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martedì 29 aprile 2014

Amianto – Il datore di lavoro è responsabile della malattia del dipendente

Nella sentenza n.1477 del 24 gennaio 2014 la Corte di Cassazione ha riepilogato i profili della responsabilità dell’imprenditore per la malattia professionale patita dal dipendente in seguito alla diretta esposizione alle polveri di amianto durante il rapporto di lavoro.

Il caso di specie è quello di un lavoratore risultato affetto da fibrosi polmonare progressiva interstiziale conseguente ad inalazione di fibre di amianto.

Il Tribunale di Bergamo aveva condannato il datore di lavoro  al risarcimento del danno biologico e morale in base ai risultati della CTU che, attribuendo al ricorrente una percentuale di invalidità del 5%, aveva affermato l'eziopatologia professionale della malattia e il nesso causale con l'omissione colposa di misure di sicurezza idonee a prevenire e diminuire le polveri di amianto, presenti sul luogo di lavoro in ragione dell'attività produttiva svolta dalla società convenuta.

Il Giudice di primo grado aveva però respinto la domanda del lavoratore  relativa al danno da ipoacusia, non essendo stato possibile enucleare all'interno del danno complessivo la percentuale attribuibile alla convenuta.

La società aveva proposto appello avverso detta sentenza,  sottolineando la sensibilità individuale alle polveri d'amianto, la non prevedibilità del danno e l'assenza quindi di una violazione dell'art. 2087 c.c., essendo gli impianti a norma secondo le conoscenze dell'epoca.

L'appellante contestava comunque la quantificazione del danno effettuata secondo le cosiddette tabelle di Milano, in luogo dell'applicazione delle tabelle INAIL comprendenti anche il danno biologico.

Il lavoratore aveva invece proposto Appello incidentale sul mancato riconoscimento del danno da ipoacusia, in quanto, essendo stata riconosciuta la genesi professionale della menomazione e la rumorosità dell'ambiente di lavoro, sarebbe stato necessario procedere ad nuova CTU per enucleare il danno riconducibile all'esposizione presso l’azienda.

Rinnovata la CTU audiologica, la Corte di Appello di Brescia aveva respinto il ricorso dell’azienda e, in accoglimento di quello incidentale, aveva condannato la società al risarcimento del danno biologico differenziale e morale da ipoacusia professionale nella misura complessiva di 8.087,33 €, oltre accessori.

In sintesi, la Corte territoriale aveva ritenuto provata la condotta colposa della società, consistente  nell’omessa predisposizione delle misure di sicurezza finalizzate alla riduzione della polverosità dell'ambiente di lavoro, nella mancata adozione di procedimenti di lavorazione idonei a limitare le operazioni suscettibili di creare ulteriore polverosità e nella mancata istruzione  dei dipendenti sulla pericolosità delle lavorazioni a cui erano addetti e sulle cautele da osservare.

A proposito della supposta interruzione del nesso causale fra condotta ed evento, il giudicante aveva ritenuto inoltre non provate dalla società le dedotte circostanze legate all'esistenza di una predisposizione individuale a contrarre la malattia e alla possibilità di contrarla anche per l'inalazione di dosi minime di polveri.

Attesa la differenza ontologica tra l'indennizzo erogato dall'INAIL  ed il risarcimento del danno in materia di responsabilità civile, la Corte del merito aveva rilevato che, comunque, doveva essere riconosciuto al lavoratore il danno biologico da invalidità permanente, escluso dalla sfera dell'assicurazione INAIL, applicando a tal fine  i criteri equitativi milanesi in uso anche nel distretto di Brescia.

Quanto all’Appello incidentale proposto dal lavoratore, la Corte territoriale aveva rilevato che  la CTU espletata in sede di gravame avesse confermato sia la otolesività della lavorazione, sia il certo nesso causale tra la stessa e una quota del danno da ipoacusia professionale, pari complessivamente al 9% . Nella fattispecie in oggetto, pertanto,  doveva senz'altro ritenersi sussistente la concausa della invalidità in termini di rilevante probabilità, senza che la maggiore o minore incidenza nel raffronto con le altre concause di origine professionale ed extraprofessionale avessero rilievo.

Contro la sentenza di Appello, la società aveva proposto ricorso per Cassazione, deducendo la mancata  prova del nesso causale tra l’esposizione all'amianto e l'evento lesivo, in assenza elementi utili ad accertare se  il lavoratore avesse contratto le placche pleuriche a causa della sua elevata suscettibilità individuale, certamente non addebitabile al datore di lavoro,  ovvero, successivamente, per effetto delle dosi progressivamente accumulate.

Secondo la ricorrente, le conoscenze derivanti dalla epidemiologia riguardano la causalità generale, ma nulla dicono sulla causalità individuale e, pertanto, non sarebbe consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma o meno dell'esistenza del nesso causale, dovendo il giudice verificarne la validità nel caso concreto.

