Il
caso in commento è giunto all’attenzione della Suprema Corte dopo che, nei
primi due gradi di giudizio, era stata
respinta la domanda di un dipendente, finalizzata ad ottenere dal datore di
lavoro il riconoscimento dell'equo premio previsto
dall'art. 23, comma 2, del R.D. n.1127/39,
in relazione ad otto invenzioni realizzate nell’esecuzione delle sue
prestazioni.
Sulla
scorta degli ordini di servizio depositati agli atti, il giudice del gravame
aveva ritenuto che l'attività di
invenzione costituisse l'oggetto precipuo delle mansioni dirigenziali ascritte
al ricorrente e, pertanto, aveva concluso che l'elevato trattamento economico percepito integrasse l'equo premio di cui all'art.23 R.D.
n.1127/39, previsto quale speciale
retribuzione volta a compensare proprio quella ricerca di un "quid novi" assunta
contrattualmente.
Avverso
tale decisione, il dipendente aveva proposto ricorso per Cassazione, dolendosi
che, nel ricondurre le mansioni a lui ascritte nell'alveo delle invenzioni di
servizio, la Corte del merito avesse omesso il doveroso esame del contratto di
lavoro, conferendo rilievo al
trattamento economico e ad un superminimo definito di notevolissima entità.
Per
rafforzare la suddetta censura, il ricorrente aveva richiamato l’orientamento
giurisprudenziale che, ai fini dell’esclusione della erogazione del premio,
richiede la previsione espressa della corresponsione del trattamento economico
quale compenso per l'attività di invenzione.
Investita
della questione, la Cassazione ha premesso che
l'attività di invenzione deve necessariamente risultare in maniera
esplicita dal contratto, mediante un'operazione ermeneutica da esperire ex ante e non ex post.
La
Suprema Corte ha quindi ricordato come l'art.23 del R.D. n.1127/1939 distingue l'ipotesi
dell'invenzione realizzata nell'esecuzione di un rapporto di lavoro in cui
l'attività inventiva costituisce l’oggetto del contratto ed è retribuita a tale scopo, nella quale i diritti
derivanti dall'invenzione stessa appartengono al datore di lavoro (1), da quella in
cui, in assenza di una retribuzione compensativa di tale specifica attività, pur
appartenendo al datore i diritti
derivanti dall’invenzione, all'esecutore spetta un equo premio (2).
La
norma richiamata così dispone in considerazione del fatto che l'invenzione venga realizzata
dal dipendente nell'ambito delle strutture organizzate dal datore di lavoro,
circostanza che impone il
contemperamento di due distinti interessi: quello del lavoratore, che deve
conseguire un concreto riconoscimento del proprio apporto, e quello
dell'imprenditore, volto ad acquisire i risultati degli impegni organizzativi e
degli investimenti economici anche di rilevante entità.
Proprio
per bilanciare i due distinti interessi, al diritto del datore di lavoro di
trarre profitto dall'invenzione, deve corrispondere un sicuro vantaggio per il
dipendente, o attraverso l'erogazione di una specifica retribuzione, oppure
con la corresponsione di un equo premio.
Entrambi gli istituti, infatti, assolvono alla funzione esclusiva di compensare
il risultato inventivo conseguito (3).
Qualora
l’invenzione costituisca l’oggetto della prestazione lavorativa, detto vantaggio
può essere contrattualmente prefissato dalle parti con la pattuizione di una retribuzione compensativa.
In
tale circostanza, lo specifico elemento retributivo predefinito compensa il
risultato dell’invenzione realizzata dal lavoratore, senza che questi abbia diritto
ad un premio ulteriore.
Diversamente,
nell'ipotesi della cd. invenzione d'azienda, la prestazione del dipendente non
consiste nel perseguimento di un risultato inventivo, sicché l’eventuale
conseguimento dello stesso esula dall'oggetto dell’attività lavorativa, anche
se ad essa connesso.
