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mercoledì 14 maggio 2014

Il fallimento non salva il datore di lavoro dall’omesso versamento delle ritenute

Nella sentenza n.19574 del 13 maggio 2014 la Corte di Cassazione  è intervenuta sulla fattispecie di reato dell’omesso versamento delle ritenute previdenziali dei lavoratori da parte dell’imprenditore del quale sia stato dichiarato il  fallimento.

Il caso di specie è giunto all’attenzione della Suprema Corte dopo che la Corte di Appello di Bologna, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Ravenna, aveva assolto un imprenditore dall’accusa relativa al reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali per i lavoratori dipendenti perché il fatto non costituisce reato, riducendo la pena originariamente inflitta,  pari a mesi quattro di reclusione e  400,00 € di multa, a mesi tre e giorni 24 di reclusione ed € 380,00 di multa, confermando, nel resto, quanto disposto per le condotte residue.

La Corte territoriale, in particolare,  aveva disatteso sia la tesi della assenza di prova in ordine all'effettiva corresponsione delle retribuzioni, ricavandola  dai mod. DM10 acquisiti negli atti, sia  la tesi della assenza di prova in ordine al preventivo avviso di accertamento, in quanto regolarmente  notificato  e rimasto ineseguito solo per la sopravvenuta dichiarazione di fallimento dell'impresa individuale.

Conseguentemente, la Corte del merito aveva ritenuto l’imputato esente da responsabilità, limitatamente alle condotte poste in essere nei mesi  per i quali il termine di pagamento era  scaduto dopo la dichiarazione di fallimento.

Queste le ragioni che, in sostanza, avevano indotto il giudice dell’Appello a ridurre la pena precedentemente comminata all’imputato dal Tribunale di primo grado.

Per l'annullamento della detta sentenza, l’imprenditore aveva  proposto ricorso per Cassazione, lamentando che, risultando  pacifico che l'avviso di accertamento delle violazioni gli fosse stato notificato  dopo la dichiarazione di fallimento,  il giudice di Appello avrebbe dovuto estendere il proscioglimento anche alle condotte poste in essere nel periodo antecedente a quello per il quale era stata riconosciuta l'assenza di responsabilità,  in quanto l'intervenuta dichiarazione di fallimento avrebbe impedito  al datore di lavoro  di provvedere al pagamento anche per i versamenti precedenti non effettuati  e di conseguire il beneficio della non punibilità.

La pronuncia della Cassazione
Investita della questione, la Suprema Corte ha premesso che il ricorrente, titolare di ditta individuale, aveva omesso il versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali riguardanti i propri dipendenti per un esteso arco temporale compreso tra il mese di agosto 2005 ed il mese di settembre 2007. Dagli atti, era inoltre risultato che, l’imputato era  stato dichiarato fallito il 5 febbraio 2007 ed, in ultimo, che l'avviso di accertamento delle violazioni venne notificato dall'INPS soltanto in data 22 aprile 2009.

Dalla sentenza di primo grado, era emerso pacificamente che la prova materiale del reato, collegata alla affettiva retribuzione dei propri dipendenti, fosse stata ricavata dai modd. DM 10 che, al di là del loro contenuto formale, costituiscono atti  aventi una particolare funzione ricognitiva della situazione debitoria del datore di lavoro, al punto  che la loro compilazione e presentazione equivale all'attestazione all'Ente di aver corrisposto le retribuzioni in relazione alle quali non sono stati versati i contributi (1).

In proposito, la Cassazione ha ricordato come, mentre grava sulla pubblica accusa l'onere di dimostrare il mancato versamento delle ritenute, è preciso onere dell'imputato dimostrare di non essere stato in grado di corrispondere le retribuzioni (2).

In presenza delle denunce contributive, l’onere di dimostrare eventuali difformità rispetto alla situazione in esse rappresentata, incombe sul soggetto che la deduce, sia che si tratti dell’imputato, che dell'organo dell'accusa (3).

Quanto al caso in esame, è certo che l'imputato non aveva dimostrato l'impossibilità assoluta di adempiere, limitandosi ad indicare, quale causa giustificativa, l'intervenuta dichiarazione di fallimento che avrebbe, di fatto, reso impossibile per il fallito provvedere a pagamenti, pena il rischio di incorrere in una situazione di bancarotta preferenziale.

Peraltro, non è superfluo rammentare che mentre l'imputato era in bonis  aveva ritenuto più corretto omettere il versamento delle ritenute, piuttosto che accantonare dette somme per provvedere, anche in tempi successivi, al versamento.

