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venerdì 20 settembre 2013

Reiterati ritardi e la falsificazione dell’orario di ingresso legittimano il licenziamento


 
Nella sentenza n.21203 del 17 settembre 2013 la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento irrogato ad un dipendente per le molteplici assenze dal luogo di lavoro durante l’orario contrattuale.  La pronuncia in commento si segnala di particolare interesse per l’interpretazione fornita dalla Corte a proposito del principio dell’immediatezza della contestazione disciplinare. Nel caso di specie, un notevole lasso di tempo tra infrazione e recesso è stato considerato utile per un esaustivo accertamento dei fatti.

Il caso
Il 22 gennaio 2008 l’azienda T.I Spa, dopo essersi rivolta ad un’agenzia di investigazione ed aver così  appreso che un proprio dipendente, Quadro di 7° livello, nel corso dei mesi di settembre e novembre 2007 si era reso colpevole di numerose assenze prolungate dal servizio durante l’orario di lavoro, ne aveva disposto la sospensione cautelare dal servizio.

Dopo gli accertamenti del caso, il 17 marzo 2008 il datore di lavoro aveva provveduto ad irrogare al lavoratore il licenziamento per giusta causa.

A fronte del recesso, il lavoratore aveva adito il Tribunale di Torino, lamentando l’illegittimità della sospensione cautelare e del successivo licenziamento in tronco.

 
I giudizi di merito
Sia il Tribunale che la Corte di Appello di Torino avevano respinto il ricorso del lavoratore, confermando la legittimità degli atti posti in essere dall’azienda.

In particolare, la Corte territoriale aveva escluso le censure del ricorrente a proposito della tardività della contestazione. La lettera del 22 gennaio 2008 si riferiva, infatti a fatti accertati in seguito a controlli disposti dalla direzione del personale e riepilogati nella relazione inviata all’ufficio nel dicembre del 2007. Per il giudicante, il lasso di tempo trascorso tra la ricezione della relazione e la predisposizione della contestazione trovava piena giustificazione nella necessità, da parte del datore di lavoro, di procedere a controlli incrociati dei fatti riportati nella relazione prima di procedere alla loro contestazione.

Agire diversamente, contestando l’addebito al lavoratore in presenza del solo sentore del comportamento inadempiente, avrebbe esposto l’azienda al rischio connesso a contestazioni superficiali.

Dopo il rigetto della propria domanda nei primi due gradi di merito, il lavoratore aveva proposto ricorso in Cassazione.

Il lavoratore rinnovava nei confronti  della Suprema Corte le doglianze relative alla tardività con la quale gli erano stati contestati gli addebiti.

Aveva ricordato che i fatti posti a fondamento della contestazione risalissero al 2007, precisamente nei mesi di settembre (i giorni 19, 20, 21) e di novembre (i giorni 21, 23, 26, 27, 28 e 29) mentre l’addebito fosse stato contestato dall’azienda  il 22.1.2008, quando veniva anche disposta la sospensione cautelare dal servizio, ed il licenziamento fosse stato intimato solamente il 17 marzo 2008.

Il lavoratore sosteneva  che l’istruttoria avesse confermato che la società, prima ancora di disporre i controlli, nutrisse già dei dubbi circa il rispetto degli orari. In conformità al principio di tempestività, posto tra i fondamenti del  regolare  procedimento disciplinare, la società avrebbe dovuto, pertanto, convocarlo ed invitarlo a giustificarsi prima di rivolgersi ad una agenzia di investigazioni.

La Corte di Appello, che  aveva ritenuto legittimo il tempo trascorso tra i primi fatti accertati e la contestazione dell’addebito per consentire al datore di lavoro accertamenti più approfonditi, avrebbe erroneamente ignorato le  maggiori difficoltà,  a carico del dipendente, per la predisposizione di idonee difese a distanza di un lasso di tempo consistente dai fatti addebitati.

Il ricorrente sì doleva inoltre del fatto che la Corte di Appello non avesse ritenuto applicabile ai fatti contestati le  sanzioni del rimprovero, della multa o della sospensione dal servizio, previste  dal Contratto Collettivo applicato nei casi di abbandono del posto di servizio. Inoltre la Corte di merito aveva confermato la legittimità del licenziamento senza preavviso non prevista dalla norma collettiva per i fatti alla stessa riconducibili.

 
La pronuncia della Cassazione
Nel rigettare il ricorso del lavoratore la Corte Suprema ha preliminarmente ricordato i principi dettati dalla giurisprudenza di legittimità a proposito della tempestività della contestazione e del licenziamento. A tal fine è stato ripetutamente affermato che l’intervallo temporale che intercorre tra l’intimazione del licenziamento disciplinare ed il fatto contestato al lavoratore assume rilievo in quanto  rivelatore di una mancanza di interesse del datore di lavoro all’esercizio della facoltà di recesso.

