Nel
confermare il licenziamento irrogato dall’azienda, gli ermellini hanno
sottolineato l’ammissibilità dei controlli occulti, ove approntati per
accertare la sussistenza di condotte illecite diverse dal mero inadempimento
della obbligazione lavorativa.
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il testo integrale della Sentenza:
CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 27 maggio 2015, n.
10955
Svolgimento del
processo
1. D.D.
dipendente della P.A. s.r.l. con la qualifica di operaio addetto alle presse
stampatrici, è stato licenziato in data 24 settembre 2012 sulla base delle
seguenti contestazioni: 1) in data 21/8/2012 si era allontanato dal posto di
lavoro per una telefonata privata di circa 15 minuti che gli aveva impedito di
intervenire prontamente su di una pressa, bloccata da una lamiera che era
rimasta incastrata nei meccanismi; 2) nello stesso giorno era stato trovato,
nel suo armadietto aziendale, un dispositivo elettronico (Ipad) accesso e in
collegamento con la rete elettrica; 3) nei giorni successivi, in orari
esattamente indicati, si era intrattenuto con il suo cellulare a conversare su
facebook. Il licenziamento è stato intimato per giusta causa, ai sensi dell’art.
1, comma 10, Sez., IV- Tit. VII del C.C.N.L. di categoria.
1.1. II D. ha
presentato ricorso ex art. 18 legge n. 300/1970, come modificato dall'art. 1,
comma 42, della legge 28 giugno 2012, n. 92, al Tribunale di Lanciano il quale,
con sentenza resa in sede di opposizione contro l'ordinanza con la quale era
stata rigettata l’impugnativa di licenziamento, l'ha accolta e ha dichiarato
risolto rapporto di lavoro tra le parti con effetto dalla data del
licenziamento; ha quindi condannato la società datrice di lavoro a
corrispondere al lavoratore un risarcimento del danno pari a ventidue mensilità
dell'ultima retribuzione globale di fatto. Il Tribunale ha infatti ritenuto che
i fatti contestati al lavoratore, - non essendo riconducibili a condotte punite
dal C.C.N.L. con sanzioni conservative, in ragione della pluralità delle stesse
e della loro commissione in un ristretto contesto spaziotemporale -, nondimeno,
non integrassero gli estremi della giusta causa o del giustificato motivo
soggettivo, con la conseguenza che in base al quinto comma dell'art. 18 cit,
nel testo modificato, doveva riconoscersi al lavoratore la sola tutela
"attenuata" del risarcimento del danno.
1.2. La sentenza
è stata reclamata dinanzi alla Corte d'appello dell'Aquila, con impugnazione
principale, dal D. e, con impugnazione incidentale, dalla P.s r l. e la Corte
aquilana, con sentenza depositata in data 12 dicembre 2013 ha rigettato il
reclamo principale e accolto quello incidentale, rigettando così l’impugnativa
di licenziamento proposta dal ricorrente, che ha poi condannato alla
restituzione della somma ricevuta in esecuzione della sentenza reclamata.
1.3. La Corte
territoriale ha ritenuto che i fatti addebitati al lavoratore siano stati
provati attraverso la deposizione del teste P., responsabile del personale; che
l'accertamento compiuto dalla società datrice di lavoro delle conversazioni via
internet intrattenute dal ricorrente con il suo cellulare nei giorni e per il
tempo indicato - accertamento reso possibile attraverso la creazione da parte
del responsabile del personale di un "falso profilo di donna su
facebook" - non costituisse violazione dell’art. 4 della legge n.
300/1070, in difetto dei caratteri della continuità, anelasticità, invasività e
compressione dell'autonomia del lavoratore, nello svolgimento della sua
attività lavorativa, del sistema adottato dalla società per pervenire
all’accertamento dei fatti. Ha quindi proceduto al giudizio di proporzionalità
tra i fatti accertati e la sanzione arrogata, ritenendo che si fosse in
presenza di inadempimenti che esulano dallo schema previsto dall’art. 10 del
C.C.N.L., in considerazione del fatto che il lavoratore era stato già
sanzionato per fatti analoghi nel 2003 e nel 2009 e che tali precedenti erano
stati espressamente richiamati nella lettera di contestazione.