Attraverso una simile condotta l’imprenditore aveva conseguito dei profitti illeciti, costituiti dal ricavato degli omessi versamenti,  ancorché non più distinguibili nel proprio patrimonio, una volta dichiarato il fallimento a titolo personale.

Detto questo, la Suprema Corte ha rilevato che l'avviso di accertamento delle violazioni costituisce non già una condizione di procedibilità, ma una condizione di punibilità.

Non a caso, il comma 1 bis dell'art. 2 della L. 638/83 testualmente dispone che il datore di lavoro che abbia omesso il versamento dei contributi non è punibile se provvede al loro pagamento entro tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell'avvenuto accertamento della violazione.

La Cassazione ha quindi rimarcato come questa rappresenta   una condizione di punibilità,  e non di procedibilità, che, in deroga alla regola di cui all’art. 158 c.p., comma 2, in materia di decorrenza della prescrizione di un reato la cui punibilità dipende da una condizione, dispone la sospensione del decorso della prescrizione nel periodo dei tre mesi di cui al comma 1 bis, anziché l'avvio di esso successivamente a tale periodo (4).

Conformandosi ai richiamati principi, la Corte di legittimità ha proseguito analizzando la questione prospettata nel ricorso circa i limiti scaturenti dalla dichiarazione di fallimento del datore di lavoro che si frappongono al pagamento delle somme dovute all'Istituto previdenziale dopo che sia intervenuta la dichiarazione di fallimento e riguardanti periodi in cui l’imprenditore non era ancora stato dichiarato fallito.

A tale proposito, la Corte ha ricordato come la giurisprudenza di legittimità abbia sempre escluso che una situazione di difficoltà finanziaria, anche se grave, possa costituire esimente ai fini della punibilità.  Il reato in esame,   sotto l'aspetto soggettivo, si caratterizza per una forma di dolo generico comportante la scelta consapevole di omettere i versamenti dovuti. Condizione dalla quale deriva  l'affermata irrilevanza della situazione di criticità attraversata dal datore di lavoro, così come la circostanza che egli scelga di destinare risorse finanziarie per far fronte a debiti ritenuti più urgenti (5).

Si è però anche affermato che persino la situazione di accertata successiva insolvenza dell'imprenditore renda configurabile il reato, essendo preciso onere di quest'ultimo ripartire le risorse esistenti al momento di corrispondere le retribuzioni ai lavoratori dipendenti in modo da poter adempiere all'obbligo del versamento delle ritenute, anche se ciò possa riflettersi sull'integrale pagamento delle retribuzioni medesime (6).

Tale assunto, impone al datore di lavoro,  debitore delle retribuzioni nei confronti dei propri dipendenti, di detrarre dalle stesse l'importo delle ritenute assistenziali e previdenziali che dovranno essere versate all'Erario.

Proprio per effetto di questa doppia funzione del sostituto di adempiere, contemporaneamente, ad un obbligo proprio e ad un obbligo altrui,  si ritiene che lo stesso sia vincolato al pagamento delle ritenute al medesimo titolo per cui è vincolato al pagamento delle retribuzioni.

In conclusione, risulta irrilevante - ai fini della non punibilità - lo stato di insolvenza del sostituto, dovendo questi adempiere al proprio obbligo di corrispondere le ritenute all'Inps, così come adempiere a quello di pagare le retribuzioni di cui le ritenute stesse sono parte.

La giurisprudenza formatasi in tema di ritenute fiscali alla fonte, infatti, ha sempre affermato che quando l’imprenditore, in presenza di una situazione economica difficile, decida di dare la preferenza al pagamento degli emolumenti ai dipendenti rispetto al versamento delle ritenute, non può poi addurre a propria discolpa l’assenza dell'elemento psicologico del reato, ricorrendo in ogni caso il dolo generico (7).

Ugualmente,  è stato ritenuto che anche il sopravvenuto fallimento dell'agente non sia sufficiente a scriminare il precedente omesso versamento delle ritenute, essendo preciso obbligo del sostituto quello di ripartire le risorse esistenti all'atto della corresponsione delle retribuzioni in modo da poter adempiere il proprio obbligo, anche se ciò dovesse comportare l'impossibilità di pagare i compensi nel loro intero ammontare (8).

