Nella
sentenza n.25824 del 18 novembre 2013 la Cassazione ha affrontato la questione
della legittimità del licenziamento per giusta causa nonostante la mancata
ricezione da parte del lavoratore della lettera di contestazione disciplinare.
Il
caso in oggetto è quello che ha riguardato un dipendente di Poste Italiane al
quale il Giudice del lavoro aveva riconosciuto il diritto a rientrare in
azienda in seguito all’illegittimità del contratto a termine con il quale era
stato assunto.
In
applicazione della sentenza, l’azienda aveva provveduto a richiamare in servizio
il lavoratore interessato a mezzo raccomandata con avviso di ritorno.
In
assenza di risposta, dopo aver constatato la mancata ripresa dell’attività
lavorativa, il datore di lavoro aveva provveduto a contestare al dipendente, sempre mediante comunicazione postale, l’assenza
ingiustificata.
Anche
in questo caso la comunicazione di contestazione era risultata “in giacenza” e,
dopo 10 giorni di assenza ingiustificata, l’azienda aveva provveduto a
licenziare il lavoratore per giusta causa.
Il
lavoratore aveva quindi contestato la
legittimità del recesso, chiedendo la reintegrazione nel posto di lavoro, con
le conseguenze risarcitorie previste dalla legge.
Dopo
il rigetto della domanda, sia in primo grado, che nel giudizio di appello, il
dipendente si era rivolto alla Corte di Cassazione.
In
particolare, il lavoratore contestava la regolarità della comunicazione dell’invito a riprendere
servizio, nonché quella della lettera di contestazione disciplinare, in quanto la società aveva utilizzato per le suddette comunicazioni
l’indirizzo che il ricorrente aveva indicato come propria residenza nel precedente
ricorso sulla legittimità del contratto a termine.
Secondo
il giudice di Appello la variazione del luogo di residenza imponeva
all’interessato di darne notizia alla società, sicché era insostenibile la tesi
che la comunicazione dovesse essere effettuata presso il difensore nel
domicilio eletto nel ricorso o alla diversa residenza indicata in altra
comunicazione che aveva preceduto lo stesso, non prevedendo la norma di
riferimento gerarchie di sorta e non essendo ravvisabili violazioni delle
clausole generali di correttezza e buona fede, dalle quali, comunque, sarebbero
discese unicamente conseguenze risarcitone.
Il
lavoratore, invece, sosteneva che il mittente avesse l’onere di utilizzare le
modalità della dichiarazione recettizia più idonee a realizzare gli effetti che
la stessa era destinata a produrre, scegliendo il luogo utile per la ricezione,
che, per preventiva comunicazione dell’interessato o per pattuizione,
risultasse in concreto nella sfera di dominio o controllo del destinatario.
In
un momento successivo alla risoluzione del contratto a termine poi impugnato,
il lavoratore aveva indicato alla società il nuovo indirizzo di residenza e, con lettera avente ad oggetto la richiesta di convocazione
per il Tentativo Obbligatorio di Conciliazione, aveva eletto domicilio presso
il proprio avvocato.
A
suo dire, al momento della disposizione della riammissione in servizio, la
società era, quindi, in possesso di tutti i recapiti e non rispondeva a realtà
che il ricorrente non avesse comunicato variazioni dell’indirizzo originario.
Il
ricorrente osservava inoltre che, nonostante la conoscenza della giacenza della
corrispondenza inviata all’indirizzo precedente, la società aveva reiterato le comunicazioni proprio
presso lo stesso domicilio nel quale non era stato curato il ritiro, senza
contattare il lavoratore presso uno dei recapiti alternativi.
Secondo
il lavoratore il recesso era, pertanto, privo dei requisiti di giusta causa
perché egli non era mai stato posto –
dolosamente – nella condizione di scegliere di adempiere alla sua obbligazione.
A
proposito delle doglianze del lavoratore, la Cassazione ha preliminarmente
ricordato che risulta conforme ad un principio già affermato in sede di
legittimità, quello secondo cui, qualora la comunicazione del provvedimento di
licenziamento venga effettuata al dipendente mediante lettera raccomandata
spedita al suo domicilio, essa, a norma dell’art. 1335 c.c., si presume
conosciuta dal momento in cui giunge al domicilio del destinatario, ovvero, nel
caso in cui la lettera raccomandata non sia stata consegnata per assenza del
destinatario e di altra persona abilitata a riceverla, dal momento del rilascio
del relativo avviso di giacenza presso l’ufficio postale (1).
Nel
caso di specie, risulta che le comunicazioni presso l’indirizzo conosciuto dall’azienda
erano state restituite al mittente per compiuta giacenza e per la Suprema Corte
la valutazione del giudice di merito circa la sufficienza di tale attestazione,
anche in considerazione della mancanza di contrari elementi di prova forniti
dalla controparte, si rivela del tutto corretta e si sottrae perciò ad ogni
censura.
L’operatività
del principio di presunzione di conoscenza dell’atto all’indirizzo del destinatario
si realizza, infatti, quando il plico sia effettivamente pervenuto a
destinazione, per il solo fatto oggettivo dell’arrivo della dichiarazione nel
luogo di destinazione, ma non quando l’agente postale, ancorché errando,
l’abbia rispedito al mittente, dichiarando essere il destinatario sconosciuto (2).
D’altra
parte, ai fini dell’applicazione dell’art. 1335 cod. civ,, è sufficiente
osservare che tale disposizione consente di superare la presunzione di conoscenza
ivi prevista soltanto mediante la prova, da parte del destinatario, di essere
stato, senza colpa, nell’impossibilità di avere avuto notizia dell’atto. Il
ricorrente, invece, non contesta che la
notificazione era stata eseguita al proprio indirizzo, ma assume che tale prova
era in atti, risultando dall’esito di compiuta giacenza della raccomandata, che
dava atto delle formalità compiute dall’ufficiale giudiziario.
Per
la Cassazione si tratta di un argomento non convincente, atteso che la prova
richiesta dalla legge, per poter vincere la presunzione legale, deve
necessariamente avere ad oggetto un fatto o una situazione che spezza o
interrompe in modo duraturo il collegamento esistente tra il destinatario ed il
luogo di destinazione della comunicazione e deve, altresì, dimostrare che tale
situazione è incolpevole, non potendo cioè essere superata dall’interessato con
l’uso dell’ordinaria diligenza (3).
La
Suprema Corte, in proposito, rileva che il ricorrente non aveva fornito né allegato
alcun fatto diretto a dimostrare di non aver potuto avere conoscenza effettiva
dell’atto, né che tale mancanza fosse ascrivibile ad un comportamento
incolpevole. Il lavoratore aveva cercato invece di imputare al mittente una
colpevole utilizzazione di un indirizzo che, in base a regole di correttezza e
buona fede desunte da un ricostruzione dei fatti del tutto personale, doveva
essere utilizzato dalla società successivamente agli altri indicati, tra cui
il domicilio eletto presso il difensore, che, peraltro, concerneva le
comunicazioni relative al giudizio e non quelle successive allo stesso
destinate al lavoratore.
Alla
stregua delle esposte argomentazioni, la Cassazione ha rigettato il ricorso,
confermando la legittimità del licenziamento, ed ha condannato il lavoratore al pagamento delle spese di lite, liquidate in
100,00 € per esborsi e 3000,00 € per
compensi professionali, oltre accessori come per legge.
Valerio
Pollastrini
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