1.4. Contro la
sentenza il D. propone ricorso per cassazione sostenuto da tre motivi, cui
resiste con controricorso la società. Le parti depositano memorie ex art. 378
c.p.c.
Motivi della
decisione
In via preliminare
deve rilevarsi che è infondata l’eccezione di inammissibilità del ricorso per
cassazione sollevata dalla difesa della P.A. s.r.l. nella memoria ex art. 378
c.p.c., sul presupposto che esso sarebbe stato notificato ai sensi dell’art.
149 c.p.c. l’11 febbraio 2014 (espressamente definito dal notificante, quale
"ultimo giorno"), e cioè il sessantunesimo giorno dopo la data di
comunicazione della sentenza della Corte aquilana, avvenuta a mezzo PEC il 12
dicembre 2013. In realtà, come si evince dalla stampigliatura in calce al
ricorso, apposta dal l'ufficiale giudiziario notificatore, l’atto è stato
consegnato per la notifica il 10 febbraio 2014, con la conseguenza che il
ricorso è tempestivo e, dunque, ammissibile.
1. Con il primo
motivo il ricorrente lamenta "la violazione e falsa applicazione dell'art.
4 legge n. 300/1970, dell'art. 18, comma 4°, legge n. 300/1970 e dell'art. 1175
c.c., in relazione all'art. 360, comma 1°, n. 3 c.p.c. per non essersi
dichiarato inutilizzabile il controllo a distanza operato sul lavoratore senza
la preventiva e indispensabile autorizzazione". Assume che lo
"stratagemma" (così definito dalla corte del merito) adoperato
dall'azienda per accertare le sue conversazioni telefoniche via internet
durante l’orario di lavoro costituisce una forma di controllo a distanza,
vietato dall’art. 4 dello statuto dei lavoratori, trattandosi peraltro di un
comportamento di rilievo penale, oltre che posto in violazione dei principi di
correttezza e buona fede previsti dall’art. 1175 c.c.
1.2. Il motivo è
infondato.
1.3. E’ rimasto
accertato nella precedente fase di merito che, previa autorizzazione dei
vertici aziendali, il responsabile delle risorse umane della R.A. s.r.l. ha
creato un falso profilo di donna su facebook con richiesta di "amicizia"
al D., con il quale aveva poi "chattato in più occasioni ", in orari
che la stessa azienda aveva riscontrato concomitanti con quelli di lavoro del
dipendente, e da posizione, accertata sempre attraverso facebook, coincidente
con la zona industriale in cui ha sede lo stabilimento della società.
1.4. - L'art. 4
dello statuto dei lavoratori vieta le apparecchiature di controllo a distanza e
subordina ad accordo con le r.s.a. o a specifiche disposizioni dell’Ispettorato
del Lavoro l'installazione di quelle apparecchiature, rese necessarie da
esigenze organizzative e produttive, da cui può derivare la possibilità di
controllo. E’ stato affermato da questa Corte che l’art. 4 "fa parte di
quella complessa normativa diretta a contenere in vario modo le manifestazioni
del potere organizzativo e direttivo del datore di lavoro che, per le modalità
di attuazione incidenti nella sfera della persona, si ritengono lesive della
dignità e della riservatezza del lavoratore" (Cass., 17 giugno 2000, n.
8250), sul presupposto - "espressamente precisato nella Relazione
ministeriale - che la vigilanza sul lavoro, ancorché necessaria
nell'organizzazione produttiva, vada mantenuta in una dimensione umana, e cioè
non esasperata dall'uso di tecnologie che possono rendere la vigilanza stessa
continua e anelastica, eliminando ogni zona di riservatezza e di autonomia
nello svolgimento del lavoro" (Cass., n. 8250/2000, cit., principi poi
ribaditi da Cass., 17 luglio 2007, n. 15892, e da Cass., 23 febbraio 2012, n.
2722).
