Chi siamo


MEDIA-LABOR Srl - News dal mondo del lavoro e dell'economia


sabato 30 maggio 2015

La contestazione disciplinare formulata in maniera generica determina l’illegittimità del licenziamento

Nella sentenza n.10727 del 25 maggio 2015, la Corte di Cassazione ha ricordato che, in materia di licenziamento per giusta causa, la regola dell’immediatezza della contestazione disciplinare non è violata se il datore di lavoro proceda all'incolpazione del dipendente solo dopo avere avuto piena conoscenza dei fatti e piena possibilità di convincersi dell'illiceità degli stessi, tanto più quando si tratti di comportamenti penalmente rilevanti.

Tuttavia, nel caso di specie la Suprema Corte ha dichiarato l’illegittimità del recesso in quanto, nella contestazione di addebito, il datore di lavoro non aveva indicato in maniera esaustiva le violazioni asseritamente commesse dal dipendente.

Corte di Cassazione – Sentenza n.10727 del 25 maggio 2015

Svolgimento del processo

Con sentenza del 17 luglio 2012 la Corte d'appello di Lecce, in riforma della decisione emessa dal Tribunale, dichiarava illegittimo il licenziamento intimato il 29 agosto 2007 dalla s.p.a. Banca S. sud A.G. al dipendente A.Z., con le conseguenti condanne reintegratoria e risarcitoria.

L'illegittimità del licenziamento era data, ad avviso della Corte, anzitutto dalla non tempestività dell’incolpazione disciplinare, avvenuta il 27 luglio 2007, ossia a più di cinque anni dai fatti contestati, rilevabili "con l'ordinaria diligenza e coi normali strumenti di controllo", specie in considerazione dell’importo rilevante delle operazioni asseritamente illecite attribuite all'incolpato.

Ancora, la Corte d'appello riteneva incerta l'incolpazione mossa allo Z., sia per la vaghezza del linguaggio (operazioni bancarie eseguite fittiziamente "con movimento di denaro contante", "con ragionevole certezza", oppure operazioni "a dir poco inusuali") sia perché il carattere illecito delle operazioni non era specificato, non essendosi indicate le norme deontologiche o d'altro genere violate dal dipendente.

Contro questa sentenza ricorre per cassazione la Banca mentre Io Z. resiste con controricorso.

Motivi della decisione

Nella parte narrativa del suo atto d’impugnazione la Banca ricorrente precisa che il comportamento addebitato al lavoratore preposto ad una succursale era, secondo la lettera di contestazione, di avere autorizzato il giorno 2 luglio 2002 una complessa operazione compiuta da una cliente e consistita nell'avere depositato nel proprio conto corrente una somma di trecentosessantamila euro solo apparentemente, ma in realtà senza versare alcun denaro contante; nell'addebito, di due minuti successivo e sullo stesso conto, di una pari somma per "conferimento socio" in aumento capitale di una certa società; nell'accredito, di due minuti successivo, della stessa somma e per la stessa causale in favore di quella società. Questi passaggi fittizi avevano determinato "improprie registrazioni nell'archivio unico informatico tenuto ai sensi della legge 197/91 - antiriciclaggio". Esse venivano definite, sempre nella detta lettera, "irregolari e non in linea con i principi e le regole di una corretta tenuta della contabilità".

L'autenticità del contenuto di questa lettera non è stata mai contestata dalla controparte.

Ciò premesso, col primo motivo la ricorrente lamenta omessa motivazione e violazione dell’art. 7 l. 20 maggio 1970 n. 300, per non avere tenuto conto che la Banca ebbe conoscenza delle operazioni del dipendente solo attraverso la notifica, avvenuta il 5 luglio 2007, di un provvedimento penale della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Lecce.

Quest’argomento è plausibile.

La regola d’immediatezza della contestazione disciplinare, intesa anzitutto a garantire al lavoratore incolpato l'effettiva possibilità di difesa, non è violata se il datore di lavoro proceda all'incolpazione solo dopo avere avuto piena conoscenza dei fatti e piena possibilità di convincersi dell'illiceità di essi, ciò che, quando si tratti di complesse operazioni bancarie, può richiedere un congruo periodo di tempo, nell'interesse dello stesso lavoratore. Tanto più quando si tratti di comportamenti penalmente rilevanti (Cass. 22 febbraio 1995 n.2018, 27 marzo 2008 n. 7983).

