La
Cassazione, nella sentenza n.36900 del 9 settembre 2013, è intervenuta sulla possibile
rilevanza penale della condotta del datore di lavoro che nella busta paga dei
dipendenti dichiari degli importi superiori a quelli effettivamente
corrisposti.
Il fatto
Il
17 novembre 2004 la Guardia di Finanza aveva contestato la condotta della “L.P. Srl” che, al fine di evadere le
imposte sui redditi, nel corso dell’esercizio 2003 aveva indicato nella
dichiarazione Iva degli elementi passivi fittizi per un totale imponibile di
4.322 €, evadendo la somma di 1.469 €.
L’azienda
aveva posto in essere l’evasione indicando nella busta paga del dipendente un
importo superiore rispetto a quello effettivamente corrisposto, decurtando in
questo modo la base imponibile Iva.
I precedenti gradi di giudizio
Con
sentenza del 24 aprile 2012, la Corte di Appello di Palermo, confermando la sentenza del Tribunale di
Palermo del 9 luglio 2010, aveva condannato l’Amministratore Unico dell’azienda
alla pena di quattro mesi di reclusione con il beneficio della sospensione
condizionale della pena per il reato contestato dalla Guardia di Finanza.
Chiedendo
l’annullamento della sentenza, l’indagato aveva proposto ricorso per cassazione.
Il
ricorrente, in particolare, contestava che il fatto accertato non potesse essere
considerato alla stregua di un’operazione fittizia, in quanto la mancata
erogazione di una parte delle somme indicate in busta paga non faceva
riferimento a prestazioni lavorative non effettuate.
Il
capo di imputazione, infatti, riguardava l’indicazione, tra i costi dell’azienda,
di prestazioni di lavoro mai ricevute e mai pagate. L’Amministratore Unico
della L.P. Srl faceva notare, invece, che in realtà, nella contabilità aziendale,
non avesse riportato dei costi fittizi, ma, altresì, delle competenze inerenti
ad un reale rapporto di lavoro, corrispondenti a quanto dovuto al dipendente
per la prestazione effettuata, pur se pagate solo parzialmente.
Risultando
dagli atti la sussistenza del rapporto di lavoro, l’imputato riteneva che i giudici
avrebbero dovuto esaminare se le difformità tra importo indicato in busta paga
e l’importo erogato potessero avere rilevanza penale tributaria.
La pronuncia della Cassazione
Dopo
avere analizzato la normativa di riferimento, la Cassazione ha accolto il
ricorso dell’Amministratore Unico della L.P. Srl.
Dalla
lettera dell’art.2 del Dlgs n. 74 del 2000, risulta infatti evidente che perché
possa dirsi configurato il reato contestato
è
necessaria l’indicazione nella dichiarazione fiscale di “elementi passivi fittizi” allo scopo dì
evadere le imposte.
Come
chiarito più volte dalla giurisprudenza, l’utilizzazione fraudolenta in
dichiarazione di fatture per operazioni inesistenti risulta accertata nel caso
in cui le stesse siano inesistenti dal
punto di vista oggettivo, ossia che vi sia “diversità, totale o parziale, tra
costi indicati e costi sostenuti”. Il richiamato articolo 2 si riferisce quindi
a “fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”. E’ invece
l’art. 1, lett. a) a chiarire, che tale
locuzione inerisce a quelle fatture o documenti che sono emessi a fronte di
operazioni in tutto o in parte inesistenti o che indicano i corrispettivi o
l’imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale ovvero che
riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi.
Per
la configurazione di questo reato risulta pertanto indispensabile che la documentazione fraudolenta sia stata
emessa a fronte di operazioni non realmente effettuate.
La
Suprema Corte ha poi concluso l’analisi normativa evidenziando che, semmai, la
condotta contestata al ricorrente sarebbe dovuta essere valutata in relazione
all’articolo 3 del richiamato Decreto Legislativo, norma che sanziona il
diverso reato previsto in caso di dichiarazione fraudolenta. Si tratta in questo caso di una frode contabile alla
quale deve associarsi un quid pluris artificioso non tipizzato, diverso cioè
dall’uso dì fatture o altri documenti falsi, ma comunque caratterizzato dalla idoneità ad
indurre in errore e ad impedire il corretto accertamento della realtà contabile
del soggetto che presenta la dichiarazione annuale d’imposta. A questo proposito è stato, ad esempio,
ritenuto che rientri in questa fattispecie la tenuta di un sistema parallelo di
contabilità “in nero”.
Di
recente, inoltre, la giurisprudenza ha precisato che il “quid pluris” rispetto alla falsa rappresentazione offerta nelle
scritture contabili obbligatorie deve consistere in una condotta connotata da
particolare insidiosità derivante dall’impiego di artifici idonei ad ostacolare
l’accertamento della falsità contabile.
I giudici
di merito, erroneamente, erano giunti alla conclusione che, a fronte di un rapporto di lavoro
esistente, la differenza tra l’importo indicato in busta paga e quello
inferiore effettivamente corrisposto, avesse determinato una fittizia
indicazione di voci passive ed una decurtazione della base imponibile, con
conseguente evasione IVA per la somma indicata nel capo di imputazione, ritenendo così che le buste paga fossero documenti attestanti operazioni parzialmente
inesistenti.
Una
simile motivazione, per la Cassazione,
non può essere condivisibile, proprio perché la prestazione di lavoro era
risultata realmente effettuata. Ciò detto la Corte ha posto, conseguentemente,
un problema di qualificazione giuridica del fatto, eventualmente rientrante
nella tipizzazione di cui al menzionato art 3 d.lgs. n. 74 del 2000, in
relazione all’omessa indicazione di una parte di quanto corrisposto al
dipendente.
Nel
motivare meglio la propria decisione la Corte Suprema ha fatto, inoltre, notare
come la sentenza di appello avesse del tutto omesso di chiarire quali sarebbero stati, nei fatti, i “raggiri
ed i mezzi fraudolenti” adoperati dall’imputato per ostacolare l’accertamento
della falsa rappresentazione indicata nelle buste paga e trasfusa nella
dichiarazione, limitandosi solamente ad affermare la parziale inesistenza delle
operazioni, senza quindi spiegare la ragione per la quale un comportamento
omissivo costituisse un raggiro e comunque un mezzo fraudolento idoneo ad
ostacolare l’accertamento di tali falsi rappresentazione contenute nella
dichiarazione.
Per
i motivi appena indicati la Corte di Cassazione ha pertanto disposto l’annullamento
della sentenza impugnata , rinviando la
questione ad altra Sezione della Corte di appello di Palermo.
Valerio
Pollastrini
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