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venerdì 26 giugno 2015

Fondazione Studi Cdl - Collaborazioni, associazione in partecipazione e mansioni decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81

Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, Circolare n.13 del 25 giugno 2015

E’ stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 144 del 24 giugno 2015 il decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81 (in seguito "decreto"), in vigore dal 25 giugno 2015, recante la disciplina organica dei contratti di lavoro e la revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014 n. 183.

Le disposizioni innovano su diversi aspetti dei contratti di lavoro e della disciplina delle mansioni di cui al 2103 del codice civile.

Con la presente circolare la Fondazione Studi inizia l’esame tecnico delle norme al fine di fornire ai consulenti del lavoro un primo indirizzo interpretativo concentrando questo primo intervento sulla nuova collaborazioni, delle associazioni in partecipazione e delle mansioni.

La nuove tutele per le collaborazioni
Il decreto prevede (art. 52) che la disciplina del lavoro a progetto (artt. da 61 a 69-bis del d.lgs. 276/2003) resta vigente esclusivamente per la regolazione dei contratti già in atto alla data di entrata in vigore del decreto stesso.

Pertanto, a partire da tale data i nuovi rapporti in questione non dovranno più essere formalizzati come contratti a progetto ma semplicemente come collaborazioni coordinate e continuative ex art. 409 c.p.c. (quindi senza progetto e senza necessità di un termine finale).

Per i contratti a progetto già in essere è consentita la proroga, se funzionale alla realizzazione del progetto, tale da estendere il contratto anche oltre l’entrata in vigore del decreto. In alternativa, si potrà concludere il contratto a progetto in scadenza per poi stipulare, con il medesimo lavoratore, un nuovo contratto di collaborazione coordinata e continuativa come consentito dalle nuove regole.

Il contratto a progetto prorogato o il nuovo contratto di collaborazione effettuato nel corso del 2015, qualora si estendessero oltre il 1 gennaio 2016, dovranno rispettare anche i requisiti indicati nell’art. 2, comma 1 del decreto (oltre a quelli dell’art. 2094 del c.c.), per non incorrere nell’applicazione della disciplina del lavoro subordinato.

Proprio l’art. 2, comma 1, del decreto prevede dal 1° gennaio 2016 l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato per tutte le collaborazioni che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative, e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro (in base alla formulazione della norma, per determinare la riconduzione al lavoro subordinato tali requisiti devono essere tutti presenti).

Dunque al rapporto di collaborazione continuativa si applicherà la disciplina del lavoro subordinato se la prestazione sarà "esclusivamente personale" e se le modalità di esecuzione saranno organizzate dal committente anche con riferimento ai "tempi e al luogo di lavoro".

La nuova disposizione contenuta nell’art. 2, comma 1 del decreto specifica e conferma la nozione di lavoro subordinato contenuta nell’art. 2094 c.c., enucleando gli elementi sintomatici più significativi che marcano la differenza tra le due tipologie negoziali (senza ovviamente intaccare la rilevanza del potere direttivo e di controllo come requisiti essenziali del lavoro subordinato).

I primi due elementi - cioè il carattere esclusivamente personale della prestazione e la sua continuatività - si possono riscontrare in entrambi i contratti, ma la norma sottolinea che la loro presenza è fortemente indicativa della natura subordinata del rapporto.

Più significativo, invece, appare il richiamo alle "modalità di esecuzione" delle prestazioni che nel lavoro autonomo - al di là del naturale coordinamento tra le parti - non possono essere organizzate dal committente specie per quel che concerne i tempi e il luogo di lavoro. Quindi, l’organizzazione dei tempi e del luogo di lavoro che in passato era indice sintomatico della subordinazione, con le nuove disposizioni, se riscontrata, fa scattare le medesime tutele dei lavoratori subordinati.

La nuova tutela stabilita dall’articolo 2 trova applicazione anche alle forme di collaborazione svolte da titolari di partita iva fermo restando le esclusioni di cui si dirà più avanti.

Sul piano della tecnica legislativa, si evidenzia la diversa impostazione che assume il presente decreto rispetto alla precedente riforma Biagi (che il decreto abroga). Infatti, la riforma Biagi ha cercato di intervenire valorizzando le differenti caratteristiche tra il lavoro subordinato e la collaborazione autonoma attraverso l’obbligo di indicare in contratto (e riscontrare in concreto) un risultato specifico che rappresenta una caratteristica essenziale del lavoro autonomo. Mentre, la presente riforma tende a spostare l’indice di valutazione sulle modalità organizzative adottate dall’azienda, attribuendo le medesime tutele previste per i lavoratori subordinati, anche a quelle forme di collaborazione (con o senza partita iva) che per caratteristiche di tempo e di luogo (e quindi per i profili organizzativi) sono sostanzialmente assimilabili al lavoro subordinato.

