Il
caso di specie è giunto all’attenzione della Suprema Corte dopo che la Corte di
Appello di Bologna, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Ravenna,
aveva assolto un imprenditore dall’accusa relativa al reato di omesso
versamento delle ritenute previdenziali per i lavoratori dipendenti perché il
fatto non costituisce reato, riducendo la pena originariamente inflitta, pari a mesi quattro di reclusione e 400,00 € di multa, a mesi tre e giorni 24 di
reclusione ed € 380,00 di multa, confermando, nel resto, quanto disposto per le
condotte residue.
La
Corte territoriale, in particolare, aveva
disatteso sia la tesi della assenza di prova in ordine all'effettiva
corresponsione delle retribuzioni, ricavandola dai mod. DM10 acquisiti negli atti, sia la tesi della assenza di prova in ordine al
preventivo avviso di accertamento, in quanto regolarmente notificato e rimasto ineseguito solo per la sopravvenuta
dichiarazione di fallimento dell'impresa individuale.
Conseguentemente,
la Corte del merito aveva ritenuto l’imputato esente da responsabilità,
limitatamente alle condotte poste in essere nei mesi per i quali il termine di pagamento era scaduto dopo la dichiarazione di fallimento.
Queste
le ragioni che, in sostanza, avevano indotto il giudice dell’Appello a ridurre
la pena precedentemente comminata all’imputato dal Tribunale di primo grado.
Per
l'annullamento della detta sentenza, l’imprenditore aveva proposto ricorso per Cassazione, lamentando
che, risultando pacifico che l'avviso di
accertamento delle violazioni gli fosse stato notificato dopo la dichiarazione di fallimento, il giudice di Appello avrebbe dovuto
estendere il proscioglimento anche alle condotte poste in essere nel periodo
antecedente a quello per il quale era stata riconosciuta l'assenza di
responsabilità, in quanto l'intervenuta
dichiarazione di fallimento avrebbe impedito
al datore di lavoro di provvedere
al pagamento anche per i versamenti precedenti non effettuati e di conseguire il beneficio della non
punibilità.
La pronuncia
della Cassazione
Investita
della questione, la Suprema Corte ha premesso che il ricorrente, titolare di ditta
individuale, aveva omesso il versamento delle ritenute previdenziali ed
assistenziali riguardanti i propri dipendenti per un esteso arco temporale
compreso tra il mese di agosto 2005 ed il mese di settembre 2007. Dagli atti,
era inoltre risultato che, l’imputato era stato dichiarato fallito il 5 febbraio 2007
ed, in ultimo, che l'avviso di accertamento delle violazioni venne notificato
dall'INPS soltanto in data 22 aprile 2009.
Dalla
sentenza di primo grado, era emerso pacificamente che la prova materiale del
reato, collegata alla affettiva retribuzione dei propri dipendenti, fosse stata
ricavata dai modd. DM 10 che, al di là del loro contenuto formale,
costituiscono atti aventi una
particolare funzione ricognitiva della situazione debitoria del datore di
lavoro, al punto che la loro
compilazione e presentazione equivale all'attestazione all'Ente di aver corrisposto
le retribuzioni in relazione alle quali non sono stati versati i contributi (1).
In
proposito, la Cassazione ha ricordato come, mentre grava sulla pubblica accusa
l'onere di dimostrare il mancato versamento delle ritenute, è preciso onere
dell'imputato dimostrare di non essere stato in grado di corrispondere le
retribuzioni (2).
In
presenza delle denunce contributive, l’onere di dimostrare eventuali difformità
rispetto alla situazione in esse rappresentata, incombe sul soggetto che la
deduce, sia che si tratti dell’imputato, che dell'organo dell'accusa (3).
Quanto
al caso in esame, è certo che l'imputato non aveva dimostrato l'impossibilità
assoluta di adempiere, limitandosi ad indicare, quale causa giustificativa,
l'intervenuta dichiarazione di fallimento che avrebbe, di fatto, reso
impossibile per il fallito provvedere a pagamenti, pena il rischio di incorrere
in una situazione di bancarotta preferenziale.
Peraltro,
non è superfluo rammentare che mentre l'imputato era in bonis aveva ritenuto più
corretto omettere il versamento delle ritenute, piuttosto che accantonare dette
somme per provvedere, anche in tempi successivi, al versamento.
Attraverso
una simile condotta l’imprenditore aveva conseguito dei profitti illeciti, costituiti
dal ricavato degli omessi versamenti, ancorché non più distinguibili nel proprio
patrimonio, una volta dichiarato il fallimento a titolo personale.
