Il
caso di specie è giunto dinnanzi alla Suprema Corte dopo che la Commissione Tributaria
Regionale di Bologna aveva rigettato l’appello, proposto da una società nei
confronti dell’Agenzia delle Entrate, contro la pronuncia con cui la Commissione Tributaria
Provinciale di Rimini aveva accolto solo parzialmente il ricorso avverso
l’avviso di irrogazione di sanzioni relative all’omessa registrazione sui libri
paga e matricola di una dipendente, disponendo il ricalcolo delle sanzioni
limitatamente al periodo compreso fra il 16 giugno 2002 ed il 26 agosto 2002.
L’azienda
aveva adito la Cassazione, denunciando in primis difetto di giurisdizione in
relazione a quanto enunciato dalla Corte
Costituzionale (1) a proposito dell’incostituzionalità
dell’art. 2 del D.Lgs. n.546/1992 nella parte in cui include nella
giurisdizione delle Commissioni Tributarie anche le controversie aventi ad
oggetto le sanzioni amministrative di natura non tributaria comunque irrogate
da uffici finanziari, poiché tale giurisdizione è consentita soltanto se il
rapporto sottostante ha natura tributaria.
Nell’escludere
il fondamento della censura, la Cassazione ha preliminarmente richiamato il principio (2) in base quale i
mutamenti di legge intervenuti nel corso del giudizio non assumono rilevanza ai
fini della giurisdizione, la quale si determina con riguardo alla legge vigente
al momento della proposizione della domanda. Gli ermellini hanno ricordato come
tale principio si riferisca esclusivamente all'effetto abrogativo determinato
dal sopravvenire di una nuova legge e non anche all'effetto di annullamento
dipendente dalle pronunce di incostituzionalità. Ciò, tuttavia, ha valore purché sulla giurisdizione non si
sia formato il giudicato o non siano decorsi i termini di prescrizione o
decadenza stabiliti per l’esercizio di determinati diritti.
La
Suprema Corte ha però dichiarato come, dal momento che il giudice di primo
grado, pronunciandosi nel merito, aveva implicitamente affermato la propria
giurisdizione, senza che quest’ultima fosse stata contestata in appello, nel
caso di specie trova applicazione l’altro principio, secondo il quale la
relativa questione risulta ormai coperta da giudicato implicito (3).
Un
altro motivo di doglianza era stata la conferma, da parte del giudice del
merito, della data di assunzione della lavoratrice secondo a quanto riportato
nel verbale di accertamento ispettivo dell’INPS.
Secondo
il datore di lavoro, la pronuncia impugnata avrebbe trascurato che i verbali
ispettivi, qualora non formino piena prova relativamente all’intero
accertamento, non sarebbero idonei a provarne una singola parte, a maggior ragione
quando l’azienda vi abbia fatto acquiescenza senza riserve, come nel caso in
esame.
Ritenuta
infondata anche questa contestazione, la Cassazione ha ribadito quanto più
volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità in merito ai verbali redatti dagli ispettori del lavoro
o dai funzionari degli enti previdenziali, che, al pari di quelli redatti dagli
altri pubblici ufficiali, fanno piena
prova, fino a querela di falso, unicamente dei fatti attestati nel verbale di
accertamento come avvenuti alla presenza del pubblico ufficiale o da lui
compiuti, mentre la fede privilegiata
non può essere estesa alla verità sostanziale delle dichiarazioni,
ovvero alla fondatezza di apprezzamenti o valutazioni del verbalizzante (4).
Per
quanto concerne la veridicità delle dichiarazioni rese da terzi al pubblico
ufficiale, inoltre, la legge non attribuisce al verbale alcun valore probatorio
precostituito, neppure di presunzione semplice, sicché il materiale raccolto
dal verbalizzante deve essere liberamente apprezzato dal giudice, il quale può
valutarne l’importanza ai fini della prova, ma non può mai attribuirgli il
valore di vero e proprio accertamento, addossando l’onere di fornire la prova
contraria al soggetto sul quale non ricade (5).
Contrariamente
a quanto sostenuto dall’azienda, pertanto, sussistendo soltanto nei limiti
anzidetti l’idoneità probatoria dei verbali ispettivi, non può pretendersi che
le dichiarazioni raccolte dai pubblici ufficiali debbano essere accolte o
disattese nella loro interezza.
In
base alle richiamate motivazioni, la Cassazione ha concluso rigettando il ricorso, con conseguente
condanna dell’azienda al pagamento delle
spese del giudizio di legittimità, liquidate in 3.000,00 € per compensi
professionali, oltre spese prenotate a debito.
Valerio
Pollastrini
(1)
–
Corte Cost., Sentenza n.130/2008;
(2)
-
Cass.S.U., Sentenza n.19495 del 16 luglio 2008;
(3)
-
Cass., Sentenza n.19475/2012; Cass. S.U.,
Sentenza n.24883/2008; Cass., Sentenza n.19792/2001; Cass. S.U., Sentenza
n.27531/2008;
(4)
-
Cass.S.U., Sentenza n.12545/1992; Cass., Sentenza n.17355/2009;
(5)
-
Cass., Sentenza n.1786/2000; Cass., Sentenza n.1786/1998; Cass., Sentenza n.6110/1998;
Cass., Sentenza n.3973/1998; Cass., Sentenza n.6847/1987;
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