l’erroneità della prospettiva tracciata dal lavoratore.

I principi  giurisprudenziali richiamati dal ricorrente, non solo non contrastano, ma risultano perfettamente coerenti  con l’orientamento consolidato della  Cassazione (6), secondo cui , nell'interpretazione del contratto, il giudice di merito può limitarsi a ricercare la comune intenzione delle parti sulla base del tenore letterale della disposizione da chiarire, solo se questo ne riveli la volontà senza lasciare alcuna perplessità sull'effettiva portata della clausola, dovendo far ricorso, in caso contrario, alla valutazione del comportamento successivo dei contraenti nell'applicazione della clausola stessa ed alla considerazione di tutti gli altri criteri ermeneutici indicati dagli artt.1362 e seguenti c.c.

Per la Suprema Corte, pertanto, deve  ritenersi del tutto ineccepibile 1'impianto dell'interpretazione logico-sistematica compiuta dal giudice dell’appello, relativa all'assetto negoziale inter partes, che, muovendo dal dato letterale del contratto, aveva osservato come la stessa cospicua entità del trattamento economico complessivo riconosciuto al ricorrente risultasse giustificata proprio in ragione dell'oggetto della prestazione, consistente nello sviluppo di nuovi prodotti e/o applicazioni attraverso l'innovazione dei cicli e tecnologia di processo e nella ideazione e progettazione di prodotti o cicli di fabbricazione complessi, con la conseguenza che la relativa pattuizione dovesse ritenersi ancorata proprio al particolare impegno richiesto al dirigente,  diretto ad un risultato creativo.

La Suprema Corte ha dunque ritenuto dimostrato che il risultato inventivo raggiunto dal ricorrente rientrasse tra gli obiettivi prefigurati dalle parti, come evidenziato anche  dalla pattuizione del corrispettivo annuo di 155.000.000 di lire, oltre ad un superminimo che quasi raddoppiava la retribuzione del dirigente, idoneo a compensare il contenuto inventivo dell'attività espletata.

Per queste ragioni, la Suprema Corte ha escluso la sussistenza, in capo al dipendente, del diritto all’equo premio per le invenzioni dallo stesso realizzate in costanza del rapporto di lavoro.

Con il rigetto del ricorso, la Cassazione ha condannato il dirigente al pagamento delle spese processuali, liquidate in 5.000,00 € per compensi professionali e 100,00 € per esborsi, oltre accessori di legge.

Valerio Pollastrini

 
(1)   - la cd. invenzione di servizio;
(2)   – la cd. invenzione d'azienda;
(3)   - Cass., Sentenza n.10851 del 5 novembre 1997;
(4)   - Cass., Sentenza n.6367 del 21 marzo 2011;
(5)   - Cass., Sentenza n.71561 del  29 marzo 2006; Cass., Sentenza n.14439 del  6 novembre 2006;
(6)   - Cass., Sentenza n.110 del  4 gennaio 2013;

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