Corte di Cassazione –
Sentenza n.31930 del 22 luglio 2015
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del
21/5/2014, la Corte di appello di Genova confermava la pronuncia emessa il
19/7/2012 dal Tribunale di Massa, con la quale F.V. era stato ritenuto
responsabile del delitto di cui all'art. 10-bis, d. Igs. 10 marzo 2000, n. 74,
e condannato alla pena di 4 mesi di reclusione; allo stesso - legale
rappresentante della "A.V. s.r.l." - era contestato di non aver
versato le ritenute risultanti dalle certificazioni rilasciate ai dipendenti -
anno di imposta 2007 - per l'ammontare di 69.739 euro.
2. Propone ricorso per
cassazione il V., a mezzo del proprio difensore, deducendo due motivi:
- illegittimità
costituzionale dell'art. 10-bis in oggetto. Il ricorrente sollecita alla Corte
di sollevare la questione di legittimità costituzionale della norma, negli
stessi termini che hanno condotto alla declaratoria di incostituzionalità
dell'art. 10-ter, stesso decreto, di cui alla sentenza Corte cost. 8 aprile
2014, n. 80; identica, infatti, risulterebbe la ratio, atteso che, in entrambi
i casi l'imprenditore deve presentare la dichiarazione di imposta ed adempiere
al debito ivi indicato;
- violazione degli
artt. 43 e 45 cod. pen., mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità
della motivazione. La Corte di appello avrebbe confermato la condanna pur a fronte
di plurimi e documentati elementi che dimostrerebbero l'assenza del dolo del
reato o, più precisamente, la forza maggiore che avrebbe determinato il V.
all'omissione; in particolare, dagli atti già in possesso del Collegio di
merito risulterebbe che "A.V." aveva patito una gravissima ed
improvvisa crisi di liquidità, a fronte della quale il ricorrente aveva
privilegiato il pagamento delle retribuzioni e dei debiti verso le banche, ed
aveva solo rinviato il versamento di quanto dovuto all'erario. Questo,
peraltro, sarebbe comunque avvenuto tempestivamente nella misura di 2/3, mentre
la parte restante sarebbe stata oggetto di richiesta - accolta - di
rateizzazione, già prima della comunicazione dell'irregolarità fiscale. Ancora,
il V., per fronteggiare la crisi di liquidità, avrebbe impegnato il patrimonio
personale, oltre che rinunciato agli emolumenti quale amministratore.
Circostanze, queste indicate, che la Corte avrebbe del tutto disatteso,
rendendo una motivazione carente ed illogica.
Considerato in diritto
3. Con riguardo alla
dedotta questione di costituzionalità, osserva il Collegio che la Corte
costituzionale, con sentenza n. 100 del 5/6/2015, ha dichiarato la stessa non
fondata, anche in ordine all'art. 3 Cost. richiamato dal ricorso in questa sede.
Sul solco, peraltro, già segnato da questa Sezione (e ricordato dal Giudice
delle leggi), la quale aveva dichiarato manifestamente infondata la questione
medesima, rilevando che per il reato di omesso versamento di ritenute
certificate non è prevista la sussistenza di diverse soglie di punibilità tra
le condotte di omessa dichiarazione, infedele dichiarazione e di omesso
versamento dell'imposta, a differenza del previgente regime in materia di IVA
(Sez. 3, n. 52038 dell’11/11/2014, Ferri, Rv. 261520, alla cui diffusa ed
articolata motivazione si rimanda integralmente).
4. Il secondo motivo,
per contro, risulta fondato.
Al riguardo, occorre
premettere che, per l'integrazione della fattispecie quanto alla sussistenza
dell'elemento soggettivo, risulta sufficiente il dolo generico, ossia la
coscienza e volontà di non versare all'Erario le ritenute effettuate nel
periodo considerato (per tutte, Sez. U, n. 37425 del 28/3/21013, Favellato, Rv.
255759). Il debito verso il fisco è, ovviamente, collegato all'erogazione degli
emolumenti ai collaboratori: ogni qualvolta il sostituto d'imposta effettua
tali erogazioni, sorge a suo carico l'obbligo di accantonare le somme dovute
all'Erario, organizzando le risorse disponibili in modo da poter adempiere
all'obbligazione tributaria.
Ciò premesso,
costituisce costante indirizzo di legittimità quello per cui, nel reato in
esame, l'imputato può invocare la assoluta impossibilità di adempiere il debito
di imposta, quale causa di esclusione della responsabilità penale, a condizione
che provveda ad assolvere gli oneri di allegazione concernenti sia il profilo
della non imputabilità a lui medesimo della crisi economica che ha investito
l'azienda, sia l'aspetto della impossibilità di fronteggiare la crisi di
liquidità tramite il ricorso a misure idonee da valutarsi in concreto (Sez. 3,
n. 20266 dell'8/4/2014, Zanchi, Rv. 259190); occorre, cioè, la prova che non
sia stato altrimenti possibile per il contribuente reperire le risorse
necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni
tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche
sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di
recuperare, in presenza di una improvvisa crisi di liquidità, quelle somme
necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause
indipendenti dalla sua volontà e ad egli non imputabili (Sez. 3, n. 5467 del
5/12/2013, Mercutello, Rv. 258055).
Orbene, ritiene la
Corte che la motivazione redatta dal Collegio di merito sul punto sia carente,
non avendo la stessa esaminato plurimi elementi oggetto del gravame, rilevanti
alla luce dell'indirizzo interpretativo appena richiamato.
In particolare, la
sentenza - dopo aver affermato che il V. non aveva «documentato nulla di specifico
in ordine alla situazione finanziaria della società», limitandosi a richiamare
la crisi del settore lapideo e le difficoltà della collegata "F.lli V.C.G.
s.r.l." - ha sostenuto che il mancato versamento delle ritenute era stato
dovuto a «libera strategia imprenditoriale», avendo egli «preferito pagare i
debiti con gli istituti bancari piuttosto che versare le ritenute alla fonte»;
la pronuncia ha quindi richiamato l'investimento per 5,5 milioni di euro,
sottolineando che «la scelta imprenditoriale di accedere al credito in misura
consistente per espandere l'operatività dell'azienda è la fonte della perdita
di esercizio del 2007». La stessa pronuncia, però, ha del tutto omesso l'esame
di altre circostanze sottoposte all'attenzione della Corte, e documentate
nell'atto di gravame, quali - nell'ottica delle genesi della crisi - i motivi
del dissesto patito dalla collegata "F.lli V " ed il ritardo della
determinazione dell'A.S.L. di Massa Carrara quanto alla possibilità di vendere
detriti di marmo, nonché - quanto alle condotte tenute dal ricorrente per farvi
fronte - 1) l'aver il V. impegnato il patrimonio personale costituendo garanzie
reali, 2) l'aver chiesto la rateizzazione dell'importo dovuto (i 69.739 euro di
cui all'imputazione, pari ad 1/3 del debito originario, già estinto per la
residua parte) prima di qualsivoglia accertamento fiscale a suo carico e prima
dell'insorgere del procedimento penale; 3) l'aver dimezzato e poi annullato il
proprio compenso di amministratore.
Elementi, questi
appena richiamati, che la Corte di appello avrebbe dovuto verificare, siccome
proposti e documentati, al fine di accertare la sussistenza dell'elemento
soggettivo del reato, alla luce della giurisprudenza sopra richiamata.
La sentenza, pertanto,
deve essere annullata, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di
Genova.
P.Q.M.
Annulla la sentenza
impugnata e rinvia ad altra sezione della Corte di appello di Genova.
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