Pertanto, possono essere ragionevolmente escluse dalla nuova disciplina quelle collaborazioni che per le loro caratteristiche risultano estranee (sotto un profilo sostanziale e non solo formale) alla organizzazione aziendale. Resta fermo che queste ultime collaborazioni autonome per essere considerate legittime devono rispettare anche i tradizionali requisiti previsti dall’art. 2094 del c.c.

Le parti del rapporto potranno richiedere alle commissioni di certificazione (art. 76 d.lgs. n. 276/2003) che venga certificata l’assenza dei requisiti dell’art. 2, comma 1, del decreto ed in particolare la mancata ingerenza sui tempi e sul luogo di lavoro da parte del committente (oltre, eventualmente, al carattere non personale e non continuativo delle prestazioni). In tal caso, scatteranno gli effetti tipici della certificazione, tra i quali l’impossibilità per i terzi (Enti) di contestare direttamente la qualificazione del rapporto (art. 79 e 80 d.lgs. n. 276/2003).

In questo caso, il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante dell'associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un avvocato o da un consulente del lavoro; in questo caso la norma conferma l’affidabilità dalla categoria dei consulenti del lavoro nel ruolo di terzietà.

Le esclusioni
La riconduzione al lavoro subordinato della collaborazione "organizzata" è esclusa soltanto in quattro ipotesi (art. 2, comma 2, del decreto):

a) le collaborazioni per le quali gli accordi collettivi nazionali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale prevedono discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo, in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore. Questa disposizione sembra assumere anche carattere ricognitivo qualora siano già presenti contratti collettivi che abbiano le caratteristiche richieste dalla disposizione;

b) le collaborazioni prestate nell’esercizio di professioni intellettuali per le quali è necessaria l'iscrizione in appositi albi professionali(dunque le professioni ordinistiche);

c) le attività prestate nell’esercizio della loro funzione dai componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società e dai partecipanti a collegi e commissioni;

d) le prestazioni di lavoro rese a fini istituzionali in favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate alle federazioni sportive nazionali, alle discipline sportive associate e agli enti di promozione sportiva riconosciuti dal C.O.N.I. come individuati e disciplinati dall’articolo 90 della legge 27 dicembre 2002, n. 289.

Inoltre, fino al 1° gennaio 2017 - ed in attesa del riordino della disciplina del lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione - la riconduzione al lavoro subordinato prevista dall’art. 2, comma 1, del decreto non troverà applicazione nei confronti delle pubbliche amministrazioni; fino a quella data, pertanto, le amministrazioni potranno continuare a stipulare collaborazioni coordinate e continuative secondo le norme o disposizioni di prassi vigenti (che non prevedono l’applicazione della disciplina del lavoro a progetto). Dal 1° gennaio 2017, invece, sarà fatto divieto alle pubbliche amministrazioni di stipulare i contratti di collaborazione di cui all’articolo 2, comma 1, del decreto, il che imporrà alle stesse amministrazioni di mettere al bando ogni forma di collaborazione non caratterizzata da modalità realmente autonome delle prestazioni di lavoro (anche per evitare la responsabilità dei dirigenti pubblici che le hanno autorizzate).

La norma di stabilizzazione
Ai sensi dell’art. 54 del decreto, a decorrere dal 1° gennaio 2016 i datori di lavoro privati che procedono alla assunzione con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato di soggetti già parti di contratti di collaborazione anche a progetto o di soggetti titolari di partita IVA con cui abbiano intrattenuto rapporti di lavoro autonomo, godono di un beneficio consistente nella estinzione degli illeciti amministrativi, contributivi e fiscali connessi alla eventuale erronea qualificazione del rapporto di lavoro, fatti salvi gli illeciti accertati a seguito di accessi ispettivi effettuati in data antecedente alla assunzione.

