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venerdì 8 marzo 2013

Relegare il dipendente in uno stato di inoperosita' forzata puo' legittimare il suo rifiuto di rispettare l'orario di lavoro


Nella sentenza n.1693 del 24 gennaio 2013 la Corte di Cassazione si e' occupata delle diverse obbligazioni derivanti da un contratto di lavoro subordinato.

Un dipendente della Telecom Italia S.p.A., dopo  essere  stato privato delle sue mansioni e lasciato in condizioni di forzata inoperosità per circa due anni,  era stato successivamente licenziato in tronco perche' sistematicamente non aveva rispettato l'orario di lavoro.

Il lavoratore, nell'impugnare il recesso,  aveva sostenuto che il suo comportamento doveva considerarsi una  giusta reazione all'inadempimento del datore di lavoro all'obbligo di farlo lavorare.

Tra le cause di illegittimita' del provvedimento espulsivo, veniva altresi' indicata la tardivita' con la quale il licenziamento  era stato intimato.

Il lavoratore aveva inoltre richiesto all'azienda il risarcimento del danno per il demansionamento subito.

Nel primo grado di giudizio, il Tribunale aveva rigettato la domanda di annullamento del licenziamento, mentre aveva riconosciuto il diritto del lavoratore ad un'indennita' risarcitoria  di 26.000,00 euro.

L'illegittimita' del recesso, successivamente, era stata invece riconosciuta dalla Corte di Appello di Roma, che aveva conseguentemente disposto  l'annullamento del licenziamento.

L'azienda aveva quindi proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza della Corte romana per vizi di motivazione e violazione di legge.

La Suprema Corte, nell'affrontare la questione, ha premesso che il rifiuto di un lavoratore di svolgere la propria prestazione, se conforme a buona fede e proporzionato ad un illegittimo comportamento del datore di lavoro, puo' ritenersi giustificato e quindi non  passibile di licenziamento.

A titolo esemplificativo sono stati  ricordati i precedenti conformi a questo indirizzo, come quelli relativi all'adibizione del prestatore di lavoro a mansioni inferiori.

In sostanza, in casi analoghi a quello di specie, il Giudice e' chiamato a procedere ad una valutazione comparativa degli opposti inadempimenti, tenendo conto della loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto e alla loro rispettiva incidenza sulle parti e sugli interessi delle stesse.

A detta della Corte, lo stato di forzata inattività imputabile al datore di lavoro, pur non legittimando il rifiuto del lavoratore di svolgere la propria prestazione, ha contribuito a determinare l'inadempimento di quest'ultimo  e, pertanto, e' risultato idoneo a ridimensionarne la gravità.

Per quanto attiene alla tardività del licenziamento, la Corte ha invece ricordato le ragioni che impongono  al datore di lavoro  la massima celerita' nel sanzionare l'inadempimento del lavoratore.

Il licenziamento per giusta causa trae il proprio fondamento da una colpa di rilevanza tale da pregiudicare irreparabilmente la fiducia del datore di lavoro nei confronti del lavoratore, requisito indispensabile per una prosecuzione anche solo temporanea della prestazione lavorativa.

L'eccessivo protrarsi del tempo tra la violazione accertata e l'atto di recesso può quindi indicare la mancanza di interesse del datore di lavoro ad esercitare il proprio diritto di licenziare.

La tempestività della contestazione disciplinare e' inoltre richiesta per consentire al dipendente di ricordare al meglio i fatti per poter predisporre una più efficace difesa.

Per la Cassazione, la Corte  territoriale ha correttamente ritenuto che il tempo trascorso fino alla contestazione fosse in contrasto con i principi di correttezza e buona fede nella gestione del rapporto di lavoro.

Le violazioni  del lavoratore costituivano in realta'  più fatti, tutti autonomamente suscettibili di diverse  sanzioni disciplinari, e non un'unica infrazione composta dalla sommatoria di singoli inadempimenti. L'assenza di tempestive contestazioni per  ogni mancanza ha generato una sorta di presunzione che simili condotte costituissero un comportamento tollerato dal datore di lavoro.

Per tutti i motivi sopra indicati la Suprema Corte  ha rigettato il ricorso dell'azienda.

Valerio Pollastrini

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