Per di più l'illiceità delle operazioni di cui si tratta poteva apparire dubbia agli operatori bancari che ritennero di rilevarla, come risulterà qui anche dai successivi motivi di ricorso, e ciò spiega come essi non si siano risolti, nell'interesse dello stesso dipendente, a formulare un capo d'incolpazione disciplinare prima di sapere che per gli stessi fatti esistevano indagini penali.

L'errore della Corte d'appello nel ritenere tardiva l'incolpazione non può tuttavia portare alla cassazione della sentenza impugnata, il cui dispositivo è conforme a diritto, come risulterà dall'esame dei successivi motivi di locali ricorso.

Col secondo mezzo d'impugnazione la ricorrente deduce vizi di motivazione in ordine alla genericità della contestazione disciplinare, ritenuta dalla Corte d'appello.

Sostanzialmente la stessa censura viene svolta nel terzo motivo (vizi di motivazione e violazione dell’art. 2119 cod. civ.), con riferimento al "favore" reso scorrettamente dal lavoratore alla cliente della Banca.

I due motivi, da esaminare insieme perché connessi, non sono fondati.

In tema di licenziamenti disciplinari l'esigenza di specificità della contestazione non è così rigida come nel processo penale ma si uniforma al principio di correttezza vigente nei rapporti contrattuali ed obbedisce all'interesse dell’incolpato ad esercitare il diritto di difesa (Cass. 30 dicembre 2009 n. 27842). A tal fine è necessario che dal capo d'incolpazione risultino con certezza non soltanto il fatto addebitato ma, quando si tratta di norme di livello legislativo o regolamentare, e tanto più di norme di livello inferiore, è necessaria, se non l'indicazione precisa della norma violata, almeno una descrizione del fatto tanto precisa da risultarne chiara la sussumibilità sotto una regola determinata.

Nel caso di specie tanto la lettera di contestazione quanto ora il ricorso per cassazione non indicano le norme violate ma contengono un vago riferimento a regole di corretta tenuta della contabilità e ad "improprie" registrazioni effettuate contro la legge 197/91- antiriciclaggio, là dove non avrebbe dovuto essere difficile indicare, se non le regole di contabilità, almeno come esse fossero state in concreto violate.

Quanto alla cosiddetta legge antiriciclaggio, si tratta del d.l. 3 maggio 1991 n.143 conv. in l. 5 luglio 1991 n. 197, recante "provvedimenti urgenti per limitare l'uso del contante e dei titoli al portatore nelle transazioni e prevenire l'utilizzazione del sistema finanziario a scopo di riciclaggio". Essa pone diverse cautele contro l'uso del contante (art. 1), impone obblighi d'identificazione e di registrazione (art. 2) nonché di segnalazione a soggetti preposti all'attività dell'impresa bancaria o alle autorità di polizia 1 (art. 3), ed indica così i soggetti per il tramite dei quali è possibile trasferire denaro oltre un certo importo, dice i modi con cui può essere compiuto il trasferimento e prevede le conseguenti attività di documentazione.

Dalla contestazione disciplinare non risultò come il lavoratore incolpato, nel compiere una complessa e tuttavia subitanea operazione per un importo pecuniario elevato, avesse violato quegli obblighi. Sarebbe stato necessario fare riferimento almeno al capo d'imputazione formulato dal giudice penale. Non fu chiaro in definitiva perché i suddetti passaggi fossero da ritenere fittizi e le registrazioni dell'archivio fossero "improprie".

Tutte queste vaghezze e imprecisioni sono incompatibili col principio di sufficienza della contestazione disciplinare, tale da rendere non eccessivamente difficile la difesa dell'incolpato, sia in sede di procedimento intraziendale sia nel successivo procedimento civile.

Il contrasto dell'attività di riciclaggio del denaro dev'essere severo ma perché esso sia efficace in sede giudiziaria è necessario il rispetto delle regole della procedura, anche nelle controversie private fra datore e prestatore di lavoro.

Il ricorso dev’essere pertanto rigettato mentre le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali in euro cento/00, oltre ad euro quattromila per compensi professionali, più accessori di legge.

Nessun commento:

Posta un commento