Con
la sentenza n.10552 del 7 maggio 2013 la Corte di Cassazione ha ribadito l’importanza
dell’obbligo, posto a carico del lavoratore, di informare tempestivamente il
datore di lavoro del proprio stato di malattia.
Il fatto
Il
caso è quello del dipendente della P. Srl
assente dal lavoro per una malattia attestata da un certificato medico,
rilasciato dal Policlinico in data 10 marzo, con una prognosi di venti giorni,
ovvero fino al 30 marzo 2003. Tale certificato, non era stato inviato al datore di lavoro, ed era
stato inoltre superato da un secondo
attestato di malattia, questa volta rilasciato il 12 marzo dal medico curante,
che prescriveva un’assenza di durata inferiore rispetto a quella
originariamente prescritta, con scadenza fissata per il giorno 23 marzo.
Il
lavoratore, nei fatti, aveva ignorato la seconda prognosi, rimanendo assente
dal lavoro dal 24 al 30 marzo 2003, periodo coperto dal primo certificato
medico ma non dal secondo. In conseguenza, l’azienda aveva provveduto al suo
licenziamento per il protrarsi dell’assenza ingiustificata.
Contro
tale provvedimento, il lavoratore si rivolgeva al Tribunale di Catania
chiedendo la nullità del licenziamento.
I precedenti gradi di giudizio
In seguito al rigetto del ricorso da parte del Tribunale, la Corte di
Appello di Catania confermava l’esito della sentenza di primo grado, pronunciandosi,
in sostanza, in favore della legittimità del licenziamento.
La Corte territoriale aveva in
primo luogo accertato che, effettivamente, l'assenza contestata al lavoratore
non era supportata da una giustificazione idonea. Il certificato medico
rilasciato dal Policlinico poteva, infatti, dirsi superato dal successivo
certificato del medico curante, l'unico tra l’altro inviato al datore di lavoro
in ossequio delle norme di legge.
Tale documento riteneva sufficiente l’ assenza di durata inferiore a
quella originariamente prescritta, con scadenza, invece del giorno 30, nel
giorno 23 marzo 2003.
Accertata la mancanza di un’ulteriore
certificazione, successiva cioè a quella rilasciata dal medico curante, che legittimasse
l’assenza dal servizio nel periodo 24-30 marzo, tale periodo poteva, a ragione,
considerarsi come assenza ingiustificata e, come tale, dare luogo al
licenziamento.
Acclarata l’assenza ingiustificata, il giudice ha ritenuto la sanzione
irrogata dall’azienda proporzionale all’infrazione
commessa dal dipendente, confermando la legittimità del licenziamento. A tale
proposito la Corte ha rilevato che il Contratto collettivo applicato, prevedeva
il recesso per assenze ingiustificate anche di durata più breve (4 giorni
consecutivi). Inoltre il comportamento del lavoratore, che non si era accertato
della minor durata dell'assenza autorizzata dal medico curante provvedendo a
riprendere il servizio o comunque a comunicare tempestivamente il prorogarsi
della sua assenza, doveva essere considerato espressione di una grave
negligenza sanzionabile con la massima sanzione espulsiva.
Contro la sentenza della Corte di Appello il lavoratore proponeva
ricorso per cassazione.
Il lavoratore contestava innanzitutto il fatto che la Corte di Appello
avesse equiparato le generiche assenze ingiustificate alle assenze per malattia
non coperte da regolare certificato inviato al datore di lavoro. Per il
ricorrente, il fatto che, indipendentemente dalla prova, sussistesse l’evento
morboso avrebbe dovuto far configurare l’inadempimento commesso non come assenza
ingiustificata ma semplicemente come “mancato invio della certificazione medica”.
Il ricorrente, inoltre, lamentava il fatto che la Corte di Appello, ai
fini della legittimità del licenziamento, si fosse limitata ad attestare una
durata dell’assenza ingiustificata superiore al periodo
contrattualmente previsto quale
presupposto per l'intimazione del recesso, senza valutare l'intenzionalità della condotta contestata e
ciò sebbene nel giudizio fossero emersi
elementi di fatto che deponevano decisamente per l'insussistenza di una
intenzionalità della condotta (pessime condizioni di salute che giustificavano
l'omesso controllo da parte del dipendente delle date apposte sui diversi
certificati, assenza di precedenti disciplinari negli oltre otto anni di durata
del rapporto di lavoro).
Il giudizio della Cassazione
La Suprema Corte, nel dirimere la controversia, è intervenuta
preliminarmente sulle censure poste dal ricorrente a proposito dell'applicazione
della disposizione collettiva, ricordando il proprio orientamento in base al
quale "ove
la contrattazione collettiva preveda, quale ipolesi di giusta causa di
licenziamento, l'omessa o tardiva presentazione del certificato medico in caso
di assenza per malattia oppure l'inadempimento di altri obblighi contrattuali
specifici da parte del lavoratore, la valutazione in ordine di legittimità del
licenziamento, motivato dalla ricorrenza di una di tali ipotesi, non può
conseguire automaticamente dal mero riscontro che il comportamento del
lavoratore integri la fattispecie tipizzata contrattualmente, ma occorre sempre
che quest'ultima sia riconducibile alla nozione legale di giusta causa, tenendo
conto della gravità del comportamento in concreto tenuto dal lavoratore, anche
sotto il profilo soggettivo della colpa o del dolo."
Tenendo presente il citato principio, la Corte conferma tuttavia la
corretta interpretazione del giudizio di appello che aveva verificato, da un lato, l'esistenza
effettiva della condotta materiale (assenza dal lavoro per più di quattro
giorni senza comunicare la giustificazione) e, dall'altro, aveva approfondito
anche il profilo soggettivo, ravvisando nella condotta tenuta dal lavoratore
nel corso della sua assenza, un comportamento gravemente negligente, consistito
nell'aver omesso di verificare la corrispondenza delle prognosi effettuate
nelle due diverse certificazioni mediche acquisite (una nell'immediatezza del
malore e l'altra a distanza di due giorni) ed in particolare nella non
coincidenza dei termini finali tra la prima (trattenuta dal lavoratore) e
la seconda inviata al datore di lavoro.
La Cassazione, conferma, tra i
normali obblighi di diligenza e correttezza nello svolgimento del rapporto di
lavoro, quello di assicurarsi che,
impedimenti nello svolgimento della prestazione, pur legittimi, non arrechino
alla controparte datoriale un pregiudizio ulteriore per effetto di inesatte
comunicazioni che generino un legittimo affidamento nella effettiva ripresa
della prestazione lavorativa.
Nel valutare la condotta del
lavoratore non bisogna dunque rilevare l’
effettività della malattia, quanto piuttosto la diligenza nell'esecuzione della
prestazione che si concretizza anche nella corretta e tempestiva informazione al
datore di lavoro della sua impossibilità.
In questa prospettiva, nel caso di specie, risulta evidente che il solo
valido accertamento della impossibilità della prestazione per malattia fosse
quello contenuto nella certificazione del medico curante.
Per tali motivazioni la Suprema Corte ha respinto il ricorso del
lavoratore, confermando la legittimità del licenziamento.
Valerio Pollastrini
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