Detto
questo, la Suprema Corte ha rilevato che l'avviso di accertamento delle
violazioni costituisce non già una condizione di procedibilità, ma una
condizione di punibilità.
Non
a caso, il comma 1 bis dell'art. 2 della L. 638/83 testualmente dispone che il
datore di lavoro che abbia omesso il versamento dei contributi non è punibile
se provvede al loro pagamento entro tre mesi dalla contestazione o dalla
notifica dell'avvenuto accertamento della violazione.
La
Cassazione ha quindi rimarcato come questa rappresenta una
condizione di punibilità, e non di
procedibilità, che, in deroga alla regola di cui all’art. 158 c.p., comma 2, in
materia di decorrenza della prescrizione di un reato la cui punibilità dipende
da una condizione, dispone la sospensione del decorso della prescrizione nel
periodo dei tre mesi di cui al comma 1 bis, anziché l'avvio di esso successivamente
a tale periodo (4).
Conformandosi
ai richiamati principi, la Corte di legittimità ha proseguito analizzando la questione prospettata nel ricorso circa i
limiti scaturenti dalla dichiarazione di fallimento del datore di lavoro che si
frappongono al pagamento delle somme dovute all'Istituto previdenziale dopo che
sia intervenuta la dichiarazione di fallimento e riguardanti periodi in cui l’imprenditore
non era ancora stato dichiarato fallito.
A
tale proposito, la Corte ha ricordato come la giurisprudenza di legittimità
abbia sempre escluso che una situazione di difficoltà finanziaria, anche se
grave, possa costituire esimente ai fini della punibilità. Il reato in esame, sotto
l'aspetto soggettivo, si caratterizza per una forma di dolo generico
comportante la scelta consapevole di omettere i versamenti dovuti. Condizione
dalla quale deriva l'affermata irrilevanza
della situazione di criticità attraversata dal datore di lavoro, così come la
circostanza che egli scelga di destinare risorse finanziarie per far fronte a
debiti ritenuti più urgenti (5).
Si
è però anche affermato che persino la situazione di accertata successiva insolvenza
dell'imprenditore renda configurabile il reato, essendo preciso onere di
quest'ultimo ripartire le risorse esistenti al momento di corrispondere le
retribuzioni ai lavoratori dipendenti in modo da poter adempiere all'obbligo
del versamento delle ritenute, anche se ciò possa riflettersi sull'integrale
pagamento delle retribuzioni medesime (6).
Tale
assunto, impone al datore di lavoro, debitore delle retribuzioni nei confronti dei
propri dipendenti, di detrarre dalle stesse l'importo delle ritenute
assistenziali e previdenziali che dovranno essere versate all'Erario.
Proprio
per effetto di questa doppia funzione del sostituto di adempiere,
contemporaneamente, ad un obbligo proprio e ad un obbligo altrui, si ritiene che lo stesso sia vincolato al
pagamento delle ritenute al medesimo titolo per cui è vincolato al pagamento
delle retribuzioni.
In
conclusione, risulta irrilevante - ai fini della non punibilità - lo stato di
insolvenza del sostituto, dovendo questi adempiere al proprio obbligo di
corrispondere le ritenute all'Inps, così come adempiere a quello di pagare le
retribuzioni di cui le ritenute stesse sono parte.
La
giurisprudenza formatasi in tema di ritenute fiscali alla fonte, infatti, ha
sempre affermato che quando l’imprenditore, in presenza di una situazione
economica difficile, decida di dare la preferenza al pagamento degli emolumenti
ai dipendenti rispetto al versamento delle ritenute, non può poi addurre a
propria discolpa l’assenza dell'elemento psicologico del reato, ricorrendo in
ogni caso il dolo generico (7).
Ugualmente,
è stato ritenuto che anche il
sopravvenuto fallimento dell'agente non sia sufficiente a scriminare il
precedente omesso versamento delle ritenute, essendo preciso obbligo del
sostituto quello di ripartire le risorse esistenti all'atto della
corresponsione delle retribuzioni in modo da poter adempiere il proprio
obbligo, anche se ciò dovesse comportare l'impossibilità di pagare i compensi
nel loro intero ammontare (8).
