Il caso
Il
22 gennaio 2008 l’azienda T.I Spa, dopo essersi rivolta ad un’agenzia di
investigazione ed aver così appreso che un
proprio dipendente, Quadro di 7° livello, nel corso dei mesi di settembre e
novembre 2007 si era reso colpevole di numerose assenze prolungate dal servizio
durante l’orario di lavoro, ne aveva disposto la sospensione cautelare dal
servizio.
Dopo
gli accertamenti del caso, il 17 marzo 2008 il datore di lavoro aveva
provveduto ad irrogare al lavoratore il licenziamento per giusta causa.
A
fronte del recesso, il lavoratore aveva adito il Tribunale di Torino,
lamentando l’illegittimità della sospensione cautelare e del successivo
licenziamento in tronco.
I giudizi di merito
Sia
il Tribunale che la Corte di Appello di Torino avevano respinto il ricorso del
lavoratore, confermando la legittimità degli atti posti in essere dall’azienda.
In
particolare, la Corte territoriale aveva escluso le censure del ricorrente a
proposito della tardività della contestazione. La lettera del 22 gennaio 2008
si riferiva, infatti a fatti accertati in seguito a controlli disposti dalla
direzione del personale e riepilogati nella relazione inviata all’ufficio nel dicembre
del 2007. Per il giudicante, il lasso di tempo trascorso tra la ricezione della
relazione e la predisposizione della contestazione trovava piena
giustificazione nella necessità, da parte del datore di lavoro, di procedere a
controlli incrociati dei fatti riportati nella relazione prima di procedere
alla loro contestazione.
Agire
diversamente, contestando l’addebito al lavoratore in presenza del solo sentore
del comportamento inadempiente, avrebbe esposto l’azienda al rischio connesso a
contestazioni superficiali.
Dopo
il rigetto della propria domanda nei primi due gradi di merito, il lavoratore
aveva proposto ricorso in Cassazione.
Il
lavoratore rinnovava nei confronti della
Suprema Corte le doglianze relative alla tardività con la quale gli erano stati
contestati gli addebiti.
Aveva
ricordato che i fatti posti a fondamento della contestazione risalissero al
2007, precisamente nei mesi di settembre (i giorni 19, 20, 21) e di novembre (i
giorni 21, 23, 26, 27, 28 e 29) mentre l’addebito fosse stato contestato dall’azienda
il 22.1.2008, quando veniva anche disposta
la sospensione cautelare dal servizio, ed il licenziamento fosse stato intimato
solamente il 17 marzo 2008.
Il
lavoratore sosteneva che l’istruttoria
avesse confermato che la società, prima ancora di disporre i controlli,
nutrisse già dei dubbi circa il rispetto degli orari. In conformità al
principio di tempestività, posto tra i fondamenti del regolare procedimento disciplinare, la società avrebbe
dovuto, pertanto, convocarlo ed invitarlo a giustificarsi prima di rivolgersi ad
una agenzia di investigazioni.
La
Corte di Appello, che aveva ritenuto
legittimo il tempo trascorso tra i primi fatti accertati e la contestazione
dell’addebito per consentire al datore di lavoro accertamenti più approfonditi,
avrebbe erroneamente ignorato le maggiori
difficoltà, a carico del dipendente, per
la predisposizione di idonee difese a distanza di un lasso di tempo consistente
dai fatti addebitati.
Il
ricorrente sì doleva inoltre del fatto che la Corte di Appello non avesse
ritenuto applicabile ai fatti contestati le sanzioni del rimprovero, della multa o della
sospensione dal servizio, previste dal
Contratto Collettivo applicato nei casi di abbandono del posto di servizio.
Inoltre la Corte di merito aveva confermato la legittimità del licenziamento
senza preavviso non prevista dalla norma collettiva per i fatti alla stessa
riconducibili.
La pronuncia della Cassazione
Nel
rigettare il ricorso del lavoratore la Corte Suprema ha preliminarmente
ricordato i principi dettati dalla giurisprudenza di legittimità a proposito
della tempestività della contestazione e del licenziamento. A tal fine è stato ripetutamente
affermato che l’intervallo temporale che intercorre tra l’intimazione del
licenziamento disciplinare ed il fatto contestato al lavoratore assume rilievo
in quanto rivelatore di una mancanza di
interesse del datore di lavoro all’esercizio della facoltà di recesso.
Tuttavia
il principio dell’immediatezza della contestazione dell’addebito deve essere
inteso in senso relativo, potendo in concreto essere compatibile anche con un
intervallo di tempo più o meno lungo quando l’accertamento dei fatti sia laborioso e richieda uno spazio
temporale maggiore.
A
differenza di quanto affermato dal ricorrente, la mera possibilità di
conoscenza dell’illecito non può essere equiparata alla conoscenza effettiva.
