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sabato 5 ottobre 2013

L’incasso indebito del rimborso spese di un collega può non legittimare il licenziamento


Con la sentenza n.22321 del 30 settembre 2013, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso di un lavoratore licenziato per aver indebitamente incassato  un rimborso spese di un collega.

Il fatto
Un dipendente della M.I. Cash And Carry S.p.A era stato licenziato per essersi indebitamente appropriato di somme richieste a titolo di rimborso spese di viaggio sostenute da altro dipendente e a questi rimborsate dalla società per la stessa causale.

Il lavoratore aveva impugnato il recesso lamentando, tra l’altro, l’esiguità del danno procurato, pari a 249,28 € e la buona fede nell’incasso non dovuto.

I giudizi di merito
Sia il Tribunale di Roma che la Corte di Appello della capitale avevano rigettato la domanda del lavoratore, spiegando come, indipendentemente dal valore del danno procurato all’azienda, il fatto contestato fosse così grave da ledere  irrimediabilmente il vincolo fiduciario a causa della intenzionalità del comportamento illecito tenuto dal ricorrente.

Per la cassazione della sentenza il lavoratore aveva proposto ricorso denunciando l’insufficienza della motivazione con specifico riferimento alla valutazione dell’intensità del dolo nei termini recepiti dai giudici d’appello attraverso il loro convincimento sulla gravità della condotta addebitatagli, dolendosi, in particolare,  dell’insufficienza e contraddittorietà della motivazione in ordine al profilo della ravvisata proporzionalità della sanzione espulsiva.

La pronuncia della Cassazione
La Corte ha, preliminarmente, preso atto che i motivi del ricorso vertevano sostanzialmente sulla contestazione della ravvisata intenzionalità della condotta posta a base del convincimento sulla sussistenza di una giusta causa del licenziamento. Per il lavoratore tale intenzionalità non sarebbe stata evincibile dagli atti, palesandosi così una  sproporzione della sanzione rispetto alla condotta tenuta.

A detta del ricorrente,  i giudici d’appello avrebbero dovuto tener conto, non solo della natura lieve del danno oggetto del provvedimento di risoluzione, ma anche della trentennale condotta irreprensibile osservata  fino alla soglia del pensionamento e dell’offerta di riparazione del danno.

La Cassazione ha ritenuto fondato il ricorso del lavoratore, affermando che  la contraddittorietà di fondo insuperabile che si coglie dalla motivazione della sentenza impugnata risiede nel fatto che i giudici d’appello, pur dando atto che le dichiarazioni dei testi non erano risultate tra loro concordi sulla circostanza rappresentata dall’iniziativa del lavoratore di offrire in restituzione la somma liquidatagli solo dopo essere stato reso edotto da terzi dell’imminenza della contestazione disciplinare, la qual cosa non contribuiva a dirimere i dubbi sulla fondatezza dell’assunto difensivo basato sulla spontaneità del gesto ingenerata dal successivo apprendimento dell’erroneità della richiesta di rimborso, tanto da indurli alla conclusione che in ordine al supposto tentativo del dipendente di porre tardivamente rimedio all’indebita appropriazione delle spese di viaggio non si era raggiunta la prova piena, hanno, però, ritenuto che l’appellante si era appropriato della somma nella consapevolezza che non gli spettasse, per cui una tale gravità della condotta giustificava l’irrogazione del licenziamento.

Risulta quindi evidente che la dolosità del comportamento era stata ravvisata dalla Corte di Appello a causa del mancato raggiungimento, da parte del lavoratore, della prova di aver tentato di porre rimedio ad un fatto illecito inizialmente preordinato in danno della datrice di lavoro, nonostante  la difesa del ricorrente avesse insistito, al contrario, sulla spontaneità della restituzione a sostegno della invocata buona fede ricondotta alla erroneità della richiesta di rimborso.

Orbene, tale evidente contraddizione motivazionale incide sia sulla valutazione dell’elemento soggettivo della gravità del comportamento addebitato al lavoratore, sia sul giudizio di proporzionalità della sanzione inflitta, posto che a tal fine viene in considerazione ogni condotta che sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto possa risolversi in un pregiudizio per gli scopi aziendali, essendo determinante l’influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che, per le sue concrete modalità e per il contesto di riferimento, appaia suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti in maniera tale da conformare il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza.

In definitiva, la Corte territoriale non ha dimostrato di aver tenuto adeguatamente conto dell’intensità dell’elemento intenzionale, aspetto, questo, che, unitamente al grado di affidamento richiesto dalle mansioni svolte dal dipendente, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla sua durata, all’assenza di precedenti sanzioni ed alla sua particolare natura e tipologia, concorre nel giudizio di valutazione della gravità del comportamento addebitato e della conseguente verifica di proporzionalità della sanzione espulsiva.

Per tale motivo la Cassazione ha accolto il ricorso del lavoratore, con conseguente cassazione della sentenza impugnata e con rinvio del procedimento alla Corte d’Appello di Roma che, in diversa composizione, dovrà riesaminare il merito della vicenda e provvedere anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.

Valerio Pollastrini

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