E’
stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 144 del 24 giugno 2015 il decreto
legislativo 15 giugno 2015, n. 81 (in seguito "decreto"), in vigore
dal 25 giugno 2015, recante la disciplina organica dei contratti di lavoro e la
revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma
7, della legge 10 dicembre 2014 n. 183.
Le
disposizioni innovano su diversi aspetti dei contratti di lavoro e della
disciplina delle mansioni di cui al 2103 del codice civile.
Con
la presente circolare la Fondazione Studi inizia l’esame tecnico delle norme al
fine di fornire ai consulenti del lavoro un primo indirizzo interpretativo
concentrando questo primo intervento sulla nuova collaborazioni, delle
associazioni in partecipazione e delle mansioni.
La nuove tutele
per le collaborazioni
Il
decreto prevede (art. 52) che la disciplina del lavoro a progetto (artt. da 61
a 69-bis del d.lgs. 276/2003) resta vigente esclusivamente per la regolazione
dei contratti già in atto alla data di entrata in vigore del decreto stesso.
Pertanto,
a partire da tale data i nuovi rapporti in questione non dovranno più essere
formalizzati come contratti a progetto ma semplicemente come collaborazioni
coordinate e continuative ex art. 409 c.p.c. (quindi senza progetto e senza
necessità di un termine finale).
Per
i contratti a progetto già in essere è consentita la proroga, se funzionale
alla realizzazione del progetto, tale da estendere il contratto anche oltre
l’entrata in vigore del decreto. In alternativa, si potrà concludere il
contratto a progetto in scadenza per poi stipulare, con il medesimo lavoratore,
un nuovo contratto di collaborazione coordinata e continuativa come consentito
dalle nuove regole.
Il
contratto a progetto prorogato o il nuovo contratto di collaborazione
effettuato nel corso del 2015, qualora si estendessero oltre il 1 gennaio 2016,
dovranno rispettare anche i requisiti indicati nell’art. 2, comma 1 del decreto
(oltre a quelli dell’art. 2094 del c.c.), per non incorrere nell’applicazione
della disciplina del lavoro subordinato.
Proprio
l’art. 2, comma 1, del decreto prevede dal 1° gennaio 2016 l’applicazione della
disciplina del lavoro subordinato per tutte le collaborazioni che si concretano
in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative, e le cui
modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai
tempi e al luogo di lavoro (in base alla formulazione della norma, per
determinare la riconduzione al lavoro subordinato tali requisiti devono essere
tutti presenti).
Dunque
al rapporto di collaborazione continuativa si applicherà la disciplina del lavoro
subordinato se la prestazione sarà "esclusivamente personale" e se le
modalità di esecuzione saranno organizzate dal committente anche con
riferimento ai "tempi e al luogo di lavoro".
La
nuova disposizione contenuta nell’art. 2, comma 1 del decreto specifica e
conferma la nozione di lavoro subordinato contenuta nell’art. 2094 c.c.,
enucleando gli elementi sintomatici più significativi che marcano la differenza
tra le due tipologie negoziali (senza ovviamente intaccare la rilevanza del
potere direttivo e di controllo come requisiti essenziali del lavoro
subordinato).
I
primi due elementi - cioè il carattere esclusivamente personale della
prestazione e la sua continuatività - si possono riscontrare in entrambi i
contratti, ma la norma sottolinea che la loro presenza è fortemente indicativa
della natura subordinata del rapporto.
Più
significativo, invece, appare il richiamo alle "modalità di
esecuzione" delle prestazioni che nel lavoro autonomo - al di là del
naturale coordinamento tra le parti - non possono essere organizzate dal
committente specie per quel che concerne i tempi e il luogo di lavoro. Quindi,
l’organizzazione dei tempi e del luogo di lavoro che in passato era indice
sintomatico della subordinazione, con le nuove disposizioni, se riscontrata, fa
scattare le medesime tutele dei lavoratori subordinati.
