Corte di
Cassazione, Sentenza n.13162 del 25 giugno 2015
Svolgimento del
processo
La Corte
d’appello di Milano, con la sentenza indicata in epigrafe, ha confermato la
decisione di primo grado, che aveva respinto la domanda proposta nei confronti
di Poste Italiane S.p.A. dalla dipendente G.M., volta alla declaratoria di
illegittimità del licenziamento per giusta causa disposto nei suoi conti dal
datore di lavoro.
Alla predetta
dipendente era stato contestato di essersi impossessata di una assicurata
contenente sei blocchetti di buoni mensa dell’importo complessivo di E 393,00,
da destinare ai dipendenti dell’ufficio.
La Corte di
merito, nel respingere il gravame della lavoratrice, ha osservato che la
contestazione era specifica; che la dipendente aveva ammesso di essersi
appropriata dei blocchetti; che la sanzione espulsiva era proporzionata
all’entità del fatto, trattandosi di un illecito penale collegato con
l’ambiente di lavoro, ed essendo previsto dal contratto collettivo il
licenziamento nell’ipotesi, come nella specie, di sottrazione di beni di
pertinenza della società o comunque ad essa affidati; che la confessione della
G. e l’assenza di precedenti sanzioni disciplinari non potevano costituire
attenuanti idonee ad escludere la legittimità del recesso, avendo la condotta
della lavoratrice leso il vincolo di fiducia che sta alla base del rapporto di
lavoro.
Contro questa sentenza propone ricorso per
cassazione la lavoratrice sulla base di tre motivi, illustrati da memoria ex
art. 378 cod. proc. civ. Resiste con controricorso Poste.
Motivi della
decisione
1. Con il primo
motivo la ricorrente, denunciando violazione degli artt. 2104, 2105 cod. civ.,
degli artt. 54 e seguenti del contratto collettivo dei dipendenti delle Poste
nonché contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia,
deduce che nella lettera di contestazione disciplinare non è precisata la norma
contrattuale violata né è indicato chiaramente l’addebito contestatole. E’
stato infatti richiamato l’art. 54 di detto contratto, che contiene una serie di
ipotesi disciplinari, ciò che non ha consentito ad essa ricorrente di
difendersi adeguatamente. La sentenza è peraltro contraddittoria per avere
affermato, per un verso, che la condotta sanzionata con il licenziamento era
quella prevista dal contratto collettivo e, per altro verso, che il recesso
trovava titolo nell’illecito penale, in ordine al quale peraltro non risultava
promosso alcun procedimento penale.
2. Con il secondo motivo, denunciando
violazione di legge e di contratto collettivo nonché vizio di motivazione, la
ricorrente sostiene che nella specie era applicabile il sesto comma dell’art.
56 del predetto contratto – che prevede la sanzione disciplinare della
sospensione dal servizio con privazione della retribuzione fino a dieci giorni
– e non già il quarto comma dello stesso articolo, che sanziona le condotte ivi
indicate con il licenziamento.
3. Con il terzo
motivo la ricorrente, denunciando le stesse violazioni di cui al precedente
motivo, rileva che la Corte territoriale non ha applicato correttamente il
principio di proporzionalità della sanzione disciplinare rispetto alla gravità
del fatto, quale previsto dall’art. 55 del contratto collettivo.
In particolare
non ha tenuto conto della lieve entità del fatto, dell’elemento soggettivo, del
comportamento complessivo di essa ricorrente e dell’assenza di precedenti
disciplinari.
4. Il primo motivo
non è fondato.
La lettera di
contestazione disciplinare, riportata in ricorso, indica chiaramente l’addebito
mosso alla ricorrente, e cioè di essersi impossessata di una assicurata
contenente sei blocchetti di buoni mensa per un valore complessivo di E 33,00,
pervenuti all’ufficio postale dove la medesima svolgeva attività lavorativa –
una matrice dei quali venne poi rinvenuta nella sua abitazione – e di avere, in
un primo momento, affermato di essere stata costretta a sottrarre i predetti
buoni mensa dietro minaccia di alcuni cittadini rumeni, per poi ammettere
presso la caserma dei Carabinieri dove si era recata per sporgere denuncia la
sua esclusiva responsabilità.
