Nella
sentenza n.21361 del 18 settembre 2013 la Corte di Cassazione ha compiuto una
disamina sulla corretta applicazione della
normativa sull’orario di lavoro.
Il caso è
quello di un metronotte che si era rifiutato di intervenire in seguito alla
richiesta formulata dalla centrale operativa su un allarme scattato poco prima
della fine del suo turno.
In virtù
dell’art.75 del CCNL applicato, che obbliga il personale smontante o già
smontato ad effettuare il servizio nel ricorso di condizioni oggettive che lo
richiedano, l’azienda aveva disposto il licenziamento del lavoratore.
I primi gradi di giudizio
Sia il
Tribunale di Pistoia che la Corte di Appello di Firenze, ravvisando nella
condotta del lavoratore quella insubordinazione che giustifica, a norma
dell’art. 127 del CCNL della Vigilanza Privata, la risoluzione del rapporto, ne
avevano respinto il ricorso, confermando la legittimità dell’atto di recesso.
La Corte di merito aveva inoltre aggiunto che una
simile conclusione fosse stata ulteriormente confermata dall’ esistenza di
numerose e rilevanti sanzioni disciplinari inflitte nel biennio antecedente al
licenziamento ed anche precedenti, tutte idonee a confermare la gravità della
contestata infrazione alla luce dell’ormai reiteratamente compromesso rapporto
di fiducia.
Il lavoratore aveva ricorso per la cassazione del
giudizio di appello, lamentando che la
richiesta datoriale di protrarre
l’orario di lavoro oltre le otto ore notturne avrebbe violato le norme di legge
sulla durata massima della prestazione. La richiesta di intervento
sull’allarme, formulata a soli dieci minuti dalla scadenza dell’orario
giornaliero, sarebbe quindi stata arbitraria, motivo per cui era stata disattesa.
Per il ricorrente l’interpretazione fornita dalla Corte
d’Appello sarebbe inconciliabile con il diritto del lavoratore a godere con
modalità programmabile e prevedibile, del dovuto tempo libero, o più correttamente
riposo. Inoltre, il richiamato art.75 del CCNL nulla prevedrebbe circa la possibilità di
superare l’orario di otto ore di lavoro notturno.
La pronuncia della Cassazione
Per
rispondere alle doglianze del lavoratore la Suprema Corte ha compiuto una
puntuale ricostruzione del dettato normativo che regola l’orario di lavoro del
personale addetto ai turni di notte.
Invero, l’art. 4, comma 1, del d.lgs. n. 532 del 1999 sancisce
che “ l’orario di lavoro dei lavoratori
notturni non può superare le otto ore nelle ventiquattro ore”, tuttavia, la
norma consente ai contratti collettivi,
anche aziendali, di fissare “un orario di
lavoro plurisettimanale, per un periodo di riferimento più ampio sul quale
calcolare come media il suddetto limite.”
Si tratta di una disposizione che ha trovato piena attuazione nella contrattazione
collettiva di riferimento al caso di specie. L’art. 71 del CCNL applicato dispone infatti che, nonostante l’orario di lavoro fissato per
legge in 40 ore settimanali, “tenuto conto delle obiettive necessità di
organizzare i turni di lavoro in maniera da garantire la continuità nei servizi
di tutela del patrimonio pubblico e privato affidato agli Istituti di Vigilanza,
la durata massima dell’orario di lavoro, comprese le ore di straordinario, non
potrà superare le 48 ore ogni periodo di
sette giorni, calcolate come media, riferita ad un periodo di mesi 12,
decorrenti dal 1° gennaio di ogni anno (…)” e che “...il lavoratore del turno smontante non può lasciare il posto di
lavoro senza prima aver avuto la sostituzione, del lavoratore del turno
montante, che dovrà avvenire entro due ore e mezza dal termine del normale
orario giornaliero (...)”.
Dopo aver riepilogato la disciplina legale e contrattuale,
la Corte ha rilevato come tale modalità di flessibilizzazione dell’orario
consenta il corretto avvicendamento nel servizio, assicurando la presenza di
personale per fare fronte a esigenze impreviste e non rientranti nella normale
organizzazione del lavoro, quale può essere concretamente qualificata la
necessità di provvedere ad un intervento in prossimità della fine del turno di
servizio con, solo eventuale, superamento del limite di otto ore.
Per tale motivo la Corte di Cassazione ha respinto il
ricorso del lavoratore, condannandolo al pagamento delle spese del giudizio
liquidate in € 3000,00 per compensi professionali ed in € 50,00 per esborsi,
oltre accessori dovuti per legge.Valerio Pollastrini
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