Tuttavia, il datore di lavoro può godere di tale beneficio a condizione:

a) che i lavoratori interessati alle assunzioni sottoscrivano, con riferimento a tutte le possibili pretese riguardanti la qualificazione del pregresso rapporto di lavoro, atti di conciliazione in una delle sedi di cui all’articolo 2113, comma 4, del codice civile, o avanti alle commissioni di certificazione;

b) che nei dodici mesi successivi alle assunzioni lo stesso datore non receda dal rapporto di lavoro, salvo che per giusta causa ovvero per giustificato motivo soggettivo(quindi, non è consentito nei 12 mesi successivi l’assunzione il recesso per motivi economici).

Pertanto, la "stabilizzazione" delle collaborazioni autonome o delle c.d. partite IVA comporta per il datore di lavoro la sanatoria (estinzione) di tutti gli illeciti amministrativi, contributivi e fiscali che potrebbero derivare dalla erronea qualificazione dei rapporti in questione. Tale sanatoria opera se il lavoratore sottoscrive un verbale di conciliazione in sede assistita avente ad oggetto ogni possibile pretesa afferente alla qualificazione del rapporto (comprese, quindi, le rivendicazioni relative alla cessazione del rapporto), e se il datore non effettua un licenziamento, salvo che per motivi disciplinari. Verificatesi queste condizioni, l’azienda rimane tutelata sia nei confronti degli Enti che del contenzioso azionabile dai singoli dipendenti.

Il superamento dell’associazione in partecipazione con apporto di lavoro
L’art. 53 del decreto ha innovato la nozione di associazione in partecipazione modificando il secondo comma dell’art. 2549 c.c., e stabilendo che se l’associato è una persona fisica il suo apporto "non può consistere, nemmeno in parte, in una prestazione di lavoro". Dunque in base alla nuova disciplina sono vietati i contratti di associazione in partecipazione nei quali l’apporto dell’associato persona fisica consiste, in tutto o in parte, in una prestazione di lavoro, mentre quelli già in essere rimangono in vigore "fino alla loro cessazione".

Come è noto, il contratto in esame permette ad un soggetto imprenditore, c.d. associante, di usufruire dell’apporto di un c.d. associato verso il corrispettivo di una partecipazione di quest’ultimo agli utili dell’impresa o di uno o più affari. Per effetto del vincolo associativo che si instaura fra associante ed associato, quest’ultimo partecipa al rischio dell’attività d’impresa nei limiti del proprio apporto e perciò, salvo patto contrario, risponde anche delle perdite, sebbene entro il valore dell’apporto conferito.

Inoltre, secondo l’interpretazione sinora dominante l’apporto dell’associato poteva essere di varia natura, sia patrimoniale che personale, e consistere anche in una prestazione di lavoro, mentre ora tale possibilità viene espressamente esclusa dal legislatore.

L’art. 53 del decreto, oltre a modificare il comma 2 dell’art. 2549 c.c., ha abrogato il comma 3 della norma che si occupava sempre della regolamentazione del contratto di associazione in partecipazione con apporto di lavoro. In particolare, il comma 2 dell’art. 2549 c.c. disponeva che in caso di apporto di prestazione lavorativa il numero degli associati non potesse essere superiore a 3 (salvo che essi fossero legati all’associante da rapporti coniugali, di parentela o di affinità). La violazione della disposizione in esame prevedeva quale conseguenza la trasformazione di tutti i rapporti di associazione in partecipazione in lavoro subordinato a tempo indeterminato. Il comma 3 dell’art. 2549 c.c. escludeva invece l’applicabilità della disciplina dell’associazione in partecipazione con apporto di lavoro in alcuni specifici ambiti (imprese a scopo mutualistico e rapporti tra produttori e artisti).

L’art. 55 del decreto ha poi abrogato anche l’art. 1, comma 30, della l. n. 92/2012. La norma prevedeva che i rapporti di associazione in partecipazione con apporto di lavoro instaurati o attuati senza che vi fosse un'effettiva partecipazione dell'associato agli utili dell'impresa o dell'affare, ovvero senza consegna del rendiconto previsto dall'articolo 2552 del codice civile, si presumevano, salva prova contraria, rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato. La predetta presunzione si applicava, altresì, qualora l'apporto di lavoro non presentasse i requisiti di cui all'articolo 69-bis, comma 2, lettera a), del D.lgs. n. 276/2003 (disciplina anch’essa ormai abrogata).

Come detto, infine, l’art. 53 comma 2 del decreto ha stabilito che i contratti di associazione in partecipazione con apporto di lavoro già in essere rimangono in corso fino alla loro cessazione.

In considerazione del fatto che la norma fa riferimento alle "persone fisiche", continuano ad avere efficacia le associazioni in partecipazione con apporto di lavoro laddove l’associato è rappresentato da un soggetto societario.

