Il
caso di specie è quello di un lavoratore risultato affetto da fibrosi polmonare
progressiva interstiziale conseguente ad inalazione di fibre di amianto.
Il
Tribunale di Bergamo aveva condannato il datore di lavoro al risarcimento del danno biologico e morale in
base ai risultati della CTU che, attribuendo al ricorrente una percentuale di
invalidità del 5%, aveva affermato l'eziopatologia professionale della malattia
e il nesso causale con l'omissione colposa di misure di sicurezza idonee a
prevenire e diminuire le polveri di amianto, presenti sul luogo di lavoro in
ragione dell'attività produttiva svolta dalla società convenuta.
Il
Giudice di primo grado aveva però respinto la domanda del lavoratore relativa al danno da ipoacusia, non essendo
stato possibile enucleare all'interno del danno complessivo la percentuale
attribuibile alla convenuta.
La
società aveva proposto appello avverso detta sentenza, sottolineando la sensibilità individuale alle
polveri d'amianto, la non prevedibilità del danno e l'assenza quindi di una
violazione dell'art. 2087 c.c., essendo gli impianti a norma secondo le
conoscenze dell'epoca.
L'appellante
contestava comunque la quantificazione del danno effettuata secondo le
cosiddette tabelle di Milano, in luogo dell'applicazione delle tabelle INAIL
comprendenti anche il danno biologico.
Il
lavoratore aveva invece proposto Appello incidentale sul mancato riconoscimento
del danno da ipoacusia, in quanto, essendo stata riconosciuta la genesi
professionale della menomazione e la rumorosità dell'ambiente di lavoro,
sarebbe stato necessario procedere ad nuova CTU per enucleare il danno
riconducibile all'esposizione presso l’azienda.
Rinnovata
la CTU audiologica, la Corte di Appello di Brescia aveva respinto il ricorso
dell’azienda e, in accoglimento di quello incidentale, aveva condannato la
società al risarcimento del danno biologico differenziale e morale da ipoacusia
professionale nella misura complessiva di 8.087,33 €, oltre accessori.
In
sintesi, la Corte territoriale aveva ritenuto provata la condotta colposa della
società, consistente nell’omessa
predisposizione delle misure di sicurezza finalizzate alla riduzione della
polverosità dell'ambiente di lavoro, nella mancata adozione di procedimenti di
lavorazione idonei a limitare le operazioni suscettibili di creare ulteriore
polverosità e nella mancata istruzione dei dipendenti sulla pericolosità delle
lavorazioni a cui erano addetti e sulle cautele da osservare.
A
proposito della supposta interruzione del nesso causale fra condotta ed evento,
il giudicante aveva ritenuto inoltre non provate dalla società le dedotte
circostanze legate all'esistenza di una predisposizione individuale a contrarre
la malattia e alla possibilità di contrarla anche per l'inalazione di dosi
minime di polveri.
Attesa
la differenza ontologica tra l'indennizzo erogato dall'INAIL ed il risarcimento del danno in materia di
responsabilità civile, la Corte del merito aveva rilevato che, comunque, doveva
essere riconosciuto al lavoratore il danno biologico da invalidità permanente,
escluso dalla sfera dell'assicurazione INAIL, applicando a tal fine i criteri equitativi milanesi in uso anche nel
distretto di Brescia.
Quanto
all’Appello incidentale proposto dal lavoratore, la Corte territoriale aveva
rilevato che la CTU espletata in sede di
gravame avesse confermato sia la otolesività della lavorazione, sia il certo
nesso causale tra la stessa e una quota del danno da ipoacusia professionale,
pari complessivamente al 9% . Nella fattispecie in oggetto, pertanto, doveva senz'altro ritenersi sussistente la
concausa della invalidità in termini di rilevante probabilità, senza che la
maggiore o minore incidenza nel raffronto con le altre concause di origine
professionale ed extraprofessionale avessero rilievo.
Contro
la sentenza di Appello, la società aveva proposto ricorso per Cassazione, deducendo
la mancata prova del nesso causale tra l’esposizione
all'amianto e l'evento lesivo, in assenza elementi utili ad accertare se il lavoratore avesse contratto le placche
pleuriche a causa della sua elevata suscettibilità individuale, certamente non
addebitabile al datore di lavoro, ovvero,
successivamente, per effetto delle dosi progressivamente accumulate.
Secondo
la ricorrente, le conoscenze derivanti dalla epidemiologia riguardano la causalità
generale, ma nulla dicono sulla causalità individuale e, pertanto, non sarebbe
consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso
dalla legge statistica la conferma o meno dell'esistenza del nesso causale,
dovendo il giudice verificarne la validità nel caso concreto.
La
società aveva poi lamentato che, all'epoca
in cui risaliva l'esposizione all'amianto del lavoratore, fosse impossibile prevenire le placche pleuriche. Fino
alla seconda metà degli anni '80, infatti, sia le maschere antipolvere
individuali, che i filtri per gli impianti di aspirazione fissi e mobili,
erano completamente inefficaci, in quanto
sicuramente permeabili alle fibre di diametro submicronico.
