Nella sentenza
n.20715 del 10 settembre 2013 la Corte di Cassazione ha confermato la
legittimità del licenziamento irrogato ad un lavoratore che aveva utilizzato l’indirizzario
aziendale per inoltrare e-mail di critica sull’operato del datore di lavoro,
nonostante il giudizio penale si fosse concluso con l’assoluzione del
lavoratore.
Il fatto
Un dipendente
dell’azienda A.M. Spa, con la qualifica di quadro, dopo essersi appropriato
dell’intero indirizzario dell’azienda, attraverso la propria password di
accesso lo aveva installato sul computer dell’associazione sindacale della
quale era dirigente e rappresentante e lo aveva successivamente utilizzato per
l’invio di alcune e-mail critiche verso la direzione aziendale. In seguito a
tale azione, il datore di lavoro aveva proceduto al suo licenziato in tronco.
I precedenti gradi di giudizio
In seguito all’atto
di recesso il lavoratore aveva adito il Tribunale di Milano, chiedendo l’annullamento
del licenziamento, con le conseguenze previste dall’art.18 dello Statuto dei
lavoratori.
Dopo il rigetto
della domanda da parte del Tribunale, il lavoratore si era quindi rivolto alla
Corte di Appello di Milano che, riformando la decisione di primo grado,
dichiarava il licenziamento legittimo esclusivamente sotto il profilo del
giustificato motivo soggettivo. Il sostanza, la Corte Territoriale aveva
ritenuto che la condotta contestata al lavoratore non fosse passibile di
licenziamento “in tronco” per giusta causa, ma configurasse, altresì, gli
estremi licenziamento per giustificato motivo soggettivo, legittimato, come
noto, da un’infrazione meno grave rispetto a quella prevista per la giusta
causa e, come tale, avrebbe dovuto essere irrogato nel rispetto delle regole
relative al preavviso.
Secondo la
Corte, pertanto, nonostante il fatto contestato al lavoratore non configurasse una
giusta causa di recesso in tronco, il rapporto di lavoro doveva considerarsi
cessato solo allo scadere del preavviso.
La pronuncia della Cassazione
In seguito alla
decisione della Corte di Appello, sia il lavoratore che il datore di lavoro avevano ricorso in Cassazione.
Il lavoratore
lamentava in particolare che la Corte di merito avesse dato per acquisita la
sottrazione abusiva dell’indirizzario e la sua altrettanto illecita
utilizzazione, nonostante nelle risultanze dello specifico procedimento penale
la sentenza avesse affermato non solo che il comportamento non fosse abusivo ma
che non fosse stato posto in essere dal
ricorrente.
L’azienda
contestava, invece, il fatto che la Corte di merito, nel ritenere sussistente
il giustificato motivo soggettivo del licenziamento in luogo della giusta causa,
non avesse adeguatamente valutato le emergenze istruttorie relative, in
particolare: alla oggettiva rilevanza dell’illecito in considerazione del
valore dell’indirizzario; alla gravità della condotta del dipendente consistita
nella ben consapevole illegittima utilizzazione di detta banca dati aziendale
per fini estranei a quelli dell’azienda.
Per quanto
attiene al ricorso del lavoratore, la Corte di Cassazione ha preliminarmente
ricordato il suo consolidato orientamento secondo cui il giudicato penale di assoluzione
non preclude al giudice del lavoro di procedere ad una autonoma valutazione dei
fatti stessi ai fini propri del giudizio civile, e cioè tenendo conto della
loro incidenza sul particolare rapporto fiduciario che lega le parti del
rapporto di lavoro, ben potendo essi avere un sufficiente rilievo disciplinare
ed essere idonei a giustificare il licenziamento anche ove non costituiscano
reato.
Nel valutare il
comportamento della Corte di merito, la Cassazione ha ritenuto che il
giudicante avesse agito nel pieno rispetto del suddetto principio, accertando in
sede civile i fatti contestati al lavoratore, tenendo conto degli elementi
emersi nel procedimento penale conclusosi con l’assoluzione del dipendente per
insussistenza del fatto.
Nel motivare la
propria decisione la Corte di Appello aveva però ritenuto decisive, ai fini
della valutazione della condotta del lavoratore, le dichiarazioni rese da un
teste relative alla estrazione da parte del lavoratore dell’indirizzario
interno ed all’invio di “mail” critiche sull’operato della direzione aziendale.
Tali dichiarazioni erano state ritenute inutilizzabili dal giudice penale - in quanto rese da persona che doveva essere
sentita con la presenza del difensore avendo già fatto, nel corso delle
indagini investigative, dichiarazioni autoindizianti.– ma dovevano ritenersi
pienamente utilizzabili in sede civile.
A proposito della
sentenza penale di assoluzione “perché il fatto non sussiste”, la Cassazione ha
precisato che nel procedimento penale fosse stato anche chiarito che non
fossero stati raccolti sufficienti elementi di prova a carico dell’imputato.
Ciò, a detta della Suprema Corte non impediva al giudice civile di procedere
alla rivalutazione dei fatti. A questo proposito è pacifico quanto più volte
affermato in sede di legittimità a proposito del fatto il giudicato di
assoluzione nel procedimento penale abbia
effetto preclusivo nel giudizio civile solo ove contenga un effettivo e
specifico accertamento circa l’insussistenza o del fatto o della partecipazione
dell’imputato e non anche nell’ipotesi in cui l’assoluzione sia determinata
dall’accertamento dell’insussistenza di sufficienti elementi di prova circa la
commissione del fatto o l’attribuibilità di esso all’imputato.
Ciò detto, la
Corte di Appello aveva ritenuto che i fatti contestati al lavoratore
integrassero una condotta rilevante dal punto di vista disciplinare.
Per la
Cassazione, nonostante l’esito del giudizio penale, la valutazione del giudice
del gravame, che ha ritenuto i fatti addebitati al dipendente idonei ad
integrare non un licenziamento per giusta causa ma, comunque, un giustificato motivo soggettivo di recesso,
non è sindacabile in sede di legittimità.
La Suprema
Corte ha quindi analizzato le rimostranze dell’azienda e ne ha respinto il
ricorso. Anche in questo caso è stato ricordato un altro consolidato
orientamento giurisprudenziale per il quale l’analisi sulla proporzionalità
della sanzione del licenziamento disciplinare rispetto agli addebiti contestati
sia appannaggio della valutazione devoluta al giudice di merito, non
censurabile in sede di legittimità ove – come nella specie – sia sorretta da
sufficiente e non contraddittoria motivazione.
La Corte territoriale
dopo aver rilevato che l’indirizzario di
cui si era appropriato il lavoratore fosse ad uso interno ed accessibile da
parte di tutti i dipendenti e che non contenesse indirizzi di clienti ma solo
di dipendenti e collaboratori della società, ha valutato tale comportamento
come idoneo ad integrare un giustificato motivo soggettivo di licenziamento
anche perché si poneva al culmine di una situazione conflittuale venutasi a
creare tra il lavoratore e la direzione aziendale. Trattasi di motivazione che,
sia pur sintetica, risulta immune da carenze e contraddizioni ed è adeguata ad
illustrare l’iter logico seguito dalla Corte nel formulare il giudizio di
proporzionalità.
Alla luce di
quanto esposto, tanto il ricorso del lavoratore, quanto quello dell’azienda
sono stati rigettati dalla Suprema Corte che ha, in sostanza, confermato la
sussistenza del licenziamento per giustificato motivo soggettivo.
Valerio
Pollastrini
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