La
nuova tutela stabilita dall’articolo 2 trova applicazione anche alle forme di
collaborazione svolte da titolari di partita iva fermo restando le esclusioni
di cui si dirà più avanti.
Sul
piano della tecnica legislativa, si evidenzia la diversa impostazione che
assume il presente decreto rispetto alla precedente riforma Biagi (che il
decreto abroga). Infatti, la riforma Biagi ha cercato di intervenire
valorizzando le differenti caratteristiche tra il lavoro subordinato e la
collaborazione autonoma attraverso l’obbligo di indicare in contratto (e
riscontrare in concreto) un risultato specifico che rappresenta una
caratteristica essenziale del lavoro autonomo. Mentre, la presente riforma tende
a spostare l’indice di valutazione sulle modalità organizzative adottate
dall’azienda, attribuendo le medesime tutele previste per i lavoratori
subordinati, anche a quelle forme di collaborazione (con o senza partita iva)
che per caratteristiche di tempo e di luogo (e quindi per i profili
organizzativi) sono sostanzialmente assimilabili al lavoro subordinato.
Pertanto,
possono essere ragionevolmente escluse dalla nuova disciplina quelle
collaborazioni che per le loro caratteristiche risultano estranee (sotto un
profilo sostanziale e non solo formale) alla organizzazione aziendale. Resta
fermo che queste ultime collaborazioni autonome per essere considerate
legittime devono rispettare anche i tradizionali requisiti previsti dall’art.
2094 del c.c.
Le
parti del rapporto potranno richiedere alle commissioni di certificazione (art.
76 d.lgs. n. 276/2003) che venga certificata l’assenza dei requisiti dell’art.
2, comma 1, del decreto ed in particolare la mancata ingerenza sui tempi e sul
luogo di lavoro da parte del committente (oltre, eventualmente, al carattere
non personale e non continuativo delle prestazioni). In tal caso, scatteranno
gli effetti tipici della certificazione, tra i quali l’impossibilità per i
terzi (Enti) di contestare direttamente la qualificazione del rapporto (art. 79
e 80 d.lgs. n. 276/2003).
In
questo caso, il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante
dell'associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un avvocato
o da un consulente del lavoro; in questo caso la norma conferma l’affidabilità
dalla categoria dei consulenti del lavoro nel ruolo di terzietà.
Le esclusioni
La
riconduzione al lavoro subordinato della collaborazione "organizzata"
è esclusa soltanto in quattro ipotesi (art. 2, comma 2, del decreto):
a)
le collaborazioni per le quali gli accordi collettivi nazionali stipulati da
associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale
prevedono discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e
normativo, in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative
del relativo settore. Questa disposizione sembra assumere anche carattere
ricognitivo qualora siano già presenti contratti collettivi che abbiano le
caratteristiche richieste dalla disposizione;
b)
le collaborazioni prestate nell’esercizio di professioni intellettuali per le
quali è necessaria l'iscrizione in appositi albi professionali(dunque le
professioni ordinistiche);
c)
le attività prestate nell’esercizio della loro funzione dai componenti degli organi
di amministrazione e controllo delle società e dai partecipanti a collegi e
commissioni;
d)
le prestazioni di lavoro rese a fini istituzionali in favore delle associazioni
e società sportive dilettantistiche affiliate alle federazioni sportive nazionali,
alle discipline sportive associate e agli enti di promozione sportiva
riconosciuti dal C.O.N.I. come individuati e disciplinati dall’articolo 90
della legge 27 dicembre 2002, n. 289.
Inoltre,
fino al 1° gennaio 2017 - ed in attesa del riordino della disciplina del lavoro
alle dipendenze della pubblica amministrazione - la riconduzione al lavoro
subordinato prevista dall’art. 2, comma 1, del decreto non troverà applicazione
nei confronti delle pubbliche amministrazioni; fino a quella data, pertanto, le
amministrazioni potranno continuare a stipulare collaborazioni coordinate e
continuative secondo le norme o disposizioni di prassi vigenti (che non
prevedono l’applicazione della disciplina del lavoro a progetto). Dal 1°
gennaio 2017, invece, sarà fatto divieto alle pubbliche amministrazioni di
stipulare i contratti di collaborazione di cui all’articolo 2, comma 1, del
decreto, il che imporrà alle stesse amministrazioni di mettere al bando ogni
forma di collaborazione non caratterizzata da modalità realmente autonome delle
prestazioni di lavoro (anche per evitare la responsabilità dei dirigenti
pubblici che le hanno autorizzate).