In
altre pronunce (4) la Suprema
Corte ha rimarcato che, nella prima delle suddette ipotesi, l'ammissibilità di componenti retributive legate al risultato va
individuata proprio nel fatto che l’attività inventiva, vale a dire il particolare impegno finalizzato al raggiungimento di un risultato prefigurato
dalle parti, dotato dei requisiti della brevettabilità stabiliti dalla legge, costituisce
l’oggetto del contratto.
La
Cassazione, inoltre, già in passato aveva sottolineato che 1'indagine volta ad
accertare l'effettivo dispiegarsi della volontà delle parti non può operare ex post, quando cioè l'invenzione sia stata conseguita. Utilizzando
un simile criterio, infatti, si dovrebbe
considerare pattuita tale attività in
tutti i casi in cui la prestazione lavorativa dia luogo, comunque, ad un'invenzione.
Invece,
ricorrendo al criterio ex ante
sull'effettivo intendimento delle parti, non assumendo rilievo la maggiore o minore probabilità che
dall'attività lavorativa pattuita scaturisca l'invenzione, ogniqualvolta sia probabile quel risultato, si
dovrebbe automaticamente considerare come rientrante nella previsione
contrattuale (5).
Queste
considerazioni mettono in luce l’erroneità della prospettiva tracciata dal
lavoratore.
I
principi giurisprudenziali richiamati
dal ricorrente, non solo non contrastano, ma risultano perfettamente
coerenti con l’orientamento consolidato
della Cassazione (6), secondo cui ,
nell'interpretazione del contratto, il giudice di merito può limitarsi a
ricercare la comune intenzione delle parti sulla base del tenore letterale della
disposizione da chiarire, solo se questo ne riveli la volontà senza lasciare alcuna
perplessità sull'effettiva portata della clausola, dovendo far ricorso, in caso
contrario, alla valutazione del comportamento successivo dei contraenti
nell'applicazione della clausola stessa ed alla considerazione di tutti gli
altri criteri ermeneutici indicati dagli artt.1362 e seguenti c.c.
Per
la Suprema Corte, pertanto, deve ritenersi del tutto ineccepibile 1'impianto
dell'interpretazione logico-sistematica compiuta dal giudice dell’appello,
relativa all'assetto negoziale inter partes,
che, muovendo dal dato letterale del contratto, aveva osservato come la stessa
cospicua entità del trattamento economico complessivo riconosciuto al
ricorrente risultasse giustificata proprio in ragione dell'oggetto della
prestazione, consistente nello sviluppo di nuovi prodotti e/o applicazioni
attraverso l'innovazione dei cicli e tecnologia di processo e nella ideazione e
progettazione di prodotti o cicli di fabbricazione complessi, con la conseguenza
che la relativa pattuizione dovesse ritenersi ancorata proprio al particolare
impegno richiesto al dirigente, diretto
ad un risultato creativo.
La
Suprema Corte ha dunque ritenuto dimostrato che il risultato inventivo
raggiunto dal ricorrente rientrasse tra gli obiettivi prefigurati dalle parti,
come evidenziato anche dalla pattuizione
del corrispettivo annuo di 155.000.000 di lire, oltre ad un superminimo che
quasi raddoppiava la retribuzione del dirigente, idoneo a compensare il contenuto inventivo dell'attività espletata.
Per
queste ragioni, la Suprema Corte ha escluso la sussistenza, in capo al dipendente,
del diritto all’equo premio per le invenzioni dallo stesso realizzate in
costanza del rapporto di lavoro.
Con
il rigetto del ricorso, la Cassazione ha condannato il dirigente al pagamento
delle spese processuali, liquidate in 5.000,00 € per compensi professionali e
100,00 € per esborsi, oltre accessori di legge.
Valerio
Pollastrini
(1)
-
la cd. invenzione di servizio;
(2)
–
la cd. invenzione d'azienda;
(3)
-
Cass., Sentenza n.10851 del 5 novembre 1997;
(4)
-
Cass., Sentenza n.6367 del 21 marzo 2011;
(5)
-
Cass., Sentenza n.71561 del 29 marzo
2006; Cass., Sentenza n.14439 del 6
novembre 2006;
(6)
-
Cass., Sentenza n.110 del 4 gennaio
2013;
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