1.5. - Il potere
di controllo del datore di lavoro deve dunque trovare un contemperamento nel
diritto alla riservatezza del dipendente,ed anche l’esigenza, pur meritevole di
tutela, del datore di lavoro di evitare condotte illecite da parte dei
dipendenti non può assumere portata tale da giustificare un sostanziale
annullamento di ogni forma di garanzia della dignità e riservatezza del
lavoratore.
1.6. - Benché
non siano mancati precedenti di segno contrario (Cass., 3 aprile 2002, n.
4746), tale esigenza di tutela della riservatezza del lavoratore sussiste anche
con riferimento ai cosiddetti "controlli difensivi" ossia a quei
controlli diretti ad accertare comportamenti illeciti dei lavoratori, quando
tali comportamenti riguardino l'esatto adempimento delle obbligazioni
discendenti dal rapporto di lavoro e non la tutela di beni estranei al rapporto
stesso, ove la sorveglianza venga attuata mediante strumenti che presentino
quei requisiti strutturali e quelle potenzialità lesive, la cui utilizzazione è
subordinata al previo accordo con il sindacato o all’intervento
dell’Ispettorato del lavoro" (Cass., n. 15892/2007, cit.; v. pure Cass., 1
ottobre 2012, n. 16622). In tale ipotesi, è stato precisato, si tratta di
"un controllo cd. preterintenzionale che rientra nella previsione del
divieto flessibile di cui all'art. 4, comma 2" (Cass. 23 febbraio 2010 n.
4375).
1.7. -
Diversamente, ove il controllo sia diretto non già a verificare l’esatto
adempimento delle obbligazioni direttamente scaturenti dal rapporto di lavoro,
ma a tutelare beni del patrimonio aziendale ovvero ad impedire la perpetrazione
di comportamenti illeciti, si è fuori dallo schema normativo dell’art. 4 l. n.
300/1970.
1.8. - Si è così
ritenuto che l’attività di controllo sulle strutture informatiche aziendali per
conoscere il testo di messaggi di posta elettronica, inviati da un dipendente
bancario a soggetti cui forniva informazioni acquisite in ragione del servizio,
prescinde dalla pura e semplice sorveglianza sull'esecuzione della prestazione
lavorativa ed è, invece, diretta ad accertare la perpetrazione di eventuali
comportamenti illeciti (poi effettivamente riscontrati) (Cass., n. 2722/2012).
Cosi come è stata ritenuta legittima l’utilizzazione, da parte del datore di
lavoro, di registrazioni video operate fuori dall'azienda da un soggetto terzo,
estraneo all'impresa e ai lavoratori dipendenti della stessa, per esclusive
finalità "difensive" del proprio ufficio e della documentazione in
esso custodita (Cass., 28 gennaio 2011, n. 2117).
1.9. - Infine, è
stato precisato che le norme poste dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, artt. 2 e
3, a tutela della libertà e dignità del lavoratore, delimitano la sfera di
intervento di persone preposte dal datore di lavoro a difesa dei suoi interessi
con specifiche attribuzioni nell'ambito dell’azienda (rispettivamente con
poteri di polizia giudiziaria e di controllo della prestazione lavorativa), ma
non escludono il potere dell'imprenditore, ai sensi degli artt. 2086 e 2104
c.c., di controllare direttamente o mediante la propria organizzazione
gerarchica o anche attraverso personale esterno - costituito in ipotesi da
dipendenti di una agenzia investigativa - l’adempimento delle prestazioni
lavorative e quindi di accertare mancanze specifiche dei dipendenti già
commesse o in corso di esecuzione, e ciò indipendentemente dalle modalità del
controllo, che può avvenire anche occultamente, senza che vi ostino né il
principio di correttezza e buona fede nell'esecuzione dei rapporti né il
divieto di cui alla stessa L. n. 300 del 1970, art 4, riferito esclusivamente
all’uso di apparecchiature per il controllo a distanza (Cass. 10 luglio 2009,
n. 16196).