La norma di
stabilizzazione
Ai
sensi dell’art. 54 del decreto, a decorrere dal 1° gennaio 2016 i datori di
lavoro privati che procedono alla assunzione con contratto di lavoro
subordinato a tempo indeterminato di soggetti già parti di contratti di
collaborazione anche a progetto o di soggetti titolari di partita IVA con cui
abbiano intrattenuto rapporti di lavoro autonomo, godono di un beneficio
consistente nella estinzione degli illeciti amministrativi, contributivi e
fiscali connessi alla eventuale erronea qualificazione del rapporto di lavoro,
fatti salvi gli illeciti accertati a seguito di accessi ispettivi effettuati in
data antecedente alla assunzione.
Tuttavia,
il datore di lavoro può godere di tale beneficio a condizione:
a)
che i lavoratori interessati alle assunzioni sottoscrivano, con riferimento a
tutte le possibili pretese riguardanti la qualificazione del pregresso rapporto
di lavoro, atti di conciliazione in una delle sedi di cui all’articolo 2113,
comma 4, del codice civile, o avanti alle commissioni di certificazione;
b)
che nei dodici mesi successivi alle assunzioni lo stesso datore non receda dal
rapporto di lavoro, salvo che per giusta causa ovvero per giustificato motivo
soggettivo(quindi, non è consentito nei 12 mesi successivi l’assunzione il
recesso per motivi economici).
Pertanto,
la "stabilizzazione" delle collaborazioni autonome o delle c.d. partite
IVA comporta per il datore di lavoro la sanatoria (estinzione) di tutti gli
illeciti amministrativi, contributivi e fiscali che potrebbero derivare dalla
erronea qualificazione dei rapporti in questione. Tale sanatoria opera se il
lavoratore sottoscrive un verbale di conciliazione in sede assistita avente ad
oggetto ogni possibile pretesa afferente alla qualificazione del rapporto
(comprese, quindi, le rivendicazioni relative alla cessazione del rapporto), e
se il datore non effettua un licenziamento, salvo che per motivi disciplinari.
Verificatesi queste condizioni, l’azienda rimane tutelata sia nei confronti
degli Enti che del contenzioso azionabile dai singoli dipendenti.
Il superamento
dell’associazione in partecipazione con apporto di lavoro
L’art.
53 del decreto ha innovato la nozione di associazione in partecipazione
modificando il secondo comma dell’art. 2549 c.c., e stabilendo che se
l’associato è una persona fisica il suo apporto "non può consistere,
nemmeno in parte, in una prestazione di lavoro". Dunque in base alla nuova
disciplina sono vietati i contratti di associazione in partecipazione nei quali
l’apporto dell’associato persona fisica consiste, in tutto o in parte, in una
prestazione di lavoro, mentre quelli già in essere rimangono in vigore
"fino alla loro cessazione".
Come
è noto, il contratto in esame permette ad un soggetto imprenditore, c.d.
associante, di usufruire dell’apporto di un c.d. associato verso il
corrispettivo di una partecipazione di quest’ultimo agli utili dell’impresa o
di uno o più affari. Per effetto del vincolo associativo che si instaura fra
associante ed associato, quest’ultimo partecipa al rischio dell’attività
d’impresa nei limiti del proprio apporto e perciò, salvo patto contrario,
risponde anche delle perdite, sebbene entro il valore dell’apporto conferito.
Inoltre,
secondo l’interpretazione sinora dominante l’apporto dell’associato poteva
essere di varia natura, sia patrimoniale che personale, e consistere anche in
una prestazione di lavoro, mentre ora tale possibilità viene espressamente
esclusa dal legislatore.
