La
vicenda in commento è quella di due dipendenti del Ministero delle Finanze che
si erano rivolti al Giudice del lavoro, chiedendo che la quantificazione della loro indennità di buonuscita venisse
rapportata alla retribuzione dirigenziale percepita al momento della
risoluzione del rapporto di lavoro per pensionamento.
I
lavoratori, inquadrati nella IX qualifica funzionale, posizione C3, nei tre
anni precedenti al pensionamento avevano
ricoperto le mansioni superiori di dirigente, seppur in regime di reggenza.
I
due gradi di giudizio del merito si erano conclusi con il rigetto del ricorso.
Decisione motivata sull’assunto che solamente per i dirigenti di ruolo i corrispondenti trattamenti economici possano incidere sul calcolo della indennità di
buonuscita, circostanza invece esclusa
per i funzionari chiamati a ricoprire in via temporanea una funzione
dirigenziale vacante.
Investita
della questione, la Suprema Corte ha richiamato la normativa di riferimento (1), in base alla
quale, in virtù dello svolgimento di
fatto di funzioni corrispondenti a quelle di natura dirigenziale, per un
periodo affidato in reggenza, il lavoratore ha diritto al trattamento economico previsto per tale
qualifica.
L’unico
scopo di questa disposizione è però quello
di compensare adeguatamente l’esercizio temporaneo delle mansioni superiori e,
pertanto, tale trattamento non rientra nella nozione di stipendio, intenso come
la corresponsione economica riferibile alla qualifica contrattuale di appartenenza.
Nel
rispetto di quanto appena premesso, la Cassazione ha ribadito che, come base
del calcolo dell’indennità di buonuscita, per “stipendio” deve intendersi il trattamento
retributivo inerente alla qualifica contrattuale di appartenenza, con
l’esclusione degli altri emolumenti, eventualmente erogati, esclusi
dall’elencazione tassativa riportata negli artt.3 e 38 del D.P.R. n.1032/1973,
che individuano le ulteriori indennità
utili per la quantificazione della buonuscita.
Per
la Corte di legittimità, qualora si optasse per la soluzione proposta dai lavoratori,
rivolta alla liquidazione del Trattamento di Fine Rapporto in relazione alla
retribuzione percepita temporaneamente per lo svolgimento delle mansioni
superiori, si perverrebbe ad un sostanziale aggiramento della norma legale che,
nell’ambito del Pubblico Impiego, esclude
l’acquisizione del superiore livello da parte del dipendente di fatto.
In
sostanza, quello sopra riportato è lo stesso principio applicato nelle ipotesi di conferimento di incarichi
temporanei non in regime di reggenza, per i quali, ai fini della liquidazione
del trattamento di fine servizio, la legge (2) stabilisce che, ai dipendenti statali
titolari di funzioni dirigenziali, l’ultimo stipendio deve essere individuato
nella retribuzione percepita prima del conferimento dell’incarico avente durata
inferiore a tre anni.
La
Cassazione ha concluso ribadendo che l’esercizio di fatto di mansioni superiori
alla qualifica di appartenenza, non può costituire una novazione del rapporto
per fatti concludenti. Ciò, infatti, contrasterebbe con quanto previsto dalla norma
(3), secondo la quale
l’esercizio di fatto di mansioni non corrispondenti alla qualifica di
appartenenza non assume efficacia ai fini dell’inquadramento del lavoratore o
dell’assegnazione di incarichi di direzione.
Tale
novazione, inoltre, risulterebbe in contrasto anche con il principio del
necessario concorso, o procedura selettiva comparativa, per l’accesso alla
dirigenza pubblica.
Valerio
Pollastrini
(1)
-
art.52 del D.Lgs. n.165/2001 (Disciplina delle mansioni);
(2)
-
art 19 del D.Lgs n.165/2001 (incarichi di funzioni dirigenziali);
(3) - art.52 del D.Lgs. n.165/2001;
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