Nella
sentenza n.14469 del 7 giugno 2013, la Corte di Cassazione affronta gli aspetti
legati alle conseguenze sul rapporto di lavoro dello stato di detenzione del
dipendente per motivi estranei alla prestazione lavorativa, ricordando che una
simile condizione non costituisce inadempimento degli obblighi contrattuali.
Il fatto
Il caso di
specie è quello di un dipendente dell’Enav
spa che, in seguito alla sua carcerazione preventiva per fatti estranei allo svolgimento del
rapporto di lavoro, era stato licenziato dopo circa due mesi.
I precedenti gradi di giudizio
La Corte di
Appello di Roma, riformando la decisione di primo grado, aveva accolto il ricorso
del lavoratore, con conseguente dichiarazione dell’illegittimità del licenziamento ed ingiunzione
al datore di lavoro di reintegrare il dipendente in azienda con il pagamento
del risarcimento del danno.
La Corte
territoriale, nel motivare la propria decisione, aveva ricordato il costante orientamento
giurisprudenziale in base al quale la carcerazione preventiva del lavoratore
per fatti estranei allo svolgimento del rapporto di lavoro non costituisce
inadempimento di obblighi contrattuali, ma integra una sopravvenuta impossibilità temporanea
della prestazione lavorativa in relazione alla quale la persistenza nel datore
dell’interesse a ricevere le ulteriori prestazioni del dipendente detenuto deve
essere valutata secondo criteri obiettivi e cioè con riferimento alle esigenze
dell’azienda da valutarsi con giudizio “ex ante” e non “ex post”, con riguardo
alle dimensioni dell’azienda, al tipo di organizzazione tecnico-produttiva,
alla ragionevolmente prevedibile durata della custodia cautelare e ad ogni
circostanza rilevante ai fini della determinazione della misura della
tollerabilità dell’assenza.
Dall’analisi
dei fatti era emerso che presso l’aeroporto sede di lavoro
del dipendente, non vi fosse carenza di organico, essendo state disposte
da poco nuove assunzioni e che il
lavoratore non avrebbe potuto svolgere attività di controllore da solo dovendo
essere affiancato da controllore titolare. Ciò induceva a ritenere che non vi fossero
elementi decisivi per considerare intollerabile
l’assenza del lavoratore e che la sua temporanea condizione di detenzione non
arrecasse pregiudizio delle obiettive
esigenze di copertura del servizio.
La Corte di
Appello aveva riconosciuto quanto
lamentato dall’azienda a proposito del fatto che, prima del licenziamento, il
difensore del lavoratore, nonostante fosse stato invitato a fornire ragguagli sulla custodia cautelare
del proprio assistito, aveva omesso di comunicare notizie al riguardo, impedendo così al datore
di lavoro di acquisire contezza “ex
ante” della presumibile durata della carcerazione preventiva in relazione al
tipo di reato imputato al dipendente ed alla fase in cui si trovava il
procedimento penale. Tuttavia la decisione di risolvere il rapporto, a
detta della Corte, era stata avventata,
in quanto assunta dopo appena due mesi di indisponibilità del lavoratore,
nonostante un contesto di sostanziale tollerabilità dell’assenza alla stregua
di tutti i criteri enucleati in precedenza.
Per il
giudice di secondo grado, pertanto, al momento del licenziamento l’azienda, pur
se impossibilitata a conoscere la durata preventivabile dell’assenza del
lavoratore, si trovava in condizioni tali da poter sopportare la stessa per un
prolungato periodo.
L’Enav, in
seguito alla sentenza della Corte di Appello aveva ricorso per
cassazione, contestando il fatto che il giudice non avesse ritenuto decisiva
la circostanza che la società non fosse stata posta nella condizione di
effettuare una previsione preventiva della durata dell’assenza dal luogo di
lavoro del dipendente ristretto in carcere. A detta dell’azienda, nonostante il
Tribunale avesse premesso la necessità di una valutazione previsionale del dato
temporale dell’assenza, aveva comunque ritenuto tollerabile l’assenza del
dipendente, in forza di una valutazione ex post del periodo medesimo e,
comunque, per un congruo, anche prolungato, periodo, vista la presenza degli
altri indici di sopportabilità.
Secondo il ricorrente,
nel caso di carcerazione preventiva di un dipendente, il perdurare dell’interesse
del datore di lavoro a ricevere le ulteriori prestazioni del lavoratore
detenuto deve essere valutata con giudizio “ex ante”, vale a dire al momento
del licenziamento, tenendo conto della
prevedibile durata della custodia cautelare.
La Cassazione
La Suprema
Corte ha in primo luogo analizzato i rilievi posti dal datore di lavoro circa
il principio giurisprudenziale in base al quale lo stato di detenzione del
lavoratore, per fatti estranei al rapporto di lavoro, non costituisce un
inadempimento degli obblighi contrattuali, ma integra gli estremi della
sopravvenuta temporanea impossibilità della prestazione, che giustifica il
licenziamento solo ove, in base ad un giudizio “ex ante” – che tenga conto
delle dimensioni dell’impresa, del tipo di organizzazione tecnico-produttiva in
essa attuato, della natura ed importanza delle mansioni del lavoratore
detenuto, nonché del già maturato periodo di sua assenza, della ragionevolmente
prevedibile ulteriore durata della sua carcerazione, della possibilità di
affidare temporaneamente ad altri le sue mansioni senza necessità di nuove
assunzioni e, più in generale, di ogni altra circostanza rilevante ai fini
della determinazione della misura della tollerabilità dell’assenza –
costituisca un giustificato motivo oggettivo di recesso, non persistendo
l’interesse dal datore di lavoro a ricevere le ulteriori prestazioni del
dipendente detenuto.
La Corte di
Appello, nonostante avesse effettuato una simile valutazione, aveva ritenuto
che, in base alle considerazioni
relative alla sostenibilità da parte dell’azienda dell’assenza del dipendente,
– il licenziamento non poteva ritenersi legittimo,
indipendentemente dall’assenza accertata di informazioni utili a valutare
correttamente la situazione in cui versava il dipendente.
La
Cassazione non ha eccepito vizi sul procedimento logico che aveva indotto la
Corte territoriale a ritenere che la mancanza di notizie sulla situazione del
lavoratore, non poteva sicuramente, dopo
appena due mesi di assenza di prestazione, indurre a ritenere intollerabile la
stessa, alla stregua di un contesto ambientale e lavorativo tutt’altro che
ostativo rispetto alla procrastinazione di ogni ultimativa decisione.
La Suprema
Corte ricorda che i principi che
regolano il ricorso per cassazione, conferiscono al giudice di legittimità non
il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale, ma solo la
facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della
coerenza logico–formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al
quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio
convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere,
tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee
a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente
prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi
tassativamente previsti dalla legge.
Nella specie,
le contestazioni del datore di lavoro non
evidenziano vizi motivazionali dedotti, né chiariscono gli
aspetti di decisività della critica avanzata, rispetto ad una ricostruzione
logica e coerente operata dalla Corte territoriale, ai fini della valutazione
dell’interesse del datore alla prosecuzione del rapporto a fronte di una
impossibilità temporanea della prestazione.
La Corte di
Cassazione, per i motivi sopra esposti, ha pertanto respinto il ricorso dell’Enav
sps, confermando quanto disposto dalla Corte di Appello in merito all’illegittimità
del licenziamento.
Valerio
Pollastrini
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