1.10. -
Nell’ambito dei controlli cosiddetti "occulti", la giurisprudenza di
questa Corte ha avuto modo di affermarne la legittimità, ove gli illeciti del
lavoratore non riguardino il mero inadempimento della prestazione lavorativa,
ma incidano sul patrimonio aziendale (nella specie, mancata registrazione della
vendita da parte dell’addetto alla cassa di un esercizio commerciale ed appropriazione
delle somme incassate), e non presuppongono necessariamente illeciti già
commessi (Cass., 9 luglio 2008, n. 18821; Cass., 12 giugno 2002, n. 8388; v.
Cass., 14 febbraio 2011, n. 3590, che ha precisato che le disposizioni
dell’art. 2 dello statuto dei lavoratori non precludono al datore di lavoro di
ricorrere ad agenzie investigative purché queste non sconfinino nella vigilanza
dell'attività lavorativa vera e propria, riservata dall'art. 3 dello statuto
direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori -, restando
giustificato l’intervento in questione non solo per l'avvenuta perpetrazione di
illeciti e l'esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo
sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione; e
Cass., 2 marzo 2002, n. 3039 che ha ritenuto legittimo il controllo tramite
pedinamento di un informatore farmaceutico da parte del capo area; v. pure
Cass., 14 luglio 2001, n. 9576, in cui si è ribadita, citando ampia
giurisprudenza, la legittimità dei controlli effettuati per il tramite di
normali clienti, appositamente contattati, per verificare l'eventuale
appropriazione di denaro -(ammanchi di cassa)-da parte del personale addetto).
In questo stesso
orientamento, si pone da ultimo, Cass., 4 marzo 2014, n. 4984, che ha ritenuto
legittimo il controllo svolto attraverso un’agenzia investigativa, finalizzato
all’accertamento dell’utilizzo improprio dei permessi ex lege n. 104 del 1992,
ex art. 33, (suscettibile di rilevanza anche penale), non riguardando
l’adempimento della prestazione lavorativa, in quanto effettuato al di fuori
dell’orario di lavoro ed in fase di sospensione dell’obbligazione principale di
rendere la prestazione lavorativa.
1.11.- Da questo
panorama giurisprudenziale, può trarsi il principio della tendenziale
ammissibilità dei controlli difensivi "occulti", anche ad opera di
personale estraneo all’organizzazione aziendale, in quanto diretti al
l’accertamento di comportamenti illeciti diversi dal mero inadempimento della
prestazione lavorativa, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, ferma
comunque restando la necessaria esplicazione delle attività di accertamento
mediante modalità non eccessivamente invasive e rispettose delle garanzie di
libertà e dignità dei dipendenti, con le quali l’interesse del datore di lavoro
al controllo ed alla difesa della organizzazione produttiva aziendale deve
contemperarsi. e, in ogni caso, sempre secondo i canoni generali della
correttezza e buona fede contrattuale.
1.12. - Ad
avviso del Collegio, la fattispecie in esame rispetta questi limiti e si pone
al di fuori del campo di applicazione dell'art. 4 dello statuto dei lavoratori.
Infatti, il
datore di lavoro ha posto in essere una attività di controllo che non ha avuto
ad oggetto l’attività lavorativa più propriamente detta ed il suo esatto
adempimento, ma l’eventuale perpetrazione di comportamenti illeciti da parte
del dipendente, poi effettivamente riscontrati, e già manifestatisi nei giorni
precedenti, allorché il lavoratore era stato sorpreso al telefono lontano dalla
pressa cui era addetto (che era così rimasta incustodita per oltre dieci minuti
e si era bloccata), ed era stata scoperta la sua detenzione in azienda di un
dispositivo elettronico utile per conversazioni via internet.
Il controllo
difensivo era dunque destinato ad riscontare e sanzionare un comportamento
idoneo a ledere il patrimonio aziendale, sotto il profilo del regolare
funzionamento e della sicurezza degli impianti. Si è trattato di un controllo
ex post, sollecitato dagli episodi occorsi nei giorni precedenti, e cioè dal
riscontro della violazione da parte del dipendente della disposizione aziendale
che vieta l’uso del telefono cellulare e lo svolgimento di attività
extralavorativa durante l’orario di servizio.