Con riferimento alla fattispecie in esame, la Cassazione ha  dunque affermato  che, così come, sotto l'aspetto soggettivo, non scrimina la situazione di grave crisi economica dell'imprenditore che, per propria consapevole scelta, decida di corrispondere le retribuzioni, omettendo di versare le ritenute previdenziali, allo stesso modo non scrimina la situazione del fallimento in relazione alla possibilità riconosciuta all'imprenditore oculato di ripartire, mentre è ancora in bonis, le risorse esistenti all'atto della corresponsione delle retribuzioni, privilegiando il versamento delle ritenute che, al pari della corresponsione delle retribuzioni, costituisce un suo preciso obbligo.

A corollario di tali affermazioni, gli ermellini hanno rilevato che l'impossibilità di adempiere, conseguente alla situazione di fallimento, non può concettualmente definirsi assoluta, nel senso che l'imprenditore fallito è tenuto a sollecitare il curatore frattanto nominato  ad adempiere con mezzi propri all'esclusivo fine di poter beneficiare della condizione di non punibilità che altrimenti gli verrebbe preclusa.

Alla stregua di tali considerazioni, la  Suprema Corte ha, anzitutto, escluso che il momento consumativo del reato in oggetto coincida con la scadenza dei tre mesi dalla contestazione del mancato versamento (tesi sostenuta dalla difesa per dimostrare, alla luce della ricezione dell'avviso di accertamento dopo l'intervenuta dichiarazione di fallimento, l'insussistenza del reato). In proposito, la stessa Corte ha  da tempo affermato che, in quanto reato omissivo istantaneo, il mancato versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali si consuma nel momento in cui scade il termine utile concesso al datore di lavoro per il versamento, termine attualmente fissato al giorno sedici del mese successivo a quello cui si riferiscono i contributi (9).

Il mancato accantonamento delle somme o, quanto meno, la mancata ripartizione delle risorse da parte dell'imprenditore in grave crisi economica, in una situazione in cui non è ancora stato dichiarato il fallimento, concreta, pertanto,  una forma di responsabilità a suo carico.

Tuttavia la Cassazione ha affermato come non possa contestarsi che il curatore, opportunamente e doverosamente sollecitato dall'imprenditore fallito, che voglia comunque evitare una responsabilità penale conseguente all'omesso versamento, può provvedere  a versare, nei termini di legge, le somme dovute all'Istituto senza incorrere nel rischio della bancarotta preferenziale, attingendo, se del caso, alle risorse personali dell'imprenditore medesimo, così consentendo a quest'ultimo di beneficiare della causa di non punibilità.

Per tali ragioni non può quindi definirsi manifestamente infondata la censura sollevata con il ricorso in riferimento alle condotte pregresse, comunque venute ad esistenza quando ancora il fallimento non era stato dichiarato.

Per tutte le ragioni  sopra riportate, la Cassazione ha disposto l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, limitatamente alle omissioni protrattesi fino al mese di aprile 2006 perché estinti i reati per prescrizione, rinviando la determinazione della pena in ordine ai reati residui ad altra Sezione della Corte di Appello di Bologna e rigettando, nel resto, il ricorso.

Valerio Pollastrini

 
(1)   – Cass., Sentenza n.37145 del 10 aprile 2013; Cass., Sentenza n.14839 del 4 marzo 2010; Cass., Sentenza n.46451 del 7 ottobre 2009;
(2)   – Cass., Sentenza n.46734 del 14 ottobre 2004;
(3)   – Cass., Sentenza n.32848 dell’8 luglio 2005;
(4)   – Cass., S.U., Sentenza n.1855 del 24 novembre 2011; Cass., Sentenza n.27258 del 16 maggio 2007; Cass., Sentenza n.38501 del 25 settembre 2007;
(5)   – Cass., Sentenza n.13100 del 19 gennaio 2011; Cass., Sentenza n.29975 del  21 giugno 2011;
(6)   – Cass., Sentenza n.38269 del  25 settembre 2007; Cass., Sentenza n.33945 del     5 luglio 2001;
(7)   – Cass., Sentenza n.7099 del 5 maggio 1994; Cass., Sentenza n.10579 del    6 ottobre 1993;
(8)   – Cass., Sentenza n.11694 del 18 giugno 1999; Cass., Sentenza n.141 del 15 febbraio 1996;
(9)   – Cass., S.U., Sentenza n.1855/2011; Cass., Sentenza n.20251 del 16 aprile 2009; Cass., Sentenza n.615 del  14 dicembre 2010;

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