Le
adeguate protezioni verso le fibre ultrafini, costituite dalle maschere di gomma semifacciali con filtri
assoluti, erano state ufficialmente prescritte in Italia con il Decreto del 6 settembre 1994.
Il
datore di lavoro aveva poi contestato alla Corte del merito l’affermazione in
base alla quale la responsabilità dell’azienda sarebbe stata provata della
mancata predisposizione dei sistemi di aspirazione o riduzione delle polveri
che avevano causato l'insorgenza delle placche pleuriche.
Secondo
la tesi ricorrente, all’epoca dei fatti le acquisizioni tecniche di causa
escludevano invece l'esistenza di rimedi
preventivi adeguati.
La pronuncia
della Cassazione
Investita
della questione, la Suprema Corte ha innanzitutto rilevato l’inammissibilità
dell’ultima doglianza aziendale, in quanto priva del quesito di diritto che, ai sensi
dell’art. 366-bis c.p.c., deve essere applicato nella specie ratione temporis, trattandosi di ricorso
contro una sentenza pubblicata successivamente all'entrata in vigore del D.Lgs.
n.40 del 2006 ed anteriormente all'entrata in vigore della Legge n.69 del 2009 (1).
La
Cassazione ha poi respinto, perché infondate, le altre deduzioni del ricorrente,
premettendo che, nella specie, trova
applicazione la regola contenuta nell'art.41 cod. pen., in base al quale il
rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell'equivalenza
delle condizioni, che riconosce l'efficienza causale ad ogni antecedente che
abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione
dell'evento, salvo il temperamento previsto nello stesso art. 41 cod. pen., in
forza del quale il nesso eziologico è interrotto dalla sopravvenienza di un
fattore sufficiente da solo a produrre l'evento, tale da far degradare le cause
antecedenti a semplici occasioni (2).
Del
resto è stato costantemente affermato (3) che, secondo il criterio, ispirato alla
regola della normalità causale, ossia del "più probabile che non", la prova del nesso causale consiste anche
nella relazione probabilistica concreta tra comportamento ed evento dannoso.
In
particolare, è stato inoltre precisato (4) che nel caso di malattia ad eziologia
multifattoriale, il nesso di causalità relativo all'origine professionale della
patologia non può essere oggetto di semplici presunzioni tratte da ipotesi
tecniche teoricamente possibili, ma necessita di una concreta e specifica
dimostrazione. Se questa può essere
fornita anche in termini di probabilità sulla base delle particolarità della
fattispecie, è pur sempre necessario che si tratti di "probabilità
qualificata", la cui attestazione deve risultare da ulteriori elementi
(come ad esempio i dati epidemiologici), idonei a tradurre la conclusione
probabilistica in certezza giudiziale.
Nel
caso in commento la Corte territoriale, applicando
i principi sopra richiamati, aveva legittimamente ritenuto provato, sulla base delle valutazioni
e delle conclusioni della CTU, il nesso causale tra l'esposizione professionale
all'amianto e la genesi della patologia polmonare contratta.
In
particolare, il Giudice di Appello non si era limitato a fare proprie le valutazioni epidemiologiche della CTU, ma, in
base alla prova testimoniale, aveva inoltre accertato che il dipendente fosse stato esposto al rischio di inalazione
di fibre di amianto in modo massiccio, in un ambiente privo delle necessarie
misure di sicurezza all'epoca già conosciute, quali la segregazione degli
ambienti polverosi, l'installazione di impianti di aspirazione adeguati e
l'abbattimento delle polveri con l'umidificazione.
Parimenti
infondata, secondo la Suprema Corte, la censura riguardante l'asserita non
prevedibilità, all'epoca, dell'evento dannoso.
Come
è stato ripetutamente affermato dalla Cassazione (5), la responsabilità del datore di
lavoro di cui al citato art. 2087 è di natura contrattuale, pertanto, ai fini
del relativo accertamento, incombe sul lavoratore che lamenti di aver subito un
danno alla salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la
nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro elemento,
mentre grava sul datore di lavoro - una volta che il lavoratore abbia provato
le predette circostanze - l'onere di provare di aver fatto tutto il possibile
per evitare il danno, ovvero di aver adottato tutte le cautele necessarie per
impedire il suo verificarsi.
In
sostanza, risulta pacifico il principio più volte affermato (6), in base al
quale la responsabilità
dell'imprenditore per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare
l'integrità fisica del lavoratore discende o da norme specifiche o, quando
queste non siano rinvenibili, dalla norma di ordine generale di cui all'art.
2087 c.c., che impone al datore l'obbligo di adottare tutte quelle misure che,
secondo la particolarità delle prestazioni svolte dai dipendenti, si rendano
necessarie a tutelarne l'integrità fisica.
Con
riguardo all'inalazione di polveri di amianto, la Cassazione aveva già avuto
modo di precisare (7)
che,
ai sensi dell’art.2087 cod.civ., la responsabilità dell’imprenditore è circoscritta alla violazione di regole
d'esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, sanzionando anche,
alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l'omessa
predisposizione di tutte le misure e cautele atte a preservare l'integrità
psicofisica del dipendente nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta
realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di indagare sull'esistenza
di fattori di rischio in un determinato momento storico.