1.13. - Né può
dirsi che la creazione del falso profilo facebook costituisca, di per sé,
violazione dei principi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del
rapporto di lavoro, attenendo ad una mera modalità di accertamento
dell’illecito commesso dal lavoratore, non invasiva né induttiva
all’infrazione, avendo funzionato come mera occasione o sollecitazione cui il
lavoratore ha prontamente e consapevolmente aderito.
1.14.
Altrettanto deve dirsi con riguardo alla localizzazione del dipendente, la
quale, peraltro, è avvenuta in conseguenza dell’accesso a face book da
cellulare e, quindi, nella presumibile consapevolezza del lavoratore di poter
essere localizzato, attraverso il sistema di rilevazione satellitare del suo
cellulare.
In ogni caso, è
principio affermato dalla giurisprudenza penale che l'attività di indagine
volta a seguire i movimenti di un soggetto e a localizzarlo, controllando a
distanza la sua presenza in un dato luogo ed in un determinato momento
attraverso il sistema di rilevamento satellitare (GPS), costituisce una forma
di pedinamento eseguita con strumenti tecnologici, non assimilabile ad attività
di intercettazione prevista dall'art. 266 e seguenti c.p.c. (Cass. pen., 13
febbraio 2013, n. 21644), ma piuttosto ad un’attività di investigazione atipica
(Cass., pen., 27 novembre 2012, n. 48279), i cui risultati sono senz'altro
utilizzabili in sede di formazione del convincimento del giudice (cfr. sul
libero apprezzamento delle prove atipiche, Cass., 5 marzo 2010 , n. 5440).
1.14. - Sono invece
inammissibili per difetto di autosufficienza le ulteriori doglianze del
ricorrente, incentrate sull’inquadrabilità della condotta posta in essere da
G.P., responsabile delle risorse umane della P., e costituita dalla creazione
del falso profilo facebook, nel reato di cui all'art. 494 c.p. Di tale
questione non vi è, infatti, cenno nella sentenza impugnata e la parte, pur
asserendo di averla sottoposta alla cognizione dei giudici di merito, non
indica in quale momento, in quale atto e in quali termini ciò sarebbe avvenuto,
con la precisa indicazione dei dati necessari per il reperimento dell'atto o
del verbale di causa in cui la questione sarebbe stata introdotta. Né
l'accertamento della rilevanza penale del fatto può essere condotto d'ufficio
da questa Corte, poiché la valutazione circa l'esistenza dei presupposti
oggettivi e soggettivi del reato richiede un'indagine tipicamente fattuale, che
esula dai limiti del sindacato devoluto a questa Corte. Conseguentemente, sono
da dichiararsi inammissibili ai sensi dell'art. 372 c.p.c. i documenti prodotti
dal ricorrente unitamente alla memoria difensiva, relativi ad atti del
procedimento penale avviato nei confronti del p (decreto penale di condanna e
verbali di interrogatorio), poiché essi non riguardano la nullità della
sentenza impugnata né l'ammissibilità del ricorso o del controricorso.
2. Con il
secondo motivo il ricorrente censura la sentenza per violazione e falsa
applicazione dell’art. 2119 c.c., dell'art. 5 legge n 604/1966, dell’art. 2697
c.c., dell’art. 7 legge n.300/ 1970 e dell'art. 18, comma quattro, legge n.
300/1970 in relazione all’art. 360 comma primo n. 3) per non essersi assolto
all'onere probatorio gravante in capo al datore di lavoro giustificativo del
comminato licenziamento. Erronea e carente valutazione delle risultanze
probatorie in relazione all’art 360 comma primo n. 5), per essersi erroneamente
valutate ed interpretate le acquisizioni probatorie agli alti di causa".
2.1. - Il motivo
è inammissibile sotto il profilo della violazione di legge, dal momento che il
ricorrente non indica quale affermazione della Corte territoriale si pone in
violazione delle norme indicate. Ed invero il vizio di violazione o falsa
applicazione di norma di diritto, ex art. 360, n. 3, c.p.c., deve essere dedotto,
a pena di inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell'art. 366, n.