Con
riferimento alla fattispecie in esame, la Cassazione ha dunque affermato che, così come, sotto l'aspetto soggettivo,
non scrimina la situazione di grave crisi economica dell'imprenditore che, per
propria consapevole scelta, decida di corrispondere le retribuzioni, omettendo
di versare le ritenute previdenziali, allo stesso modo non scrimina la
situazione del fallimento in relazione alla possibilità riconosciuta
all'imprenditore oculato di ripartire, mentre è ancora in bonis, le risorse esistenti all'atto della corresponsione delle
retribuzioni, privilegiando il versamento delle ritenute che, al pari della corresponsione delle
retribuzioni, costituisce un suo preciso obbligo.
A
corollario di tali affermazioni, gli ermellini hanno rilevato che
l'impossibilità di adempiere, conseguente alla situazione di fallimento, non
può concettualmente definirsi assoluta, nel senso che l'imprenditore fallito è
tenuto a sollecitare il curatore frattanto nominato ad adempiere con mezzi propri all'esclusivo
fine di poter beneficiare della condizione di non punibilità che altrimenti gli
verrebbe preclusa.
Alla
stregua di tali considerazioni, la Suprema
Corte ha, anzitutto, escluso che il momento consumativo del reato in oggetto
coincida con la scadenza dei tre mesi dalla contestazione del mancato
versamento (tesi sostenuta dalla difesa per dimostrare, alla luce della
ricezione dell'avviso di accertamento dopo l'intervenuta dichiarazione di
fallimento, l'insussistenza del reato). In proposito, la stessa Corte ha da tempo affermato che, in quanto reato omissivo
istantaneo, il mancato versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali
si consuma nel momento in cui scade il termine utile concesso al datore di
lavoro per il versamento, termine attualmente fissato al giorno sedici del mese
successivo a quello cui si riferiscono i contributi (9).
Il
mancato accantonamento delle somme o, quanto meno, la mancata ripartizione
delle risorse da parte dell'imprenditore in grave crisi economica, in una
situazione in cui non è ancora stato dichiarato il fallimento, concreta,
pertanto, una forma di responsabilità a
suo carico.
Tuttavia
la Cassazione ha affermato come non possa contestarsi che il curatore,
opportunamente e doverosamente sollecitato dall'imprenditore fallito, che
voglia comunque evitare una responsabilità penale conseguente all'omesso
versamento, può provvedere a versare,
nei termini di legge, le somme dovute all'Istituto senza incorrere nel rischio
della bancarotta preferenziale, attingendo, se del caso, alle risorse personali
dell'imprenditore medesimo, così consentendo a quest'ultimo di beneficiare
della causa di non punibilità.
Per
tali ragioni non può quindi definirsi manifestamente infondata la censura
sollevata con il ricorso in riferimento
alle condotte pregresse, comunque venute ad esistenza quando ancora il
fallimento non era stato dichiarato.
Per
tutte le ragioni sopra riportate, la
Cassazione ha disposto l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata,
limitatamente alle omissioni protrattesi fino al mese di aprile 2006 perché
estinti i reati per prescrizione, rinviando la determinazione della pena in
ordine ai reati residui ad altra Sezione della Corte di Appello di Bologna e rigettando,
nel resto, il ricorso.
Valerio
Pollastrini
(1)
–
Cass., Sentenza n.37145 del 10 aprile 2013; Cass., Sentenza n.14839 del 4 marzo
2010; Cass., Sentenza n.46451 del 7 ottobre 2009;
(2)
–
Cass., Sentenza n.46734 del 14 ottobre 2004;
(3)
–
Cass., Sentenza n.32848 dell’8 luglio 2005;
(4)
–
Cass., S.U., Sentenza n.1855 del 24 novembre 2011; Cass., Sentenza n.27258 del
16 maggio 2007; Cass., Sentenza n.38501 del 25 settembre 2007;
(5)
–
Cass., Sentenza n.13100 del 19 gennaio 2011; Cass., Sentenza n.29975 del 21 giugno 2011;
(6)
–
Cass., Sentenza n.38269 del 25 settembre
2007; Cass., Sentenza n.33945 del 5
luglio 2001;
(7)
–
Cass., Sentenza n.7099 del 5 maggio 1994; Cass., Sentenza n.10579 del 6
ottobre 1993;
(8)
–
Cass., Sentenza n.11694 del 18 giugno 1999; Cass., Sentenza n.141 del 15
febbraio 1996;
(9)
–
Cass., S.U., Sentenza n.1855/2011; Cass., Sentenza n.20251 del 16 aprile 2009;
Cass., Sentenza n.615 del 14 dicembre 2010;
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