Pertanto,
qualora risulti accertato che il danno sia stato causato dalla nocività
dell'attività lavorativa per esposizione all'amianto, è onere del datore di
lavoro provare di avere adottato, pur in difetto di una specifica disposizione
preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute
dal rischio espositivo secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della
malattia.
Del
resto, è stato pure chiarito (8) che, quand’anche
all'epoca non fossero state ancora emanate specifiche norme per il trattamento
dei materiali contenenti amianto (9), senz'altro si imponeva l'adozione di misure
idonee a ridurre il rischio connaturale all'impiego di tali materiali, in
relazione alla norma di chiusura di cui all'art. 2087 c.c. ed all'art.21 del D.P.R.
n.303 del 19 marzo 1956, ove si stabilisce che nei lavori che diano normalmente
luogo alla formazione di polveri di qualunque specie, il datore di lavoro è
tenuto ad adottare provvedimenti atti ad impedirne o ridurne, per quanto è
possibile, lo sviluppo e la diffusione nell'ambiente di lavoro, soggiungendo
che "le misure da adottare a tal
fine devono tenere conto della natura delle polveri e della loro concentrazione",
cioè devono avere caratteristiche adeguate alla pericolosità delle polveri.
Orbene,
la sentenza impugnata, dopo aver premesso che la normativa del 1956 già
contemplasse alcune misure specifiche (10), in base alle risultanze della prova
testimoniale, aveva accertato che tali misure, idonee ad abbattere significativamente la
polverosità e quindi anche ad evitare l'insorgenza della malattia, non erano
state adottate in azienda. Al contrario, il reparto di miscelazione, pur
separato dagli altri, non era segregato e per molti anni non erano stati predisposti aspiratori.
Diverse,
inoltre, erano risultate le mansioni
implicanti l'esposizione diretta alla polvere non inumidita, comprese quelle di
pulizia di macchine dal materiale secco, dello spostamento dei sacchi di tela
contenenti la polvere di amianto, del caricamento dei miscelatori e della manipolazione degli impasti.
Queste,
dunque, erano state le ragioni che avevano indotto la Corte di merito a
ritenere provata la condotta colposa omissiva della società sotto il profilo
della mancata riduzione della polverosità dell'ambiente di lavoro, della
mancata adozione di procedimenti di lavorazione idonei a limitare le operazioni
suscettibili di creare ulteriore polverosità e della mancata istruzione
adeguata dei dipendenti in ordine alla pericolosità delle lavorazioni a cui
erano addetti e alle cautele da osservare.
Tali
omissioni erano state ritenute rilevanti, a prescindere dalle questioni
relative alla dotazione di mascherine e alle loro caratteristiche tecniche
all'epoca dei fatti.
Ritenendo
la decisione impugnata conforme ai principi sopra richiamati e all'indirizzo
consolidato in materia, la Corte di Cassazione ha concluso rigettando il
ricorso, con conseguente condanna dell’azienda al pagamento delle spese del
giudizio di legittimità, liquidate in 3.000,00 € per compensi professionali,
100,00 € per esborsi,
oltre
accessori di legge.
Valerio
Pollastrini
(1)
-
Cass., Sentenza n.26364 del 16 dicembre
2009; Cass., Sentenza n.15718 del 18
luglio 2011;
(2)
-
Cass., Sentenza n.17959 del 9 settembre
2005, Cass., Sentenza n.6722 del 3
maggio 2003;
(3)
-
Cass., Sentenza n.975 del 16 gennaio 2009; Cass., Sentenza n.21619 del 16 ottobre 2007; Cass., Sentenza , n.10741 dell’11 maggio 2009; Cass.,
Sentenza n.16123 dell’8 luglio 2010;
Cass., Sentenza n.15991 del 21 luglio
2011;
(4)
-
Cass., Sentenza n.9057 del 12 maggio 2004;
(5)
-
Cass., Sentenza n.3788 del 17 febbraio
2009; Cass., Sentenza n.3786 del 17 febbraio 2009; Cass., Sentenza n.4840 del 7 marzo 2006; Cass., Sentenza n.16881
del 24 luglio 2006; Cass., Sentenza n.9856 del 6 luglio 2002; Cass., Sentenza n.1886 del 18 febbraio 2000;
(6)
-
Cass., Sentenza n.6377 del 19 aprile
2003; Cass., Sentenza n.16645 del 1°
ottobre 2003;
(7)
-
Cass., Sentenza n.13956 del 3 agosto 2012; Cass., Sentenza n.2491 del 1°
febbraio 2008; Cass., Sentenza n.644 del
14 gennaio 2005;
(8)
-
Cass., Sentenza n.14010 del 30 giugno 2005;
(9)
-
Introdotte con il D.P.R. n.15 del 10
febbraio 1982;
(10)
-
Quali la segregazione degli ambienti polverosi, l'installazione di impianti di
aspirazione adeguati e l'abbattimento delle polveri con l'umidificazione;
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