A nulla rileva
che nella lettera di contestazione sia stato richiamato l’art. 54 del contratto
collettivo, che prevede diverse ipotesi di illeciti disciplinari, risultando
ben individuato il fatto addebitato alla lavoratrice, che peraltro la medesima
aveva ammesso di aver commesso.
5. Anche il
secondo motivo è infondato.
Correttamente infatti
la Corte di merito ha ritenuto sussistente nella specie l’ipotesi di cui
all’ari. 56, sesto comma, del contratto collettivo, che prevede la sanzione del
licenziamento nel caso di «sottrazione» di beni o di somme di spettanza o di
pertinenza della società o “ad essa affidati”, e non già quella, meno grave,
prevista dal quarto comma dello stesso articolo, costituita dal mero
“compimento di atti” dai quali sia derivato un vantaggio per il dipendente e/o
un danno per la società.
3. Infondato è
infine il terzo motivo.
In materia di
licenziamento per ragioni disciplinari, anche se la disciplina collettiva
prevede un determinato comportamento come giusta causa o giustificato motivo
soggettivo di recesso, il giudice investito dell’impugnativa della legittimità
del licenziamento deve comunque verificare l’effettiva gravità della condotta
addebitata al lavoratore (cfr. Cass. n. 1095/07; Cass. n. 5280/13; Cass.
16095/13).
La giusta causa
di licenziamento è infatti nozione legale, onde il giudice non può essere vincolato
dalle previsioni del contratto collettivo, anche quando si riscontri la
astratta corrispondenza del comportamento del lavoratore alla fattispecie
tipizzata contrattualmente (cfr. Cass. n. 4060/11; Cass. n. 5280/13 cit.).
In altri
termini, la valutazione in ordine alla legittimità del licenziamento
disciplinare di un lavoratore deve essere in ogni caso effettuata attraverso un
accertamento in concreto della reale entità e gravità del comportamento
addebitato al dipendente nonché del rapporto di proporzionalità tra sanzione e
infrazione, tenendo anche conto del profilo soggettivo e della regola generale
della non scarsa importanza dettata dall’art. 1455 cod. civ.
Nella specie, la
Corte di merito, pur dando atto che la condotta della dipendente, dopo
l’avvenuta appropriazione dei blocchetti in questione, era stata leale e
collaborativa, ha ritenuto che essa, nonostante l’assenza di precedenti
disciplinari, fosse stata tale da far venire meno irrimediabilmente il rapporto
di fiducia che sta alla base del rapporto di lavoro, trattandosi di una
condotta grave, commessa nell’esercizio delle funzioni, costituente illecito
penale e contemplata peraltro dal contratto collettivo fra le ipotesi di
licenziamento per giusta causa.
Tali
affermazioni vanno condivise.
Ciò che
maggiormente rileva nella fattispecie in esame, ai fini della proporzionalità
fra fatto addebitato e recesso, non è tanto il valore dei beni oggetto della
appropriazione, quanto la circostanza che la condotta posta in essere dalla
dipendente è suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza
dell’adempimento dei propri obblighi, in quanto sintomatica di un certo
atteggiarsi del prestatore nello svolgimento dell’attività lavorativa, nonchè
di far venir meno il grado di affidamento richiesto dalle mansioni esercitate
dal prestatore medesimo.
Correttamente
quindi la sentenza impugnata ha ritenuto che la sanzione espulsiva fosse
proporzionata alla entità del fatto commesso, dovendo il datore di lavoro poter
contare su dipendenti onesti e corretti.
Il ricorso deve
pertanto essere respinto, con la conseguente condanna della ricorrente al
pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta
il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente
giudizio, che liquida in e 100,00 per esborsi ed e 3.000,00 per compensi
professionali, oltre accessori di legge.
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