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sabato 14 settembre 2013

Quando nella busta paga risultano importi superiori a quelli effettivamente corrisposti


La Cassazione, nella sentenza n.36900 del 9 settembre 2013, è intervenuta sulla possibile rilevanza penale della condotta del datore di lavoro che nella busta paga dei dipendenti dichiari degli importi superiori a quelli effettivamente corrisposti.

Il fatto
Il 17 novembre 2004 la Guardia di Finanza aveva contestato la condotta  della “L.P. Srl” che, al fine di evadere le imposte sui redditi, nel corso dell’esercizio 2003 aveva indicato nella dichiarazione Iva degli elementi passivi fittizi per un totale imponibile di 4.322 €, evadendo la somma di 1.469 €.

L’azienda aveva posto in essere l’evasione indicando nella busta paga del dipendente un importo superiore rispetto a quello effettivamente corrisposto, decurtando in questo modo la base imponibile Iva.

I precedenti gradi di giudizio
Con sentenza del 24 aprile 2012, la Corte di Appello di Palermo,   confermando la sentenza del Tribunale di Palermo del 9 luglio 2010, aveva condannato l’Amministratore Unico dell’azienda alla pena di quattro mesi di reclusione con il beneficio della sospensione condizionale della pena per il reato contestato dalla Guardia di Finanza.

Chiedendo l’annullamento della sentenza, l’indagato aveva proposto ricorso per cassazione.

Il ricorrente, in particolare, contestava che il fatto accertato non potesse essere considerato alla stregua di un’operazione fittizia, in quanto la mancata erogazione di una parte delle somme indicate in busta paga non faceva riferimento a prestazioni lavorative non effettuate.

Il capo di imputazione, infatti, riguardava l’indicazione, tra i costi dell’azienda, di prestazioni di lavoro mai ricevute e mai pagate. L’Amministratore Unico della L.P. Srl faceva notare, invece, che in realtà, nella contabilità aziendale, non avesse riportato dei costi fittizi, ma, altresì, delle competenze inerenti ad un reale rapporto di lavoro, corrispondenti a quanto dovuto al dipendente per la prestazione effettuata, pur se  pagate solo parzialmente.

Risultando dagli atti la sussistenza del rapporto di lavoro, l’imputato riteneva che i giudici avrebbero dovuto esaminare se le difformità tra importo indicato in busta paga e l’importo erogato potessero avere rilevanza penale tributaria.
 

La pronuncia della Cassazione
Dopo avere analizzato la normativa di riferimento, la Cassazione ha accolto il ricorso dell’Amministratore Unico della L.P. Srl.

Dalla lettera dell’art.2 del Dlgs n. 74 del 2000, risulta infatti evidente che perché possa dirsi configurato  il reato contestato   è necessaria l’indicazione nella dichiarazione fiscale  di “elementi passivi fittizi” allo scopo dì evadere le imposte.

Come chiarito più volte dalla giurisprudenza, l’utilizzazione fraudolenta in dichiarazione di fatture per operazioni inesistenti risulta accertata nel caso in cui  le stesse siano inesistenti dal punto di vista oggettivo, ossia che vi sia “diversità, totale o parziale, tra costi indicati e costi sostenuti”. Il richiamato articolo 2 si riferisce quindi a “fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”. E’   invece l’art. 1, lett. a) a chiarire,  che tale locuzione inerisce a quelle fatture o documenti che sono emessi a fronte di operazioni in tutto o in parte inesistenti o che indicano i corrispettivi o l’imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale ovvero che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi.

Per la configurazione di questo reato risulta pertanto  indispensabile  che la documentazione fraudolenta sia stata emessa a fronte di operazioni non realmente effettuate.

La Suprema Corte ha poi concluso l’analisi normativa evidenziando che, semmai, la condotta contestata al ricorrente sarebbe dovuta essere valutata in relazione all’articolo 3 del richiamato Decreto Legislativo, norma che sanziona il diverso reato previsto in caso di dichiarazione fraudolenta. Si tratta  in questo caso di una frode contabile alla quale deve associarsi un quid pluris artificioso non tipizzato, diverso cioè dall’uso dì fatture o altri documenti falsi,  ma comunque caratterizzato dalla idoneità ad indurre in errore e ad impedire il corretto accertamento della realtà contabile del soggetto che presenta la dichiarazione annuale d’imposta.  A questo proposito è stato, ad esempio, ritenuto che rientri in questa fattispecie la tenuta di un sistema parallelo di contabilità “in nero”.

Di recente, inoltre, la giurisprudenza ha  precisato che il “quid pluris” rispetto alla falsa rappresentazione offerta nelle scritture contabili obbligatorie deve consistere in una condotta connotata da particolare insidiosità derivante dall’impiego di artifici idonei ad ostacolare l’accertamento della falsità contabile.

I giudici di merito, erroneamente, erano giunti alla conclusione  che, a fronte di un rapporto di lavoro esistente, la differenza tra l’importo indicato in busta paga e quello inferiore effettivamente corrisposto, avesse determinato una fittizia indicazione di voci passive ed una decurtazione della base imponibile, con conseguente evasione IVA per la somma indicata nel capo di imputazione,  ritenendo così che le buste paga fossero documenti attestanti operazioni parzialmente inesistenti.

Una simile  motivazione, per la Cassazione, non può essere condivisibile, proprio perché la prestazione di lavoro era risultata realmente effettuata. Ciò detto la Corte ha posto, conseguentemente, un problema di qualificazione giuridica del fatto, eventualmente rientrante nella tipizzazione di cui al menzionato art 3 d.lgs. n. 74 del 2000, in relazione all’omessa indicazione di una parte di quanto corrisposto al dipendente.

Nel motivare meglio la propria decisione la Corte Suprema ha fatto, inoltre, notare come la sentenza di appello avesse del tutto omesso di chiarire  quali sarebbero stati, nei fatti, i “raggiri ed i mezzi fraudolenti” adoperati dall’imputato per ostacolare l’accertamento della falsa rappresentazione indicata nelle buste paga e trasfusa nella dichiarazione, limitandosi solamente ad affermare la parziale inesistenza delle operazioni, senza quindi spiegare la ragione per la quale un comportamento omissivo costituisse un raggiro e comunque un mezzo fraudolento idoneo ad ostacolare l’accertamento di tali falsi rappresentazione contenute nella dichiarazione.

Per i motivi appena indicati la Corte di Cassazione ha pertanto disposto l’annullamento della  sentenza impugnata , rinviando la questione ad altra Sezione della Corte di appello di Palermo.

 
Valerio Pollastrini

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