4, c.p.c., non solo con la indicazione delle nonne assuntivamente violate, ma
anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed
esaurienti intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate
affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in
contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con
l'interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità,
diversamente impedendo alla Corte regolatrice di adempiere il suo istituzionale
compito di verificare il fondamento della lamentata violazione. Risulta,
quindi, inidoneamente formulata la deduzione di "errori di diritto"
individuati per mezzo della sola preliminare indicazione delle singole norme
pretesamente violate, ma non dimostrati per mezzo di una critica delle
soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche
poste dalla controversia, (cfr. Cass., 8 marzo 2007, n. 5353; Cass., 19 gennaio
2005, n. 1063; Cass., 6 aprile 2006, n. 8106; Cass., 26 giugno 2013, n. 16038;
1 dicembre 2014, n. 25419).
2.2. - Sotto il
profilo del vizio di motivazione deve rilevarsi che, nel regime del nuovo art.
360, comma 1°, n. 5 c.p.c. (applicabile ratione temporis alla sentenza in
esame, in quanto pubblicata dopo il 30° giorno successivo a quello di entrata
in vigore della legge 7 agosto 2012, n. 134), valgono i principi espressi dalle
Sezioni unite di questa Corte, che con la sentenza n. 8053 del 7 aprile 2014,
hanno affermato che "L'art. 360, primo comma, n. 5. cod. proc. civ.,
riformulato dall'art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n 83, conv. in legge 7 agosto
2012, n. 134, introduce nell'ordinamento un vizio specifico denunciatile per
cassazione, relativo all' omesso esame di un fatto storico, principale o
secondario, la cui esistenza risulti dal lesto della sentenza o dagli atti
processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia
carattere decisivo (vale a dire che, se esaminalo, avrebbe determinato un esito
diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle
previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n 4, cod.
proc. civ., il ricorrente deve indicare il "fatto storico", il cui
esame sia stato omesso, il "dato", testuale o extratestuale, da cui
esso risulti esistente, il "come" e il "quando" tale atto
sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua "decisività",
fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per
sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico,
rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice,
ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie
".
2.3. - Nel caso
di specie, il ricorrente non ha assolto tale onere, avendo omesso di
specificare quale tra i fatti principali o secondari non sia stato considerato
dal giudice di merito, risolvendosi la censura essenzialmente nel l'addebitare
alla Corte di non aver valutato la documentazione esibita dalle pani nel
secondo grado del giudizio - documentazione di cui peraltro non viene indicato
né il contenuto né i tempi e i luoghi della sua produzione, con evidente
violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione -;
nonché di aver ritenuto provale circostanze di fatto che, invece, non erano
state trovate, senza peraltro, anche in tal caso, riportare integralmente le
deposizioni testimoniali che non sarebbero state esattamente interpretate e
senza specificare dove sarebbero rinvenibili i verbali in cui le dette
deposizioni sarebbero state trascritte. Infine, introduce questioni nuove, che
non risultano affrontate nella sentenza di merito e rispetto alle quali il ricorrente
non fornisce indicazioni sul modo ed il tempo in cui esse sarebbero state
introdotte nelle pregresse fasi del giudizio di merito. Ciò vale per la mancata
affissione del codice di disciplinare e per la recidiva, che secondo il suo
assunto non avrebbe potuto esser utilizzata dal giudice di merito in quanto i
fatti, relativi all'anno 2009, sarebbero stati archiviati e gli altri,
risalenti al 2003, non potevano certo valere affini di determinare il
licenziamento.
Con riferimento
a quest'ultimo aspetto, è sufficiente rilevare che il giudice del merito ne ha
tenuto conto ai soli fini della globale valutazione, anche sotto il profilo
psicologico, del comportamento del lavoratore e della gravità degli specifici
episodi addebitati, non già come fatto costitutivo del diritto di recesso, con
la conseguente irrilevanza dell’asserita archiviazione (Cass., 19 dicembre
2006, n. 27104; Cass., 20 ottobre 2009, n. 22162; Cass., 27 marzo 2009, n.
