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martedì 15 aprile 2014

Onere della prova sui fatti che hanno causato il licenziamento

Senza la prova  delle assenze ingiustificate contestate al dipendente, il licenziamento per giusta causa è  illegittimo. Ad affermarlo, la Cassazione nella sentenza n.7108 del 26 marzo 2014.

Il caso di specie è giunto all’attenzione della giudice di legittimità dopo che la Corte di Appello di Napoli, riformando la sentenza di primo grado, aveva ritenuto illegittimo il licenziamento disposto nei confronti di un lavoratore al quale l’azienda aveva contestato delle assenze ingiustificate.

La Corte del merito, pertanto, aveva ordinato all’azienda la riassunzione del dipendente  o, in alternativa, la corresponsione in suo favore  dell’indennità risarcitoria equivalente  all’importo di quattro mensilità retributive.

Il datore di lavoro era stato  condannato anche al pagamento  della somma di circa 28.954,00 €, oltre accessori,  per il lavoro straordinario svolto dal ricorrente, per somme dovute alla Cassa edile a titolo di ferie, tredicesima mensilità e festività, nonché per trattamento di fine rapporto.

In particolare, la Corte di Appello aveva motivato la declaratoria di illegittimità dell’atto di recesso con il difetto della prova circa le assenze oggetto di contestazione disciplinare, mentre, con riferimento alle differenze retributive domandate, i testimoni escussi avevano confermato l’espletamento di straordinario continuativo, il cui corrispondente valore monetario era stato quantificato dalla disposta  consulenza tecnica di ufficio.

Contro questa sentenza, l’azienda aveva adito la Cassazione, contestando alla pronuncia del merito la mancata considerazione che le assenze non autorizzate erano state oggetto di specifica contestazione disciplinare, rispetto alla quale il dipendente non aveva fornito alcuna giustificazione.

 
Sempre in base alla tesi di parte ricorrente, il datore di lavoro avrebbe soltanto l’onere di provare l’assenza del lavoratore nella sua oggettività, spettando invece a quest’ultimo la prova della giustificazione dell’assenza.

Nel rigettare il ricorso, la Suprema Corte ha affermato come la  sentenza impugnata avesse correttamente ritenuto illegittimo il recesso in difetto della prova delle assenze oggetto di contestazione.

Sul punto, la stessa Corte di legittimità aveva già osservato (1) che, nel caso in cui la giusta causa di recesso sia costituita dalla assenza ingiustificata del lavoratore dal servizio, il datore di lavoro può limitarsi a provare l'assenza nella sua oggettività, mentre grava sul dipendente l'onere di provare gli elementi che possono giustificare l'assenza e, in particolare, la sua dipendenza da causa a lui non imputabile.

Peraltro, sempre la giurisprudenza aveva avuto modo di precisare (2) che solo la pacifica verificazione dell’assenza esonera il datore di lavoro all'onere della prova impostogli dalla legge, comportando, dall'altra parte, che il lavoratore inadempiente possa liberarsi della responsabilità dimostrando la non imputabilità della mancata prestazione.

Tornando al caso di specie, la Suprema Corte ha evidenziato che dagli atti del giudizio non erano emersi elementi idonei ad attestare le asserite assenze. Né, parimenti, poteva dirsi sufficiente per dimostrare la condotta contestata al lavoratore,  la mera indicazione delle assenze nell’atto del procedimento disciplinare, con la conseguente irrilevanza della mancata adduzione di giustificazioni da parte del lavoratore nella fase dell’addebito.

Tali considerazioni hanno indotto la Cassazione ad affermare la correttezza della sentenza impugnata che, in relazione alle dette acquisizione probatorie, aveva escluso la sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo di licenziamento.

A proposito dei crediti retributivi, l’azienda aveva poi dedotto tra i motivi di ricorso che  la sentenza di Appello avesse accolto la richiesta del lavoratore, considerando come percepita una retribuzione inferiore rispetto a quella indicata dalle buste paga e negando  l’efficacia solutoria dei pagamenti effettuati alla Cassa edile. Inoltre, sempre a detta del datore di lavoro,  il ricorrente non avrebbe provato l’espletamento del lavoro straordinario, oltre al fatto che il giudice del merito avrebbe trascurato l’avvenuta percezione di somme a tal uopo  indicate specificamente.

Si tratta di contestazioni ritenute inammissibili dalla Cassazione, in quanto prive di allegazione  del passaggio letterale contenuto nella relazione con la quale il consulente tecnico di ufficio  avrebbe considerato come percepite somme inferiori rispetto a quelle indicate nelle buste paga o nei documenti prodotti ritualmente.

Il datore di lavoro aveva poi omesso  di  indicare il contenuto specifico del documento della Cassa edile che attesterebbe la corresponsione di date somme, così come non erano state trascritte le dichiarazioni testimoniali che l’azienda aveva asserito non essere state correttamente valutate ai fini della determinazione dello straordinario. Prove testimoniali, tra l’altro, non censurate motivatamente.

La Cassazione ha ricordato che, qualora con il ricorso al giudice di legittimità venga dedotta l'omessa od insufficiente motivazione della sentenza di merito per l'asserita mancata valutazione di risultanze processuali – ad es. un documento, le deposizioni testimoniali,  le dichiarazioni di parte o gli accertamenti del consulente tecnico - è già stata  affermata (3) la necessità che il ricorrente precisi  la risultanza che egli assume decisiva e non valutata (o insufficientemente valutata).

Per altro verso, la giurisprudenza ha costantemente affermato (4) che la parte che addebiti alla consulenza tecnica d'ufficio lacune di accertamento o errori di valutazione, oppure si dolga di erronei apprezzamenti in essa contenuti, ha l'onere di trascrivere integralmente nel ricorso per Cassazione almeno i passaggi salienti  non condivisi e di riportare  il contenuto specifico delle critiche  sollevate.

In sostanza, le critiche mosse alla consulenza ed alla sentenza del merito devono possedere un grado di specificità tale da consentire alla Corte di legittimità di apprezzarne la decisività.

Per tutte le richiamate ragioni, la Cassazione ha rigettato il ricorso ed ha condannato il datore di lavoro al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in 3.500,00 € per compensi, 100,00 € per spese, oltre accessori di legge.

Valerio Pollastrini

 
(1)   – Cass., Sentenza n.2988 del 7 febbraio 2011;
(2)   – Cass., Sentenza n.8720 del 9 aprile 2009;
(3)   – Cass., Sentenza n.17308 del 30 agosto 2004; Cass., Sentenza n.8388 del 12 giugno 2002;
(4)   – Cass., Sentenza n.13845 del 13 giugno 2007;

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