La nuova disciplina delle mansioni
La disciplina delle mansioni è stata rivoluzionata dall’art. 3 del decreto, che ha modificato in modo sostanziale l’art. 2103 del codice civile.

Come è noto, tale disposizione prevedeva che il prestatore di lavoro dovesse essere adibito alle mansioni per le quali era stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore successivamente acquisita ovvero alle mansioni "equivalenti alle ultime effettivamente svolte". Inoltre, nel caso di assegnazione a mansioni superiori per il periodo indicato dai contratti collettivi (in ogni caso non superiore a 3 mesi) il lavoratore aveva diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta e l’assegnazione diveniva definitiva, tranne che nell’ipotesi di sostituzione di un lavoratore con diritto alla conservazione del posto.

Nello specifico, la giurisprudenza in passato con riferimento all’art. 2113 c.c. è giunta ad affermare che "il divieto di modificazione in peius opera anche quando al lavoratore, nella formale equivalenza delle precedenti e delle nuove mansioni, siano assegnate di fatto mansioni sostanzialmente inferiori sicché nell'indagine circa tale equivalenza non è sufficiente il riferimento in astratto al livello di categoria ma è necessario accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente, salvaguardandone il livello professionale acquisito e garantendo lo svolgimento e l'accrescimento delle sue capacità professionali" (Cassazione, sez. lav., sent. n. 13281 del 31.5.2010). Pertanto, la giurisprudenza non si accontentava di una semplice indagine circa l’equivalenza formale delle mansioni muovendo da una valorizzazione sostanziale del concetto in esame, giungeva a valutare anche il corredo professionale del dipendente, rilevando l’illegittimità della modifica delle mansioni tutte quelle volte in cui il datore di lavoro impegnava il dipendente in attività che, pur essendo in astratto ascrivibili al livello di inquadramento delineato dal contratto collettivo, di fatto erano idonee a compromettere la professionalità acquisita, nonché lo svolgimento e l'accrescimento delle capacità professionali del dipendente (Cfr. Cassazione, sez. lav., sent. n. 4989 del 4.3.2014).

Il nuovo art. 2013 c.c. ha stabilito, invece, che il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito, "ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte".

Pertanto, il concetto di equivalenza professionale - che prima era riferito al patrimonio professionale del dipendente, a prescindere dal livello contrattuale e legale di inquadramento - ora è invece rimesso proprio alla disciplina del contratto collettivo, essendo consentito il mutamento delle mansioni del lavoratore tra quelle indicate nello stesso livello di inquadramento del CCNL.

Il decreto ha inoltre previsto la possibilità di modificare le mansioni del lavoratore anche in pejus, innovando totalmente la materia. Infatti, il comma 2 del nuovo art. 2103 c.c. stabilisce che in caso di "modifica degli assetti organizzativi aziendali" che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale (il mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dall’assolvimento dell’obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina comunque la nullità del demansionamento).

Quanto riportato costituisce senz’altro una delle innovazioni più interessanti del nuovo testo normativo, in quanto, il legislatore attribuisce al datore di lavoro un potere esercitabile in modo unilaterale, prescindendo quindi dal consenso del lavoratore.

Ovviamente, tale facoltà è strettamente ancorata alla sussistenza delle modifiche agli assetti organizzativi destinate ad incidere sulla posizione del dipendente, non essendo possibile modificare unilateralmente e in modo peggiorativo le mansioni del lavoratore in assenza di tali presupposti.

Con specifico riferimento al presupposto delle variazione degli assetti organizzativi, sembra possibile sostenere, mutuando un orientamento relativo al licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, che quest’ultimo sarà considerato sussistente ad esempio quando la variazione venga realizzata con lo scopo di una più economica gestione dell’impresa, e "decisa dall'imprenditore non semplicemente per un incremento del profitto, ma per far fronte a sfavorevoli situazioni, non meramente contingenti, influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva ed imponenti un'effettiva necessità di riduzione dei costi" (Cassazione, sez. lav., sent. n. 23222 del 17.10.2010).

Dal tenore letterale della norma, si evince che il demansionamento può riguardare soltanto le mansioni relative al livello di inquadramento immediatamente inferiore rispetto a quello in cui è collocato il dipendente, e comunque sempre se ciò non comporti la retrocessione in una categoria legale inferiore a quella di appartenenza ex art. 2095 c.c. (operai e impiegati; quadri, dirigenti).