L’art.
53 del decreto, oltre a modificare il comma 2 dell’art. 2549 c.c., ha abrogato
il comma 3 della norma che si occupava sempre della regolamentazione del
contratto di associazione in partecipazione con apporto di lavoro. In
particolare, il comma 2 dell’art. 2549 c.c. disponeva che in caso di apporto di
prestazione lavorativa il numero degli associati non potesse essere superiore a
3 (salvo che essi fossero legati all’associante da rapporti coniugali, di
parentela o di affinità). La violazione della disposizione in esame prevedeva
quale conseguenza la trasformazione di tutti i rapporti di associazione in
partecipazione in lavoro subordinato a tempo indeterminato. Il comma 3
dell’art. 2549 c.c. escludeva invece l’applicabilità della disciplina
dell’associazione in partecipazione con apporto di lavoro in alcuni specifici
ambiti (imprese a scopo mutualistico e rapporti tra produttori e artisti).
L’art.
55 del decreto ha poi abrogato anche l’art. 1, comma 30, della l. n. 92/2012.
La norma prevedeva che i rapporti di associazione in partecipazione con apporto
di lavoro instaurati o attuati senza che vi fosse un'effettiva partecipazione
dell'associato agli utili dell'impresa o dell'affare, ovvero senza consegna del
rendiconto previsto dall'articolo 2552 del codice civile, si presumevano, salva
prova contraria, rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato. La
predetta presunzione si applicava, altresì, qualora l'apporto di lavoro non
presentasse i requisiti di cui all'articolo 69-bis, comma 2, lettera a), del
D.lgs. n. 276/2003 (disciplina anch’essa ormai abrogata).
Come
detto, infine, l’art. 53 comma 2 del decreto ha stabilito che i contratti di
associazione in partecipazione con apporto di lavoro già in essere rimangono in
corso fino alla loro cessazione.
In
considerazione del fatto che la norma fa riferimento alle "persone
fisiche", continuano ad avere efficacia le associazioni in partecipazione
con apporto di lavoro laddove l’associato è rappresentato da un soggetto
societario.
La nuova
disciplina delle mansioni
La
disciplina delle mansioni è stata rivoluzionata dall’art. 3 del decreto, che ha
modificato in modo sostanziale l’art. 2103 del codice civile.
Come
è noto, tale disposizione prevedeva che il prestatore di lavoro dovesse essere
adibito alle mansioni per le quali era stato assunto o a quelle corrispondenti
alla categoria superiore successivamente acquisita ovvero alle mansioni
"equivalenti alle ultime effettivamente svolte". Inoltre, nel caso di
assegnazione a mansioni superiori per il periodo indicato dai contratti
collettivi (in ogni caso non superiore a 3 mesi) il lavoratore aveva diritto al
trattamento corrispondente all’attività svolta e l’assegnazione diveniva
definitiva, tranne che nell’ipotesi di sostituzione di un lavoratore con
diritto alla conservazione del posto.
Nello
specifico, la giurisprudenza in passato con riferimento all’art. 2113 c.c. è
giunta ad affermare che "il divieto di modificazione in peius opera anche quando
al lavoratore, nella formale equivalenza delle precedenti e delle nuove
mansioni, siano assegnate di fatto mansioni sostanzialmente inferiori sicché
nell'indagine circa tale equivalenza non è sufficiente il riferimento in
astratto al livello di categoria ma è necessario accertare che le nuove
mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente,
salvaguardandone il livello professionale acquisito e garantendo lo svolgimento
e l'accrescimento delle sue capacità professionali" (Cassazione, sez.
lav., sent. n. 13281 del 31.5.2010). Pertanto, la giurisprudenza non si
accontentava di una semplice indagine circa l’equivalenza formale delle
mansioni muovendo da una valorizzazione sostanziale del concetto in esame,
giungeva a valutare anche il corredo professionale del dipendente, rilevando
l’illegittimità della modifica delle mansioni tutte quelle volte in cui il
datore di lavoro impegnava il dipendente in attività che, pur essendo in
astratto ascrivibili al livello di inquadramento delineato dal contratto
collettivo, di fatto erano idonee a compromettere la professionalità acquisita,
nonché lo svolgimento e l'accrescimento delle capacità professionali del
dipendente (Cfr. Cassazione, sez. lav., sent. n. 4989 del 4.3.2014).