La società aveva poi lamentato che,  all'epoca in cui risaliva l'esposizione all'amianto del lavoratore, fosse  impossibile prevenire le placche pleuriche. Fino alla seconda metà degli anni '80, infatti, sia le maschere antipolvere individuali, che i filtri per gli impianti di aspirazione fissi e mobili, erano   completamente inefficaci, in quanto sicuramente permeabili alle fibre di diametro submicronico.

Le adeguate protezioni verso le fibre ultrafini, costituite dalle  maschere di gomma semifacciali con filtri assoluti, erano state ufficialmente prescritte in Italia con il Decreto del 6 settembre 1994.

Il datore di lavoro aveva poi contestato alla Corte del merito l’affermazione in base alla quale la responsabilità dell’azienda sarebbe stata provata della mancata predisposizione dei sistemi di aspirazione o riduzione delle polveri che avevano causato l'insorgenza delle placche pleuriche.

Secondo la tesi ricorrente, all’epoca dei fatti le acquisizioni tecniche di causa escludevano invece  l'esistenza di rimedi preventivi adeguati.

La pronuncia della Cassazione
Investita della questione, la Suprema Corte ha innanzitutto rilevato l’inammissibilità dell’ultima doglianza aziendale, in quanto  priva del quesito di diritto che, ai sensi dell’art. 366-bis c.p.c., deve essere applicato nella specie ratione temporis, trattandosi di ricorso contro una sentenza pubblicata successivamente all'entrata in vigore del D.Lgs. n.40 del 2006 ed anteriormente all'entrata in vigore della Legge n.69 del 2009 (1).

La Cassazione ha poi respinto, perché infondate, le altre deduzioni del ricorrente, premettendo  che, nella specie, trova applicazione la regola contenuta nell'art.41 cod. pen., in base al quale il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell'equivalenza delle condizioni, che riconosce l'efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell'evento, salvo il temperamento previsto nello stesso art. 41 cod. pen., in forza del quale il nesso eziologico è interrotto dalla sopravvenienza di un fattore sufficiente da solo a produrre l'evento, tale da far degradare le cause antecedenti a semplici occasioni (2).

Del resto  è stato costantemente affermato  (3) che, secondo il criterio, ispirato alla regola della normalità causale, ossia del "più probabile che non",  la prova del nesso causale consiste anche nella relazione probabilistica concreta tra comportamento ed evento dannoso.

In particolare,  è stato inoltre precisato (4)  che nel caso di malattia ad eziologia multifattoriale, il nesso di causalità relativo all'origine professionale della patologia non può essere oggetto di semplici presunzioni tratte da ipotesi tecniche teoricamente possibili, ma necessita di una concreta e specifica dimostrazione.  Se questa può essere fornita anche in termini di probabilità sulla base delle particolarità della fattispecie, è pur sempre  necessario  che si tratti di "probabilità qualificata", la cui attestazione deve risultare da ulteriori elementi (come ad esempio i dati epidemiologici), idonei a tradurre la conclusione probabilistica in certezza giudiziale.

Nel caso in commento la Corte territoriale,  applicando i principi sopra richiamati, aveva legittimamente  ritenuto provato, sulla base delle valutazioni e delle conclusioni della CTU, il nesso causale tra l'esposizione professionale all'amianto e la genesi della patologia polmonare contratta.

In particolare, il Giudice di Appello non si era limitato a fare proprie  le valutazioni epidemiologiche della CTU, ma, in base alla prova testimoniale, aveva inoltre accertato che il dipendente  fosse stato esposto al rischio di inalazione di fibre di amianto in modo massiccio, in un ambiente privo delle necessarie misure di sicurezza all'epoca già conosciute, quali la segregazione degli ambienti polverosi, l'installazione di impianti di aspirazione adeguati e l'abbattimento delle polveri con l'umidificazione.

Parimenti infondata, secondo la Suprema Corte, la censura riguardante l'asserita non prevedibilità, all'epoca, dell'evento dannoso.

Come è stato ripetutamente affermato dalla Cassazione (5), la responsabilità del datore di lavoro di cui al citato art. 2087 è di natura contrattuale, pertanto, ai fini del relativo accertamento, incombe sul lavoratore che lamenti di aver subito un danno alla salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro elemento, mentre grava sul datore di lavoro - una volta che il lavoratore abbia provato le predette circostanze - l'onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il suo verificarsi.

In sostanza, risulta pacifico il principio più volte affermato (6), in base al quale  la responsabilità dell'imprenditore per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l'integrità fisica del lavoratore discende o da norme specifiche o, quando queste non siano rinvenibili, dalla norma di ordine generale di cui all'art. 2087 c.c., che impone al datore  l'obbligo di adottare tutte quelle misure che, secondo la particolarità delle prestazioni svolte dai dipendenti, si rendano necessarie a tutelarne l'integrità fisica.

Con riguardo all'inalazione di polveri di amianto, la Cassazione aveva già avuto modo di precisare (7) che, ai sensi dell’art.2087 cod.civ., la responsabilità  dell’imprenditore è circoscritta alla violazione di regole d'esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, sanzionando anche, alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l'omessa predisposizione di tutte le misure e cautele atte a preservare l'integrità psicofisica del dipendente nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di indagare sull'esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico.

