Nella
sentenza n.1693 del 24 gennaio 2013 la Corte di Cassazione si
e' occupata delle diverse obbligazioni derivanti da un contratto di lavoro
subordinato.
Un dipendente
della Telecom Italia S.p.A., dopo essere
stato privato delle sue mansioni e
lasciato in condizioni di forzata inoperosità per circa due anni, era stato successivamente licenziato in tronco
perche' sistematicamente non aveva rispettato l'orario di lavoro.
Il lavoratore,
nell'impugnare il recesso, aveva
sostenuto che il suo comportamento doveva considerarsi una giusta reazione all'inadempimento del datore
di lavoro all'obbligo di farlo lavorare.
Tra le cause
di illegittimita' del provvedimento espulsivo, veniva altresi' indicata la
tardivita' con la quale il licenziamento era stato intimato.
Il lavoratore
aveva inoltre richiesto all'azienda il risarcimento del danno per il
demansionamento subito.
Nel primo
grado di giudizio, il Tribunale aveva rigettato la domanda di annullamento del
licenziamento, mentre aveva riconosciuto il diritto del lavoratore ad un'indennita'
risarcitoria di 26.000,00 euro.
L'illegittimita'
del recesso, successivamente, era stata invece riconosciuta dalla Corte di
Appello di Roma, che aveva conseguentemente disposto l'annullamento del licenziamento.
L'azienda aveva
quindi proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza della Corte
romana per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema
Corte, nell'affrontare la questione, ha premesso che il rifiuto di un
lavoratore di svolgere la propria prestazione, se conforme a buona fede e proporzionato
ad un illegittimo comportamento del datore di lavoro, puo' ritenersi
giustificato e quindi non passibile di licenziamento.
A titolo
esemplificativo sono stati ricordati i precedenti
conformi a questo indirizzo, come quelli relativi all'adibizione del prestatore
di lavoro a mansioni inferiori.
In sostanza, in
casi analoghi a quello di specie, il Giudice e' chiamato a procedere ad una
valutazione comparativa degli opposti inadempimenti, tenendo conto della loro
proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto e alla
loro rispettiva incidenza sulle parti e sugli interessi delle stesse.
A detta della
Corte, lo stato di forzata inattività imputabile al datore di lavoro, pur non
legittimando il rifiuto del lavoratore di svolgere la propria prestazione, ha
contribuito a determinare l'inadempimento di quest'ultimo e, pertanto, e' risultato idoneo a
ridimensionarne la gravità.
Per quanto
attiene alla tardività del licenziamento, la Corte ha invece ricordato le
ragioni che impongono al datore di
lavoro la massima celerita' nel
sanzionare l'inadempimento del lavoratore.
Il
licenziamento per giusta causa trae il proprio fondamento da una colpa di
rilevanza tale da pregiudicare irreparabilmente la fiducia del datore di lavoro
nei confronti del lavoratore, requisito indispensabile per una prosecuzione anche
solo temporanea della prestazione lavorativa.
L'eccessivo
protrarsi del tempo tra la violazione accertata e l'atto di recesso può quindi
indicare la mancanza di interesse del datore di lavoro ad esercitare il proprio
diritto di licenziare.
La
tempestività della contestazione disciplinare e' inoltre richiesta per
consentire al dipendente di ricordare al meglio i fatti per poter predisporre
una più efficace difesa.
Per la
Cassazione, la Corte territoriale ha correttamente ritenuto che il tempo
trascorso fino alla contestazione fosse in contrasto con i principi di
correttezza e buona fede nella gestione del rapporto di lavoro.
Le violazioni del lavoratore costituivano in realta' più fatti, tutti autonomamente suscettibili di
diverse sanzioni disciplinari, e non
un'unica infrazione composta dalla sommatoria di singoli inadempimenti.
L'assenza di tempestive contestazioni per ogni mancanza ha generato una sorta di
presunzione che simili condotte costituissero un comportamento tollerato dal
datore di lavoro.
Per tutti i
motivi sopra indicati la Suprema Corte
ha rigettato il ricorso dell'azienda.
Valerio
Pollastrini
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