È prevista altresì la facoltà per i "contratti collettivi" di indicare ulteriori ipotesi in cui possono essere assegnate mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, sempre mantenendo la medesima categoria legale. Si tratta di ipotesi che si aggiungono a quelle legali che in nessun caso la contrattazione collettiva potrà sostituire.

Per contratti collettivi si deve intendere, ai sensi dell’art. 51 dello stesso decreto, i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, nonché i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria.

In ogni caso, il legislatore ha previsto che il mutamento di mansioni in pejus debba essere comunicato per iscritto e che "il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa". Pertanto, il lavoratore assegnato a mansioni inferiori non avrà diritto a ricevere gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa. Ne consegue, quindi che il c.d. principio di irriducibilità della retribuzione non interesserà quelle indennità:

1) volte a compensare l'esposizione del lavoratore ad un certo rischio (Cass. n. 11021/2000);

2) relative al maggior disagio connesso allo svolgimento delle prestazioni lavorative in particolare circostanze di modo, di tempo e di luogo (Cass. n. 5721/1999);

Di norma vengono considerate indennità estrinseche l’indennità di maneggio denaro, l’indennità di disagiata residenza, etc.

In conclusione, quindi, a seguito della variazione disposta unilateralmente dal datore di lavoro (anche in peius nei casi consentiti), il lavoratore conserverà in ogni caso il livello di inquadramento in godimento al momento dell’assegnazione delle nuove mansioni nonché la relativa retribuzione, salvo le eccezioni precedentemente individuate.

Il decreto ha stabilito, inoltre, che nelle sedi di cui all’art. 2113 c.c., quarto comma, o avanti alle commissioni di certificazione, possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale, del livello di inquadramento e della retribuzione. Dunque gli accordi in questione - a differenza del demansionamento unilaterale autorizzato dal nuovo art. 2013 c.c. - consentono la riduzione del livello di inquadramento e della retribuzione del lavoratore; affinché siano validi, però, essi devono essere stipulati nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita. Il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un avvocato o da un consulente del lavoro.

Anche in questo caso, il lavoratore può farsi assistere da un consulente del lavoro a conferma dell’affidabilità dalla categoria dei consulenti del lavoro nel ruolo di terzietà.

Fatte salve le ipotesi di demansionamento lecito - come detto previste dall’art. 2103 c.c. in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali (comma 2), di previsione contrattuale collettiva (comma 4), o di accordo stipulato in sede assistita (comma 6) - la norma ripropone al nono comma il vecchio principio di inderogabilità secondo cui "ogni patto contrario è nullo". Pertanto, in mancanza delle condizioni di legge o di contratto collettivo, il consenso del lavoratore al demansionamento non è sufficiente a dare validità al relativo patto, che sarà nullo con la possibilità per lo stesso lavoratore di chiedere l’adibizione alle mansioni precedenti, le differenze retributive e l’eventuale risarcimento del danno.

Nel caso di assegnazione del lavoratore a mansioni superiori il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta e tale assegnazione diviene definitiva, salva diversa volontà del lavoratore, dopo il periodo fissato dai contratti collettivi o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi (sempre se non vi è stata la sostituzione di un lavoratore assente).

La norma - come in passato - rimette ai contratti collettivi la determinazione del periodo necessario per acquisire la promozione automatica, ma in mancanza di disciplina convenzionale il termine legale è passato da tre a sei mesi. I mesi in questione vengono espressamente definiti "continuativi", il che però non sembra precludere la possibilità di sommare anche periodi non continuativi ove il frazionamento sia in frode alla legge (art. 1344 c.c.) in quanto volto ad impedire la maturazione del diritto alla promozione da parte del dipendente.

Infine, il comma 2 dell’art. 3 del decreto ha abrogato l’art. 6 della l. n. 190 del 1985, relativo alla categoria dei c.d. quadri intermedi. Tale norma prevedeva che "In deroga a quanto previsto dal primo comma dell'articolo 2103 del codice civile, come modificato dall'articolo 13 della legge 20 maggio 1970, n. 300, l'assegnazione del lavoratore alle mansioni superiori di cui all'articolo 2 della presente legge ovvero a mansioni dirigenziali, che non sia avvenuta in sostituzione di lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto, diviene definitiva quando si sia protratta per il periodo di tre mesi o per quello superiore fissato dai contratti collettivi".

Ormai, quindi, la disciplina delle mansioni dei quadri intermedi è ricondotta interamente nell’ambito del nuovo articolo 2103 del codice civile.

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