Tuttavia il principio dell’immediatezza della contestazione dell’addebito deve essere inteso in senso relativo, potendo in concreto essere compatibile anche con un intervallo di tempo più o meno lungo quando l’accertamento  dei fatti sia laborioso e richieda uno spazio temporale maggiore.

A differenza di quanto affermato dal ricorrente, la mera possibilità di conoscenza dell’illecito non può essere equiparata alla conoscenza effettiva.

Ne consegue che non può essere presunta una tolleranza della condotta del lavoratore da parte dell’azienda prima ancora di una compiuta e certa conoscenza dei fatti in cui si sia concretizzato il ripetuto abuso da parte del dipendente.

Per la Cassazione, pertanto, il rispetto del principio dell’immediatezza della contestazione dell’addebito e della tempestività del recesso datoriale deve essere sempre  valutato  caso per caso, e, nel caso  di condotte ripetute, risulta necessario avere riguardo al momento in cui si possa ritenere accertata nei suoi contorni essenziali la condotta stessa, dovendosi ritenere che solo in tale momento il datore di lavoro possa valutare i fatti nel loro insieme e stabilire la congrua sanzione da infliggere.

La Corte, dopo aver riepilogato i menzionati  principi, ha chiarito che il giudice di merito,al caso in esame, ne abbia compiuto una corretta applicazione, non potendo pretendersi che il datore di lavoro informi il lavoratore dell’illiceità della condotta tenuta quando ancora i suoi contorni non siano chiari. Inoltre il tempo trascorso per accertare i fatti non può in alcun modo evidenziare una volontà abdicativa dell’esercizio del proprio potere disciplinare.

Il giudice d’appello aveva correttamente riscontrato che gli accertamenti si fossero svolti in due archi temporali tra loro non contigui e neppure troppo lontani, utili per fugare il dubbio di una occasionalità della condotta del lavoratore che, ripetutasi  in entrambi i periodi (settembre e novembre), attestava invece   un comportamento sostanzialmente abituale.

Peraltro il giudice d’appello aveva chiarito che il tempo trascorso coincideva con quello necessario all’azienda ad effettuare, sulla base della disposta relazione investigativa (depositata il 15.12.2007) gli ulteriori controlli incrociati sulla condotta del lavoratore (contestazione del 22.1.2008; licenziamento del 18.2.2008).

Per la Cassazione si tratta di una motivazione logica e stringente che non si espone alla censura che le è stata mossa dal lavoratore.

Passando all’esame delle doglianze relative  alla correttezza della irrogazione della massima sanzione espulsiva, la Cassazione ha rilevato che la Corte di merito, dopo un attento esame del materiale probatorio acquisito, avesse accertato che le condotte tenute dal dipendente fossero talmente gravi da giustificare la risoluzione in tronco del rapporto.

Per il giudice d’appello i fatti contestati (ripetute e prolungate assenze dal servizio durante l’orario di lavoro per fini ludici e di svago) esulavano dalle fattispecie tipiche previste dalla norma collettiva ed è proprio a causa della maggior gravità della condotta del lavoratore che la società, nel contestare l’addebito e nell’intimare il licenziamento, avesse fatto esplicito riferimento all’art. 2119 c.c. che prevede la risoluzione in tronco del rapporto ove la condotta del lavoratore integri un comportamento talmente grave da ledere irrimediabilmente il nesso di fiducia che deve sostenere il rapporto.

A tale proposito, a detta della Cassazione, le censure formulate dal ricorrente non sono idonee a demolire l’approfondita ricostruzione dei fatti operata dalla Corte torinese, fondata su un attento riscontro delle emergenze fattuali contenute nella relazione investigativa e nelle dichiarazioni rese dai testi escussi in giudizio.

In sintesi,  i giudici d’appello avevano evidenziato la gravità della condotta posta in essere dal ricorrente, il quale, nel rendersi responsabile dell’addebito contestatogli, era venuto meno ai doveri di correttezza nell’esecuzione del rapporto, ricorrendo a timbrature false dell’orario di entrata; allontanandosi ingiustificatamente dal luogo di lavoro per recarsi ad un circolo sportivo a giocare a tennis o a praticare il canottaggio; per visitare concessionari d’auto ovvero allontanarsi in compagnia di estranei senza più rientrare in ufficio.

Inoltre, il giudizio di merito aveva accertato che il comportamento contestato al lavoratore non fosse circoscritto ad  un episodio isolato, ma a più episodi avvenuti a più riprese ed in un breve lasso di tempo.  Le modalità di una simile condotta e la frequenza degli episodi contestati deponevano, pertanto, per la mala fede del lavoratore, il quale aveva, in tal modo, leso irrimediabilmente il vincolo fiduciario che avrebbe dovuto sorreggere il rapporto di lavoro.

Per i motivi sopra indicati, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso e, nel confermare la legittimità del recesso, ha condannato il lavoratore al pagamento delle spese processuali, liquidate in € 4000,00 per compensi professionali ed in € 50 per esborsi, oltre IVA e CPA.

Valerio Pollastrini

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