7523; Cass., 19 gennaio 2011, n. 1145).
2.4. - In
definitiva, così impostato, il motivo del ricorso si risolve in
un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni effettuate c, in base
ad esse, delle conclusioni raggiunte dal Giudice di merito cui non può
imputarsi d'avere omesso l'esplicita confutazione delle tesi non accolte e/o la
particolareggiata disamina degli elementi di giudizio ritenuti non
significativi, giacche soddisfa all'esigenza di adeguata motivazione che il
raggiunto convincimento risulti da un esame logico e coerente di quelle tra le
prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie che siano state ritenute
di per sé sole idonee c sufficienti a giustificarlo (cfr. tra le tante, Cass.,
25 maggio 2006, n. 12446; Cass. 30 marzo 2000 n. 3904; Cass. 6 ottobre 1999 n.
11121).
2.5. - Non
sussiste pertanto il denunciato vizio di motivazione il quale, anche nella
giurisprudenza precedente all’intervento delle sezioni unite citato, deve
emergere dall'esame del ragionamento svolto dal giudice di merito, quale
risulta dalla sentenza impugnata, e può ritenersi sussistente solo quando, in
quel ragionamento, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o
insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettate dalle
parti rilevabili, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le
argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire
l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della
decisione, mentre non rileva la mera divergenza tra valore e significato
attribuiti dallo stesso giudice di merito agli elementi da lui vagliati, ed il
valore e significato diversi che, agli stessi elementi, siano attribuiti dalla
ricorrente e, in genere, dalle parti per tutte, Cass., Sez. Un., 25 ottobre
2013. n. 24148; Cass., ord. 7 gennaio 2014, n. 91).
3. - Con il
terzo motivo il ricorrente censura la sentenza per "violazione e falsa
applicazione dell’art. 2119 c.c., dell'art. 1 legge n. 604/1966, dell’art. 1455
c.c., dell’art. 2697 c.c.. e dell’art. 18, comma quarto, legge n. 300/1970 in
relazione all’art. 360, comma primo, n. 3) c.p.c. sotto il profilo della
mancata proporzionalità tra il comportamento addebitato al lavoratore e il
licenziamento comminatogli. Violazione e falsa applicazione dell'art. 2119
c.c., dell'art. 1 legge n. 604/1966, degli artt. 9) e 10) sez. IV, titolo VII
del C.C.N.L. dei metalmeccanici e dell'art. 18, comma quarto, legge n. 300/1970
in relazione all'art. 360, comma primo, n. 3) sotto il profilo dell'erronea,
incongrua e immotiva applicazione della sanzione del licenziamento comminato al
lavoratore".
3.1. - Il motivo
è improcedibile con riferimento alla dedotta violazione delle norme del
C.C.N.L. dei metalmeccanici, ai sensi dell'art. 369, comma 2°, n. 4 c.p.c. in
difetto della produzione, unitamente al ricorso per cassazione, del contratto
collettivo, oltre che di ogni precisa indicazione circa il tempo e il luogo
della sua produzione nelle pregresse fasi del giudizio e l'attuale sua
collocazione nel fascicolo del giudizio di cassazione.
Quanto al
giudizio di proporzionalità, esso è stato condotto dal giudice del merito con
rigore, valutando tutti gli elementi di fatto raccolti e complessivamente
considerati dai quali ha tratto un giudizio, da un lato, di gravità dei fatti
addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei
medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all'intensità del
profilo intenzionale, dall’altro, di proporzionalità fra tali fatti e la
sanzione inflitta, per giungere al convincimento che le lesione dell'elemento
fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, era
tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare.
4. In
definitiva, il ricorso deve essere rigettato, con la condanna del ricorrente al
pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, nella misura
liquidata in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il
ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente
giudizio, che liquida in € 100,00 per esborsi e 4000 per compensi
professionali, oltre oneri accessori come per legge.
Ai sensi
dell’art. 13, comma 1, quater del D.P.R. 115 del 2002, dà atto della
sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto
per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13.
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