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giovedì 12 settembre 2013

Legittimo licenziare chi utilizzi l’indirizzario aziendale per criticare il datore di lavoro


Nella sentenza n.20715 del 10 settembre 2013 la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento irrogato ad un lavoratore che aveva utilizzato l’indirizzario aziendale per inoltrare e-mail di critica sull’operato del datore di lavoro, nonostante il giudizio penale si fosse concluso con l’assoluzione del lavoratore.

Il fatto
Un dipendente dell’azienda A.M. Spa, con la qualifica di quadro, dopo essersi appropriato dell’intero indirizzario dell’azienda, attraverso la propria password di accesso lo aveva installato sul computer dell’associazione sindacale della quale era dirigente e rappresentante e lo aveva successivamente utilizzato per l’invio di alcune e-mail critiche verso la direzione aziendale. In seguito a tale azione, il datore di lavoro aveva proceduto al suo licenziato in tronco.

I precedenti gradi di giudizio
In seguito all’atto di recesso il lavoratore aveva adito il Tribunale di Milano, chiedendo l’annullamento del licenziamento, con le conseguenze previste dall’art.18 dello Statuto dei lavoratori.

Dopo il rigetto della domanda da parte del Tribunale, il lavoratore si era quindi rivolto alla Corte di Appello di Milano che, riformando la decisione di primo grado, dichiarava il licenziamento legittimo esclusivamente sotto il profilo del giustificato motivo soggettivo. Il sostanza, la Corte Territoriale aveva ritenuto che la condotta contestata al lavoratore non fosse passibile di licenziamento “in tronco” per giusta causa, ma configurasse, altresì, gli estremi licenziamento per giustificato motivo soggettivo, legittimato, come noto, da un’infrazione meno grave rispetto a quella prevista per la giusta causa e, come tale, avrebbe dovuto essere irrogato nel rispetto delle regole relative al preavviso. 

Secondo la Corte, pertanto, nonostante il fatto contestato al lavoratore non configurasse una giusta causa di recesso in tronco, il rapporto di lavoro doveva considerarsi cessato solo allo scadere del preavviso.

La pronuncia della Cassazione
In seguito alla decisione della Corte di Appello, sia il lavoratore che il datore di lavoro  avevano ricorso in Cassazione.

Il lavoratore lamentava in particolare che la Corte di merito avesse dato per acquisita la sottrazione abusiva dell’indirizzario e la sua altrettanto illecita utilizzazione, nonostante nelle risultanze dello specifico procedimento penale la sentenza avesse affermato non solo che il comportamento non fosse abusivo ma che non fosse stato  posto in essere dal ricorrente.

L’azienda contestava, invece, il fatto che la Corte di merito, nel ritenere sussistente il giustificato motivo soggettivo del licenziamento in luogo della giusta causa, non avesse adeguatamente valutato le emergenze istruttorie relative, in particolare: alla oggettiva rilevanza dell’illecito in considerazione del valore dell’indirizzario; alla gravità della condotta del dipendente consistita nella ben consapevole illegittima utilizzazione di detta banca dati aziendale per fini estranei a quelli dell’azienda.

Per quanto attiene al ricorso del lavoratore, la Corte di Cassazione ha preliminarmente ricordato il suo consolidato orientamento  secondo cui il giudicato penale di assoluzione non preclude al giudice del lavoro di procedere ad una autonoma valutazione dei fatti stessi ai fini propri del giudizio civile, e cioè tenendo conto della loro incidenza sul particolare rapporto fiduciario che lega le parti del rapporto di lavoro, ben potendo essi avere un sufficiente rilievo disciplinare ed essere idonei a giustificare il licenziamento anche ove non costituiscano reato.

Nel valutare il comportamento della Corte di merito, la Cassazione ha ritenuto che il giudicante avesse agito nel pieno rispetto del suddetto principio, accertando in sede civile i fatti contestati al lavoratore, tenendo conto degli elementi emersi nel procedimento penale conclusosi con l’assoluzione del dipendente per insussistenza del fatto.

Nel motivare la propria decisione la Corte di Appello aveva però ritenuto decisive, ai fini della valutazione della condotta del lavoratore, le dichiarazioni rese da un teste relative alla estrazione da parte del lavoratore dell’indirizzario interno ed all’invio di “mail” critiche sull’operato della direzione aziendale. Tali dichiarazioni erano state ritenute inutilizzabili dal giudice penale -  in quanto rese da persona che doveva essere sentita con la presenza del difensore avendo già fatto, nel corso delle indagini investigative, dichiarazioni autoindizianti.– ma dovevano ritenersi pienamente utilizzabili in sede civile.

A proposito della sentenza penale di assoluzione “perché il fatto non sussiste”, la Cassazione ha precisato che nel procedimento penale fosse stato anche chiarito che non fossero stati raccolti sufficienti elementi di prova a carico dell’imputato. Ciò, a detta della Suprema Corte non impediva al giudice civile di procedere alla rivalutazione dei fatti. A questo proposito è pacifico quanto più volte affermato in sede di legittimità a proposito del fatto il giudicato di assoluzione nel procedimento penale  abbia effetto preclusivo nel giudizio civile solo ove contenga un effettivo e specifico accertamento circa l’insussistenza o del fatto o della partecipazione dell’imputato e non anche nell’ipotesi in cui l’assoluzione sia determinata dall’accertamento dell’insussistenza di sufficienti elementi di prova circa la commissione del fatto o l’attribuibilità di esso all’imputato.

Ciò detto, la Corte di Appello aveva ritenuto che i fatti contestati al lavoratore integrassero una condotta rilevante dal punto di vista disciplinare.

Per la Cassazione, nonostante l’esito del giudizio penale, la valutazione del giudice del gravame, che ha ritenuto i fatti addebitati al dipendente idonei ad integrare non un licenziamento per giusta causa ma, comunque,  un giustificato motivo soggettivo di recesso, non è sindacabile in sede di legittimità.

La Suprema Corte ha quindi analizzato le rimostranze dell’azienda e ne ha respinto il ricorso. Anche in questo caso è stato ricordato un altro consolidato orientamento giurisprudenziale per il quale l’analisi sulla proporzionalità della sanzione del licenziamento disciplinare rispetto agli addebiti contestati sia appannaggio della valutazione devoluta al giudice di merito, non censurabile in sede di legittimità ove – come nella specie – sia sorretta da sufficiente e non contraddittoria motivazione.

La Corte territoriale  dopo aver rilevato che l’indirizzario di cui si era appropriato il lavoratore fosse ad uso interno ed accessibile da parte di tutti i dipendenti e che non contenesse indirizzi di clienti ma solo di dipendenti e collaboratori della società, ha valutato tale comportamento come idoneo ad integrare un giustificato motivo soggettivo di licenziamento anche perché si poneva al culmine di una situazione conflittuale venutasi a creare tra il lavoratore e la direzione aziendale. Trattasi di motivazione che, sia pur sintetica, risulta immune da carenze e contraddizioni ed è adeguata ad illustrare l’iter logico seguito dalla Corte nel formulare il giudizio di proporzionalità.

Alla luce di quanto esposto, tanto il ricorso del lavoratore, quanto quello dell’azienda sono stati rigettati dalla Suprema Corte che ha, in sostanza, confermato la sussistenza del licenziamento per giustificato motivo soggettivo.

Valerio Pollastrini

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