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venerdì 22 novembre 2013

Il licenziamento è legittimo anche se il lavoratore non ritira la raccomandata


Nella sentenza n.25824 del 18 novembre 2013 la Cassazione ha affrontato la questione della legittimità del licenziamento per giusta causa nonostante la mancata ricezione da parte del lavoratore della lettera  di contestazione disciplinare.

Il caso in oggetto è quello che ha riguardato un dipendente di Poste Italiane al quale il Giudice del lavoro aveva riconosciuto il diritto a rientrare in azienda in seguito all’illegittimità del contratto a termine con il quale era stato assunto.  

In applicazione della sentenza, l’azienda aveva provveduto a richiamare in servizio il lavoratore interessato a mezzo raccomandata con avviso di ritorno.

In assenza di risposta, dopo aver constatato la mancata ripresa dell’attività lavorativa, il datore di lavoro aveva provveduto a contestare al dipendente,  sempre mediante comunicazione postale, l’assenza ingiustificata.

Anche in questo caso la comunicazione di contestazione era risultata “in giacenza” e, dopo 10 giorni di assenza ingiustificata, l’azienda aveva provveduto a licenziare il lavoratore per giusta causa.

Il lavoratore  aveva quindi contestato la legittimità del recesso, chiedendo la reintegrazione nel posto di lavoro, con le conseguenze risarcitorie previste dalla legge.

Dopo il rigetto della domanda, sia in primo grado, che nel giudizio di appello, il dipendente si era rivolto alla Corte di Cassazione.

In particolare, il lavoratore contestava la regolarità  della comunicazione dell’invito a riprendere servizio, nonché quella della lettera di contestazione disciplinare, in quanto  la società aveva utilizzato per le suddette comunicazioni l’indirizzo che il ricorrente aveva indicato come propria residenza nel precedente ricorso sulla legittimità del contratto a termine.

Secondo il giudice di Appello la variazione del luogo di residenza imponeva all’interessato di darne notizia alla società, sicché era insostenibile la tesi che la comunicazione dovesse essere effettuata presso il difensore nel domicilio eletto nel ricorso o alla diversa residenza indicata in altra comunicazione che aveva preceduto lo stesso, non prevedendo la norma di riferimento gerarchie di sorta e non essendo ravvisabili violazioni delle clausole generali di correttezza e buona fede, dalle quali, comunque, sarebbero discese unicamente conseguenze risarcitone.

Il lavoratore, invece, sosteneva che il mittente avesse l’onere di utilizzare le modalità della dichiarazione recettizia più idonee a realizzare gli effetti che la stessa era destinata a produrre, scegliendo il luogo utile per la ricezione, che, per preventiva comunicazione dell’interessato o per pattuizione, risultasse in concreto nella sfera di dominio o controllo del destinatario.

In un momento successivo alla risoluzione del contratto a termine poi impugnato, il lavoratore aveva indicato alla società il nuovo indirizzo di residenza  e, con lettera  avente ad oggetto la richiesta di convocazione per il Tentativo Obbligatorio di Conciliazione, aveva eletto domicilio presso il proprio avvocato.

A suo dire, al momento della disposizione della riammissione in servizio, la società era, quindi, in possesso di tutti i recapiti e non rispondeva a realtà che il ricorrente non avesse comunicato variazioni dell’indirizzo originario.

Il ricorrente osservava inoltre che, nonostante la conoscenza della giacenza della corrispondenza inviata all’indirizzo precedente, la società  aveva reiterato le comunicazioni proprio presso lo stesso  domicilio nel quale  non era stato curato il ritiro, senza contattare il lavoratore presso uno dei recapiti alternativi.

Secondo il lavoratore il recesso era, pertanto, privo dei requisiti di giusta causa perché egli  non era mai stato posto – dolosamente – nella condizione di scegliere di adempiere alla sua obbligazione.

A proposito delle doglianze del lavoratore, la Cassazione ha preliminarmente ricordato che risulta conforme ad un principio già affermato in sede di legittimità, quello secondo cui, qualora la comunicazione del provvedimento di licenziamento venga effettuata al dipendente mediante lettera raccomandata spedita al suo domicilio, essa, a norma dell’art. 1335 c.c., si presume conosciuta dal momento in cui giunge al domicilio del destinatario, ovvero, nel caso in cui la lettera raccomandata non sia stata consegnata per assenza del destinatario e di altra persona abilitata a riceverla, dal momento del rilascio del relativo avviso di giacenza presso l’ufficio postale (1).    

Nel caso di specie, risulta che le comunicazioni presso l’indirizzo conosciuto dall’azienda erano state restituite al mittente per compiuta giacenza e per la Suprema Corte la valutazione del giudice di merito circa la sufficienza di tale attestazione, anche in considerazione della mancanza di contrari elementi di prova forniti dalla controparte, si rivela del tutto corretta e si sottrae perciò ad ogni censura.

L’operatività del principio di presunzione di conoscenza dell’atto all’indirizzo del destinatario si realizza, infatti, quando il plico sia effettivamente pervenuto a destinazione, per il solo fatto oggettivo dell’arrivo della dichiarazione nel luogo di destinazione, ma non quando l’agente postale, ancorché errando, l’abbia rispedito al mittente, dichiarando essere il destinatario sconosciuto (2).

D’altra parte, ai fini dell’applicazione dell’art. 1335 cod. civ,, è sufficiente osservare che tale disposizione consente di superare la presunzione di conoscenza ivi prevista soltanto mediante la prova, da parte del destinatario, di essere stato, senza colpa, nell’impossibilità di avere avuto notizia dell’atto. Il ricorrente, invece,  non contesta che la notificazione era stata eseguita al proprio indirizzo, ma assume che tale prova era in atti, risultando dall’esito di compiuta giacenza della raccomandata, che dava atto delle formalità compiute dall’ufficiale giudiziario.

Per la Cassazione si tratta di un argomento non convincente, atteso che la prova richiesta dalla legge, per poter vincere la presunzione legale, deve necessariamente avere ad oggetto un fatto o una situazione che spezza o interrompe in modo duraturo il collegamento esistente tra il destinatario ed il luogo di destinazione della comunicazione e deve, altresì, dimostrare che tale situazione è incolpevole, non potendo cioè essere superata dall’interessato con l’uso dell’ordinaria diligenza (3).

La Suprema Corte, in proposito, rileva che  il ricorrente non aveva fornito né allegato alcun fatto diretto a dimostrare di non aver potuto avere conoscenza effettiva dell’atto, né che tale mancanza fosse ascrivibile ad un comportamento incolpevole. Il lavoratore aveva cercato invece di imputare al mittente una colpevole utilizzazione di un indirizzo che, in base a regole di correttezza e buona fede desunte da un ricostruzione dei fatti del tutto personale, doveva essere utilizzato  dalla società   successivamente agli altri indicati, tra cui il domicilio eletto presso il difensore, che, peraltro, concerneva le comunicazioni relative al giudizio e non quelle successive allo stesso destinate al lavoratore.

Alla stregua delle esposte argomentazioni, la Cassazione ha rigettato il ricorso, confermando la legittimità del licenziamento, ed ha condannato il lavoratore  al pagamento delle spese di lite, liquidate in  100,00 € per esborsi e 3000,00 € per compensi professionali, oltre accessori come per legge.

Valerio Pollastrini

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