Il
nuovo art. 2013 c.c. ha stabilito, invece, che il lavoratore deve essere
adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti
all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito, "ovvero a
mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento
delle ultime effettivamente svolte".
Pertanto,
il concetto di equivalenza professionale - che prima era riferito al patrimonio
professionale del dipendente, a prescindere dal livello contrattuale e legale
di inquadramento - ora è invece rimesso proprio alla disciplina del contratto
collettivo, essendo consentito il mutamento delle mansioni del lavoratore tra
quelle indicate nello stesso livello di inquadramento del CCNL.
Il
decreto ha inoltre previsto la possibilità di modificare le mansioni del
lavoratore anche in pejus, innovando totalmente la materia. Infatti, il comma 2
del nuovo art. 2103 c.c. stabilisce che in caso di "modifica degli assetti
organizzativi aziendali" che incide sulla posizione del lavoratore, lo
stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento
inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale (il mutamento di
mansioni è accompagnato, ove necessario, dall’assolvimento dell’obbligo
formativo, il cui mancato adempimento non determina comunque la nullità del
demansionamento).
Quanto
riportato costituisce senz’altro una delle innovazioni più interessanti del
nuovo testo normativo, in quanto, il legislatore attribuisce al datore di
lavoro un potere esercitabile in modo unilaterale, prescindendo quindi dal
consenso del lavoratore.
Ovviamente,
tale facoltà è strettamente ancorata alla sussistenza delle modifiche agli
assetti organizzativi destinate ad incidere sulla posizione del dipendente, non
essendo possibile modificare unilateralmente e in modo peggiorativo le mansioni
del lavoratore in assenza di tali presupposti.
Con
specifico riferimento al presupposto delle variazione degli assetti
organizzativi, sembra possibile sostenere, mutuando un orientamento relativo al
licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, che quest’ultimo
sarà considerato sussistente ad esempio quando la variazione venga realizzata
con lo scopo di una più economica gestione dell’impresa, e "decisa
dall'imprenditore non semplicemente per un incremento del profitto, ma per far
fronte a sfavorevoli situazioni, non meramente contingenti, influenti in modo
decisivo sulla normale attività produttiva ed imponenti un'effettiva necessità
di riduzione dei costi" (Cassazione, sez. lav., sent. n. 23222 del
17.10.2010).
Dal
tenore letterale della norma, si evince che il demansionamento può riguardare
soltanto le mansioni relative al livello di inquadramento immediatamente
inferiore rispetto a quello in cui è collocato il dipendente, e comunque sempre
se ciò non comporti la retrocessione in una categoria legale inferiore a quella
di appartenenza ex art. 2095 c.c. (operai e impiegati; quadri, dirigenti).
È
prevista altresì la facoltà per i "contratti collettivi" di indicare
ulteriori ipotesi in cui possono essere assegnate mansioni appartenenti al
livello di inquadramento inferiore, sempre mantenendo la medesima categoria
legale. Si tratta di ipotesi che si aggiungono a quelle legali che in nessun
caso la contrattazione collettiva potrà sostituire.
Per
contratti collettivi si deve intendere, ai sensi dell’art. 51 dello stesso
decreto, i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati
da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano
nazionale, nonché i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro
rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale
unitaria.
In
ogni caso, il legislatore ha previsto che il mutamento di mansioni in pejus
debba essere comunicato per iscritto e che "il lavoratore ha diritto alla
conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in
godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari
modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa". Pertanto,
il lavoratore assegnato a mansioni inferiori non avrà diritto a ricevere gli
elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della
precedente prestazione lavorativa. Ne consegue, quindi che il c.d. principio di
irriducibilità della retribuzione non interesserà quelle indennità:
1)
volte a compensare l'esposizione del lavoratore ad un certo rischio (Cass. n.
