Con la
sentenza n.22321 del 30 settembre 2013, la Corte di Cassazione ha accolto il
ricorso di un lavoratore licenziato per aver indebitamente incassato un rimborso spese di un collega.
Il fatto
Un
dipendente della M.I. Cash And Carry
S.p.A era stato licenziato per essersi indebitamente appropriato di somme
richieste a titolo di rimborso spese di viaggio sostenute da altro dipendente e
a questi rimborsate dalla società per la stessa causale.
Il
lavoratore aveva impugnato il recesso lamentando, tra l’altro, l’esiguità del danno
procurato, pari a 249,28 € e la buona fede nell’incasso non dovuto.
I giudizi di merito
Sia il
Tribunale di Roma che la Corte di Appello della capitale avevano rigettato la
domanda del lavoratore, spiegando come, indipendentemente dal valore del danno
procurato all’azienda, il fatto contestato fosse così grave da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario a
causa della intenzionalità del comportamento illecito tenuto dal ricorrente.
Per la
cassazione della sentenza il lavoratore aveva proposto ricorso denunciando
l’insufficienza della motivazione con specifico riferimento alla valutazione
dell’intensità del dolo nei termini recepiti dai giudici d’appello attraverso
il loro convincimento sulla gravità della condotta addebitatagli, dolendosi, in
particolare, dell’insufficienza e
contraddittorietà della motivazione in ordine al profilo della ravvisata
proporzionalità della sanzione espulsiva.
La pronuncia della Cassazione
La Corte ha,
preliminarmente, preso atto che i motivi del ricorso vertevano sostanzialmente
sulla contestazione della ravvisata intenzionalità della condotta posta a base
del convincimento sulla sussistenza di una giusta causa del licenziamento. Per
il lavoratore tale intenzionalità non sarebbe stata evincibile dagli atti,
palesandosi così una sproporzione della
sanzione rispetto alla condotta tenuta.
A detta del
ricorrente, i giudici d’appello
avrebbero dovuto tener conto, non solo della natura lieve del danno oggetto del
provvedimento di risoluzione, ma anche della trentennale condotta irreprensibile
osservata fino alla soglia del
pensionamento e dell’offerta di riparazione del danno.
La
Cassazione ha ritenuto fondato il ricorso del lavoratore, affermando che la contraddittorietà di fondo insuperabile che
si coglie dalla motivazione della sentenza impugnata risiede nel fatto che i
giudici d’appello, pur dando atto che le dichiarazioni dei testi non erano
risultate tra loro concordi sulla circostanza rappresentata dall’iniziativa del
lavoratore di offrire in restituzione la somma liquidatagli solo dopo essere
stato reso edotto da terzi dell’imminenza della contestazione disciplinare, la
qual cosa non contribuiva a dirimere i dubbi sulla fondatezza dell’assunto
difensivo basato sulla spontaneità del gesto ingenerata dal successivo
apprendimento dell’erroneità della richiesta di rimborso, tanto da indurli alla
conclusione che in ordine al supposto tentativo del dipendente di porre
tardivamente rimedio all’indebita appropriazione delle spese di viaggio non si
era raggiunta la prova piena, hanno, però, ritenuto che l’appellante si era
appropriato della somma nella consapevolezza che non gli spettasse, per cui una
tale gravità della condotta giustificava l’irrogazione del licenziamento.
Risulta
quindi evidente che la dolosità del comportamento era stata ravvisata dalla Corte
di Appello a causa del mancato raggiungimento, da parte del lavoratore, della
prova di aver tentato di porre rimedio ad un fatto illecito inizialmente
preordinato in danno della datrice di lavoro, nonostante la difesa del ricorrente avesse insistito, al
contrario, sulla spontaneità della restituzione a sostegno della invocata buona
fede ricondotta alla erroneità della richiesta di rimborso.
Orbene, tale
evidente contraddizione motivazionale incide sia sulla valutazione
dell’elemento soggettivo della gravità del comportamento addebitato al
lavoratore, sia sul giudizio di proporzionalità della sanzione inflitta, posto
che a tal fine viene in considerazione ogni condotta che sia suscettibile di
scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione
del rapporto possa risolversi in un pregiudizio per gli scopi aziendali,
essendo determinante l’influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di
esercitare il comportamento del lavoratore che, per le sue concrete modalità e
per il contesto di riferimento, appaia suscettibile di porre in dubbio la
futura correttezza dell’adempimento e denoti una scarsa inclinazione ad attuare
diligentemente gli obblighi assunti in maniera tale da conformare il proprio
comportamento ai canoni di buona fede e correttezza.
In
definitiva, la Corte territoriale non ha dimostrato di aver tenuto
adeguatamente conto dell’intensità dell’elemento intenzionale, aspetto, questo,
che, unitamente al grado di affidamento richiesto dalle mansioni svolte dal
dipendente, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla sua
durata, all’assenza di precedenti sanzioni ed alla sua particolare natura e
tipologia, concorre nel giudizio di valutazione della gravità del comportamento
addebitato e della conseguente verifica di proporzionalità della sanzione
espulsiva.
Per tale
motivo la Cassazione ha accolto il ricorso del lavoratore, con conseguente
cassazione della sentenza impugnata e con rinvio del procedimento alla Corte d’Appello
di Roma che, in diversa composizione, dovrà riesaminare il merito della vicenda
e provvedere anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.
Valerio
Pollastrini
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