Il caso in questione è quello che ha
riguardato un dipendente dell’Enel che, dinnanzi
al Giudice del lavoro, aveva contestato la legittimità dei provvedimenti
disciplinari ricevuti, nonché la
dequalificazione subita, attraverso la quale l’azienda avrebbe attuato nei suoi
confronti un comportamento mobbizzante.
Il ricorrente aveva chiesto che l’Enel
venisse condannata alla completa
ricostruzione della sua carriera, con conseguente attribuzione delle mansioni
corrispondenti, ed al risarcimento di tutti danni subiti, in particolare del
danno alla salute, del danno
biologico e del danno esistenziale. In aggiunta, il lavoratore aveva poi chiesto che
venisse riconosciuto nei suoi confronti l’ulteriore
risarcimento del danno professionale subito in conseguenza dell'illegittima
dequalificazione ed emarginazione patiti, del danno all'immagine ed alla
dignità personale, nonché del danno morale ed alla vita di relazione, oltre al
risarcimento del danno da perdita di chance di promozione e di carriera.
Il lavoratore lamentava inoltre di essere
stato vittima di mobbing in quanto, nel corso dei suoi quindici anni di
servizio aveva subito diversi
trasferimenti d'ufficio ed era stato destinato a mansioni frustranti. Fatti che
ne avrebbero determinato l’emarginazione dai colleghi, anche in relazione all'atteggiamento
dei vari capiufficio che si erano sempre rivelati persecutori, attraverso l'applicazione
di diverse sanzioni disciplinari e ad
una presunta aggressione fisica e
verbale attuata ai suoi danni da parte di un superiore.
Sia il Tribunale di primo grado che la
Corte di Appello, avevano rigettato le domande del lavoratore.
Nel confermare quanto disposto nei
precedenti giudizi di merito, la Corte
di Cassazione ha rilevato che, in relazione agli innumerevoli episodi oggetto
di contestazioni e sanzioni disciplinari, tra l’altro mai formalmente
impugnate, il ricorrente, a distanza di molti anni, si fosse limitato a fornire esclusivamente una propria versione dei
fatti, sulla base di una serie di affermazioni prive di qualsiasi sostegno
probatorio.
La Suprema Corte, in particolare, ha
ribadito quanto affermato dalla Corte territoriale, vale a dire che gli episodi richiamati dal lavoratore come
indicativi della condotta vessatoria asseritamente subita, facevano riferimento
ad episodi contestati dall’azienda dopo ad un’approfondita istruttoria disciplinare,
corredata da dichiarazioni scritte o verbali rilasciate da altri impiegati
presenti al momento dell’accadimento dei fatti.
Sulla base delle motivazioni sopra
riportate la Corte di Cassazione, considerando la scarsa probabilità che tutti
i superiori gerarchici avessero attuato un atteggiamento persecutorio nei
confronti del lavoratore, ha ritenuto il ricorrente affetto da manie di
persecuzione e ne ha, pertanto, escluso il diritto al risarcimento del danno.
Valerio
Pollastrini
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