11021/2000);
2)
relative al maggior disagio connesso allo svolgimento delle prestazioni
lavorative in particolare circostanze di modo, di tempo e di luogo (Cass. n.
5721/1999);
Di
norma vengono considerate indennità estrinseche l’indennità di maneggio denaro,
l’indennità di disagiata residenza, etc.
In
conclusione, quindi, a seguito della variazione disposta unilateralmente dal
datore di lavoro (anche in peius nei casi consentiti), il lavoratore conserverà
in ogni caso il livello di inquadramento in godimento al momento
dell’assegnazione delle nuove mansioni nonché la relativa retribuzione, salvo
le eccezioni precedentemente individuate.
Il
decreto ha stabilito, inoltre, che nelle sedi di cui all’art. 2113 c.c., quarto
comma, o avanti alle commissioni di certificazione, possono essere stipulati
accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale, del
livello di inquadramento e della retribuzione. Dunque gli accordi in questione
- a differenza del demansionamento unilaterale autorizzato dal nuovo art. 2013
c.c. - consentono la riduzione del livello di inquadramento e della
retribuzione del lavoratore; affinché siano validi, però, essi devono essere
stipulati nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione,
all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle
condizioni di vita. Il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante
dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un avvocato
o da un consulente del lavoro.
Anche
in questo caso, il lavoratore può farsi assistere da un consulente del lavoro a
conferma dell’affidabilità dalla categoria dei consulenti del lavoro nel ruolo
di terzietà.
Fatte
salve le ipotesi di demansionamento lecito - come detto previste dall’art. 2103
c.c. in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali (comma 2), di
previsione contrattuale collettiva (comma 4), o di accordo stipulato in sede
assistita (comma 6) - la norma ripropone al nono comma il vecchio principio di
inderogabilità secondo cui "ogni patto contrario è nullo". Pertanto,
in mancanza delle condizioni di legge o di contratto collettivo, il consenso
del lavoratore al demansionamento non è sufficiente a dare validità al relativo
patto, che sarà nullo con la possibilità per lo stesso lavoratore di chiedere
l’adibizione alle mansioni precedenti, le differenze retributive e l’eventuale
risarcimento del danno.
Nel
caso di assegnazione del lavoratore a mansioni superiori il lavoratore ha
diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta e tale assegnazione
diviene definitiva, salva diversa volontà del lavoratore, dopo il periodo
fissato dai contratti collettivi o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi
(sempre se non vi è stata la sostituzione di un lavoratore assente).
La
norma - come in passato - rimette ai contratti collettivi la determinazione del
periodo necessario per acquisire la promozione automatica, ma in mancanza di
disciplina convenzionale il termine legale è passato da tre a sei mesi. I mesi
in questione vengono espressamente definiti "continuativi", il che
però non sembra precludere la possibilità di sommare anche periodi non continuativi
ove il frazionamento sia in frode alla legge (art. 1344 c.c.) in quanto volto
ad impedire la maturazione del diritto alla promozione da parte del dipendente.
Infine,
il comma 2 dell’art. 3 del decreto ha abrogato l’art. 6 della l. n. 190 del
1985, relativo alla categoria dei c.d. quadri intermedi. Tale norma prevedeva
che "In deroga a quanto previsto dal primo comma dell'articolo 2103 del
codice civile, come modificato dall'articolo 13 della legge 20 maggio 1970, n.
300, l'assegnazione del lavoratore alle mansioni superiori di cui all'articolo
2 della presente legge ovvero a mansioni dirigenziali, che non sia avvenuta in
sostituzione di lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto,
diviene definitiva quando si sia protratta per il periodo di tre mesi o per
quello superiore fissato dai contratti collettivi".
Ormai,
quindi, la disciplina delle mansioni dei quadri intermedi è ricondotta
interamente nell’ambito del nuovo articolo 2103 del codice civile.
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