Pertanto, qualora risulti accertato che il danno sia stato causato dalla nocività dell'attività lavorativa per esposizione all'amianto, è onere del datore di lavoro provare di avere adottato, pur in difetto di una specifica disposizione preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute dal rischio espositivo secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della malattia.

Del resto, è stato pure chiarito (8) che,  quand’anche all'epoca non fossero state ancora emanate specifiche norme per il trattamento dei materiali contenenti amianto (9),  senz'altro si imponeva l'adozione di misure idonee a ridurre il rischio connaturale all'impiego di tali materiali, in relazione alla norma di chiusura di cui all'art. 2087 c.c. ed all'art.21 del D.P.R. n.303 del 19 marzo 1956, ove si stabilisce che nei lavori che diano normalmente luogo alla formazione di polveri di qualunque specie, il datore di lavoro è tenuto ad adottare provvedimenti atti ad impedirne o ridurne, per quanto è possibile, lo sviluppo e la diffusione nell'ambiente di lavoro, soggiungendo che "le misure da adottare a tal fine devono tenere conto della natura delle polveri e della loro concentrazione", cioè devono avere caratteristiche adeguate alla pericolosità delle polveri.

Orbene, la sentenza impugnata, dopo aver premesso che la normativa del 1956 già contemplasse alcune misure specifiche (10), in base alle risultanze della prova testimoniale, aveva accertato che tali misure,  idonee ad abbattere significativamente la polverosità e quindi anche ad evitare l'insorgenza della malattia, non erano state adottate in azienda. Al contrario, il reparto di miscelazione, pur separato dagli altri, non era segregato e per molti anni  non erano stati predisposti aspiratori.

Diverse, inoltre, erano risultate  le mansioni implicanti l'esposizione diretta alla polvere non inumidita, comprese quelle di pulizia di macchine dal materiale secco, dello spostamento dei sacchi di tela contenenti la polvere di amianto, del caricamento dei miscelatori  e della manipolazione degli impasti.

Queste, dunque, erano state le ragioni che avevano indotto la Corte di merito a ritenere provata la condotta colposa omissiva della società sotto il profilo della mancata riduzione della polverosità dell'ambiente di lavoro, della mancata adozione di procedimenti di lavorazione idonei a limitare le operazioni suscettibili di creare ulteriore polverosità e della mancata istruzione adeguata dei dipendenti in ordine alla pericolosità delle lavorazioni a cui erano addetti e alle cautele da osservare.

Tali omissioni erano state ritenute rilevanti, a prescindere dalle questioni relative alla dotazione di mascherine e alle loro caratteristiche tecniche all'epoca dei fatti.

Ritenendo la decisione impugnata conforme ai principi sopra richiamati e all'indirizzo consolidato in materia, la Corte di Cassazione ha concluso rigettando il ricorso, con conseguente condanna dell’azienda al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in 3.000,00 € per compensi professionali, 100,00 € per esborsi,
oltre accessori di legge.

Valerio Pollastrini

 

(1)   - Cass., Sentenza  n.26364 del 16 dicembre 2009; Cass., Sentenza  n.15718 del 18 luglio 2011;
(2)   - Cass., Sentenza   n.17959 del 9 settembre 2005, Cass., Sentenza  n.6722 del 3 maggio 2003;
(3)   - Cass., Sentenza n.975 del 16 gennaio 2009; Cass., Sentenza  n.21619 del 16 ottobre 2007;  Cass., Sentenza  , n.10741 dell’11 maggio 2009; Cass., Sentenza  n.16123 dell’8 luglio 2010; Cass., Sentenza  n.15991 del 21 luglio 2011;
(4)   - Cass., Sentenza n.9057 del 12 maggio 2004;
(5)   - Cass., Sentenza  n.3788 del 17 febbraio 2009;  Cass., Sentenza  n.3786 del 17 febbraio 2009;  Cass., Sentenza  n.4840 del 7 marzo 2006;  Cass., Sentenza   n.16881 del  24 luglio 2006; Cass., Sentenza  n.9856 del 6 luglio 2002;  Cass., Sentenza n.1886 del 18 febbraio 2000;
(6)   - Cass., Sentenza  n.6377 del 19 aprile 2003;  Cass., Sentenza n.16645 del 1° ottobre 2003;
(7)   - Cass., Sentenza n.13956 del 3 agosto 2012; Cass., Sentenza n.2491 del 1° febbraio 2008; Cass., Sentenza  n.644 del 14 gennaio 2005;
(8)   - Cass., Sentenza n.14010 del 30 giugno 2005;
(9)   - Introdotte con il  D.P.R. n.15 del 10 febbraio 1982;
(10)                      - Quali la segregazione degli ambienti polverosi, l'installazione di impianti di aspirazione adeguati e l'abbattimento delle polveri con l'umidificazione;

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