Ne
consegue che non può essere presunta una tolleranza della condotta del lavoratore
da parte dell’azienda prima ancora di una compiuta e certa conoscenza dei fatti
in cui si sia concretizzato il ripetuto abuso da parte del dipendente.
Per
la Cassazione, pertanto, il rispetto del principio dell’immediatezza della
contestazione dell’addebito e della tempestività del recesso datoriale deve
essere sempre valutato caso per caso, e, nel caso di condotte ripetute, risulta necessario avere
riguardo al momento in cui si possa ritenere accertata nei suoi contorni
essenziali la condotta stessa, dovendosi ritenere che solo in tale momento il
datore di lavoro possa valutare i fatti nel loro insieme e stabilire la congrua
sanzione da infliggere.
La
Corte, dopo aver riepilogato i menzionati
principi, ha chiarito che il giudice di merito,al caso in esame, ne
abbia compiuto una corretta applicazione, non potendo pretendersi che il datore
di lavoro informi il lavoratore dell’illiceità della condotta tenuta quando
ancora i suoi contorni non siano chiari. Inoltre il tempo trascorso per
accertare i fatti non può in alcun modo evidenziare una volontà abdicativa dell’esercizio
del proprio potere disciplinare.
Il
giudice d’appello aveva correttamente riscontrato che gli accertamenti si
fossero svolti in due archi temporali tra loro non contigui e neppure troppo
lontani, utili per fugare il dubbio di una occasionalità della condotta del
lavoratore che, ripetutasi in entrambi i
periodi (settembre e novembre), attestava invece un
comportamento sostanzialmente abituale.
Peraltro
il giudice d’appello aveva chiarito che il tempo trascorso coincideva con
quello necessario all’azienda ad effettuare, sulla base della disposta
relazione investigativa (depositata il 15.12.2007) gli ulteriori controlli
incrociati sulla condotta del lavoratore (contestazione del 22.1.2008;
licenziamento del 18.2.2008).
Per
la Cassazione si tratta di una motivazione logica e stringente che non si espone
alla censura che le è stata mossa dal lavoratore.
Passando
all’esame delle doglianze relative alla
correttezza della irrogazione della massima sanzione espulsiva, la Cassazione ha
rilevato che la Corte di merito, dopo un attento esame del materiale probatorio
acquisito, avesse accertato che le condotte tenute dal dipendente fossero
talmente gravi da giustificare la risoluzione in tronco del rapporto.
Per
il giudice d’appello i fatti contestati (ripetute e prolungate assenze dal
servizio durante l’orario di lavoro per fini ludici e di svago) esulavano dalle
fattispecie tipiche previste dalla norma collettiva ed è proprio a causa della
maggior gravità della condotta del lavoratore che la società, nel contestare
l’addebito e nell’intimare il licenziamento, avesse fatto esplicito riferimento
all’art. 2119 c.c. che prevede la risoluzione in tronco del rapporto ove la
condotta del lavoratore integri un comportamento talmente grave da ledere
irrimediabilmente il nesso di fiducia che deve sostenere il rapporto.
A
tale proposito, a detta della Cassazione, le censure formulate dal ricorrente
non sono idonee a demolire l’approfondita ricostruzione dei fatti operata dalla
Corte torinese, fondata su un attento riscontro delle emergenze fattuali
contenute nella relazione investigativa e nelle dichiarazioni rese dai testi
escussi in giudizio.
In
sintesi, i giudici d’appello avevano
evidenziato la gravità della condotta posta in essere dal ricorrente, il quale,
nel rendersi responsabile dell’addebito contestatogli, era venuto meno ai
doveri di correttezza nell’esecuzione del rapporto, ricorrendo a timbrature
false dell’orario di entrata; allontanandosi ingiustificatamente dal luogo di
lavoro per recarsi ad un circolo sportivo a giocare a tennis o a praticare il
canottaggio; per visitare concessionari d’auto ovvero allontanarsi in compagnia
di estranei senza più rientrare in ufficio.
Inoltre,
il giudizio di merito aveva accertato che il comportamento contestato al
lavoratore non fosse circoscritto ad un
episodio isolato, ma a più episodi avvenuti a più riprese ed in un breve lasso
di tempo. Le modalità di una simile
condotta e la frequenza degli episodi contestati deponevano, pertanto, per la
mala fede del lavoratore, il quale aveva, in tal modo, leso irrimediabilmente
il vincolo fiduciario che avrebbe dovuto sorreggere il rapporto di lavoro.
Per
i motivi sopra indicati, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso e, nel
confermare la legittimità del recesso, ha condannato il lavoratore al pagamento
delle spese processuali, liquidate in € 4000,00 per compensi professionali ed
in € 50 per esborsi, oltre IVA e CPA.
Valerio
Pollastrini
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