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martedì 29 ottobre 2013

Il patteggiamento in un processo penale per violenza sessuale legittima il licenziamento del lavoratore


Nella sentenza n.2168 del 30 gennaio 2013 la Corte di Cassazione ha confermato la rilevanza del patteggiamento del lavoratore nel corso di un processo penale per fatti estranei al contesto lavorativo ai fini della valutazione del giudice del lavoro.

Il caso in commento è quello di un dipendente di Poste Italiane, licenziato in tronco in seguito al suo patteggiamento  nel processo in cui era imputato per il delitto di violenza sessuale.

Il lavoratore aveva contestato la legittimità del recesso, sostenendo che le questioni scaturenti dal rito penale non potessero avere valenza probatoria in sede civile poiché, a seguito del patteggiamento, i "fatti penali" restavano congelati in una posizione meramente indiziaria, incapaci pertanto di essere assunti a fondamento di una giusta causa di licenziamento anche per il fatto che i fatti contestati, comunque, non avevano alcun riflesso sul rapporto di lavoro.

Questa tesi non è stata condivisa nei primi due gradi di giudizio ed è stata respinta anche dalla Suprema Corte.

La Cassazione, in proposito, ha affermato che in sede civile può legittimamente darsi una piena efficacia probatoria alla sentenza di patteggiamento, nel caso in cui l’imputato non contesti la propria responsabilità ma, anzi, accetti la condanna chiedendone e permettendone l’applicazione.

Nel caso in cui il processo penale sia stato definito per mezzo del patteggiamento le risultanze delle indagini preliminari possono quindi essere valutate dal giudice di merito e, nel caso in cui costituiscano violazione dei doveri fondamentali nascenti dal rapporto di lavoro, consentono al datore di lavoro di licenziare legittimamente il dipendente.

A conferma della tesi appena esposta la Corte ha richiamato quanto disposto dalla Corte Costituzionale (1) a proposito dell’erroneità della tesi di chi voglia ritenere che gli effetti del patteggiamento debbano ontologicamente differenziarsi da quelli della sentenza ordinaria, sancendo che la sentenza penale ex art. 444 c.p.p. costituisce elemento di prova per il giudice di merito il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegarne le ragioni.

Sulla base di questo principio la Corte di Cassazione ha fondato le motivazioni con le quali  ha respinto le richieste del lavoratore.

Per concludere, gli ermellini hanno precisato che i fatti addebitati al lavoratore nel corso del processo penale, pur se verificatisi al di fuori dell’ambito lavorativo, fossero idonei, per il loro  disvalore sociale, a ripercuotersi negativamente sull’immagine dell’azienda.

Valerio Pollastrini


(1) - Corte Costituzionale 18 dicembre 2009, n. 336;

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