Nella
sentenza n.19096 del 9 agosto 2013 la Corte di Cassazione ha tracciato in
maniera estensiva i limiti degli obblighi di fedeltà posti a carico del
lavoratori nei confronti dell’azienda, includendo tra le ipotesi legittimanti
il licenziamento la semplice partecipazione del dipendente alla costituzione di
una società il cui oggetto sociale evidenzi una futura attività concorrenziale
con quella del datore di lavoro.
Il
fatto
La “Cedisa”, azienda impegnata nel campo sanitario, aveva
licenziato un proprio dipendente, dopo averne accertato la partecipazione alla
costituzione della “Pegasus”, società
per la gestione di un centro medico.
Il
lavoratore aveva impugnato il provvedimento dinnanzi al Tribunale di Salerno,
precisando che, al momento del licenziamento, la “Pegasus” non avesse ancora
iniziato l'attività.
I
giudizi di merito
Nel primo grado di giudizio, il
Tribunale aveva annullato il licenziamento. Tale decisione era stata però integralmente riformata dalla Corte di Appello
di Salerno, che, di contro, aveva ritenuto legittimo il recesso, giudicando la
costituzione della “Pegasus” come potenzialmente produttiva di danno per la “Cedisa”.
Il
lavoratore aveva, pertanto, proposto ricorso per cassazione, censurando la
decisione della Corte salernitana per vizi di motivazione e violazione di
legge.
La
pronuncia della Cassazione
Nel rigettare il ricorso, confermando la
legittimità del licenziamento, la Suprema Corte ha ricordato quanto più volte
affermato a proposito dell'obbligo di
fedeltà a carico del lavoratore subordinato.
I
principi generali di correttezza e buona fede, sanciti dagli artt. 1175 e 1375 cod. civ., impongono al
lavoratore di tenere un comportamento leale nei confronti del proprio datore di
lavoro, astenendosi da qualsiasi atto idoneo a nuocergli anche potenzialmente. Ai finì della violazione del correlato obbligo
di fedeltà, incombente sul lavoratore ai sensi dell’art. 2105 cod. civ., risulta sufficiente
la mera preordinazione di una attività contraria agli interessi del datore di
lavoro anche solo potenzialmente produttiva di danno (1).
Più
volte la Cassazione ha precisato che la costituzione, da parte di un lavoratore,
di una società per lo svolgimento della
medesima attività economica del datore di lavoro deve valutarsi come potenzialmente
produttiva di danno ed integri così la violazione del dovere di fedeltà (2).
Sempre
traendo spunto dai propri precedenti, la Corte ha ribadito che l’obbligo di
fedeltà impone al lavoratore di astenersi dal porre in essere, non soltanto i
comportamenti espressamente vietati dall'art. 2105 cod. civ., ma anche qualsiasi
altra condotta che, per la natura e per le possibili conseguenze, risulti in
contrasto con i doveri connessi al suo inserimento nella struttura e
nell'organizzazione dell'impresa, ivi compresa la mera preordinazione di
attività contraria agli interessi del datore di lavoro potenzialmente
produttiva di danno (3).
L’obbligo
di fedeltà deve dunque essere interpretato in considerazione del suo
collegamento con i principi generali di correttezza e buona fede ex artt. 1175
e 1375 cod. civ., dai quali deriva l'obbligo di astensione da qualsiasi altra condotta che, per la natura
e per le possibili conseguenze, risulti
in contrasto con i doveri connessi all'inserimento del lavoratore nella
struttura e nell'organizzazione dell'impresa o crei situazioni di conflitto con
le finalità e gli interessi della medesima o sia comunque idonea a ledere
irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto (4).
In
relazione al caso di specie, l’analisi riepilogativa dei precedenti della
giurisprudenza di legittimità ha indotto
la Suprema Corte a ritenere violato l'obbligo di fedeltà anche in presenza di
una condotta di mera predisposizione di una attività contraria agli interessi
del datore di lavoro.
La Corte
ha osservato come l’estensione della
violazione dell'art. 2105 cod. civ. ad attività solo potenzialmente lesive non
costituisca un processo alle intenzioni.
In
sostanza, l’analisi relativa al rispetto dell’obbligo di fedeltà non può limitarsi
esclusivamente all’attività concreta e alla sua lesività attuale, dovendosi
parimenti spingersi alle azioni sintomatiche di un atteggiamento mentale del
dipendente in aperto contrasto con la leale collaborazione posta a fondamento
del rapporto di lavoro (5).
La
Corte, in conclusione, ha affermato come anche la semplice possibilità del
verificarsi di effetti dannosi per gli interessi del datore di lavoro, sia, di
per sé, idonea ad integrare gli estremi dell'intenzionalità dell'infrazione.
Valerio
Pollastrini
(1) - Cass. sent n. 12489 del 2003;
(2) - Cass. sent n.6654 del 2004, n. 16377
del 2006;
(3) -
Cass. n. 2474 del 2008;
(4) - Cass. n. 6957 del 2005; v. pure Cass.
n. 14176 del 2009;
(5) - Cass. nn. 1143 e 7427 del 1995, n. 512
del 1997, n. 8208 del 1998, nn. 7990 e 13906 del 2000;
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