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mercoledì 4 settembre 2013

Illegittimo licenziare il dipendente in stato di carcerazione preventiva per motivi estranei al rapporto di lavoro


Nella sentenza n.14469 del 7 giugno 2013, la Corte di Cassazione affronta gli aspetti legati alle conseguenze sul rapporto di lavoro dello stato di detenzione del dipendente per motivi estranei alla prestazione lavorativa, ricordando che una simile condizione non costituisce inadempimento degli obblighi contrattuali.

 
Il fatto

Il caso di specie è quello di un dipendente  dell’Enav spa che, in seguito alla sua carcerazione preventiva  per fatti estranei allo svolgimento del rapporto di lavoro, era stato licenziato dopo circa due mesi.
 

I precedenti gradi di giudizio

La Corte di Appello di Roma, riformando la decisione di primo grado, aveva accolto il ricorso del lavoratore, con conseguente dichiarazione  dell’illegittimità del licenziamento ed ingiunzione al datore di lavoro di reintegrare il dipendente in azienda con il pagamento del risarcimento del danno.

La Corte territoriale, nel motivare la propria decisione, aveva ricordato il costante orientamento giurisprudenziale in base al quale la carcerazione preventiva del lavoratore per fatti estranei allo svolgimento del rapporto di lavoro non costituisce inadempimento di obblighi contrattuali, ma integra  una sopravvenuta impossibilità temporanea della prestazione lavorativa in relazione alla quale la persistenza nel datore dell’interesse a ricevere le ulteriori prestazioni del dipendente detenuto deve essere valutata secondo criteri obiettivi e cioè con riferimento alle esigenze dell’azienda da valutarsi con giudizio “ex ante” e non “ex post”, con riguardo alle dimensioni dell’azienda, al tipo di organizzazione tecnico-produttiva, alla ragionevolmente prevedibile durata della custodia cautelare e ad ogni circostanza rilevante ai fini della determinazione della misura della tollerabilità dell’assenza.

Dall’analisi dei fatti era emerso che presso l’aeroporto  sede di lavoro  del dipendente, non vi fosse carenza di organico, essendo state disposte da poco nuove assunzioni e che   il lavoratore non avrebbe potuto svolgere attività di controllore da solo dovendo essere affiancato da controllore titolare. Ciò induceva a ritenere che non vi fossero elementi decisivi per considerare  intollerabile l’assenza del lavoratore e che la sua temporanea condizione di detenzione non arrecasse  pregiudizio delle obiettive esigenze di copertura del servizio.

La Corte di Appello aveva riconosciuto  quanto lamentato dall’azienda a proposito del fatto che, prima del licenziamento, il difensore del lavoratore, nonostante fosse stato invitato  a fornire ragguagli sulla custodia cautelare del proprio assistito, aveva omesso di comunicare  notizie al riguardo, impedendo così al datore di lavoro di  acquisire contezza “ex ante” della presumibile durata della carcerazione preventiva in relazione al tipo di reato imputato al dipendente ed alla fase in cui si trovava il procedimento penale.  Tuttavia  la decisione di risolvere il rapporto, a detta della Corte,  era stata avventata, in quanto assunta dopo appena due mesi di indisponibilità del lavoratore, nonostante un contesto di sostanziale tollerabilità dell’assenza alla stregua di tutti i criteri enucleati in precedenza.

Per il giudice di secondo grado, pertanto, al momento del licenziamento l’azienda, pur se impossibilitata a conoscere la durata preventivabile dell’assenza del lavoratore, si trovava in condizioni tali da poter sopportare la stessa per un prolungato periodo.

L’Enav, in seguito alla sentenza della Corte di Appello aveva  ricorso per  cassazione, contestando il fatto che il giudice non avesse ritenuto decisiva la circostanza che la società non fosse stata posta nella condizione di effettuare una previsione preventiva della durata dell’assenza dal luogo di lavoro del dipendente ristretto in carcere. A detta dell’azienda, nonostante il Tribunale avesse premesso la necessità di una valutazione previsionale del dato temporale dell’assenza, aveva comunque ritenuto tollerabile l’assenza del dipendente, in forza di una valutazione ex post del periodo medesimo e, comunque, per un congruo, anche prolungato, periodo, vista la presenza degli altri indici di sopportabilità.

Secondo il ricorrente, nel caso di carcerazione preventiva di un dipendente, il perdurare dell’interesse del datore di lavoro a ricevere le ulteriori prestazioni del lavoratore detenuto deve essere valutata con giudizio “ex ante”, vale a dire al momento del licenziamento, tenendo  conto della prevedibile durata della custodia cautelare.
 

La Cassazione

La Suprema Corte ha in primo luogo analizzato i rilievi posti dal datore di lavoro circa il principio giurisprudenziale in base al quale lo stato di detenzione del lavoratore, per fatti estranei al rapporto di lavoro, non costituisce un inadempimento degli obblighi contrattuali, ma integra gli estremi della sopravvenuta temporanea impossibilità della prestazione, che giustifica il licenziamento solo ove, in base ad un giudizio “ex ante” – che tenga conto delle dimensioni dell’impresa, del tipo di organizzazione tecnico-produttiva in essa attuato, della natura ed importanza delle mansioni del lavoratore detenuto, nonché del già maturato periodo di sua assenza, della ragionevolmente prevedibile ulteriore durata della sua carcerazione, della possibilità di affidare temporaneamente ad altri le sue mansioni senza necessità di nuove assunzioni e, più in generale, di ogni altra circostanza rilevante ai fini della determinazione della misura della tollerabilità dell’assenza – costituisca un giustificato motivo oggettivo di recesso, non persistendo l’interesse dal datore di lavoro a ricevere le ulteriori prestazioni del dipendente detenuto.

La Corte di Appello, nonostante avesse effettuato una simile valutazione, aveva ritenuto che,  in base alle considerazioni relative alla sostenibilità da parte dell’azienda dell’assenza del dipendente, –  il licenziamento non poteva ritenersi legittimo, indipendentemente dall’assenza accertata di informazioni utili a valutare correttamente la situazione in cui versava il dipendente.

La Cassazione non ha eccepito vizi sul procedimento logico che aveva indotto la Corte territoriale a ritenere che la mancanza di notizie sulla situazione del lavoratore,  non poteva sicuramente, dopo appena due mesi di assenza di prestazione, indurre a ritenere intollerabile la stessa, alla stregua di un contesto ambientale e lavorativo tutt’altro che ostativo rispetto alla procrastinazione di ogni ultimativa decisione.

La Suprema Corte ricorda che i  principi che regolano il ricorso per cassazione, conferiscono al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico–formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge.

Nella specie, le contestazioni del datore di lavoro non  evidenziano   vizi motivazionali dedotti, né chiariscono gli aspetti di decisività della critica avanzata, rispetto ad una ricostruzione logica e coerente operata dalla Corte territoriale, ai fini della valutazione dell’interesse del datore alla prosecuzione del rapporto a fronte di una impossibilità temporanea della prestazione.

La Corte di Cassazione, per i motivi sopra esposti, ha pertanto respinto il ricorso dell’Enav sps, confermando quanto disposto dalla Corte di Appello in merito all’illegittimità del licenziamento.


Valerio Pollastrini

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