Tuttavia,
nel caso di specie la Suprema Corte ha dichiarato l’illegittimità del recesso
in quanto, nella contestazione di addebito, il datore di lavoro non aveva
indicato in maniera esaustiva le violazioni asseritamente commesse dal
dipendente.
Corte di
Cassazione – Sentenza n.10727 del 25 maggio 2015
Svolgimento del
processo
Con sentenza del
17 luglio 2012 la Corte d'appello di Lecce, in riforma della decisione emessa
dal Tribunale, dichiarava illegittimo il licenziamento intimato il 29 agosto
2007 dalla s.p.a. Banca S. sud A.G. al dipendente A.Z., con le conseguenti
condanne reintegratoria e risarcitoria.
L'illegittimità
del licenziamento era data, ad avviso della Corte, anzitutto dalla non
tempestività dell’incolpazione disciplinare, avvenuta il 27 luglio 2007, ossia
a più di cinque anni dai fatti contestati, rilevabili "con l'ordinaria
diligenza e coi normali strumenti di controllo", specie in considerazione
dell’importo rilevante delle operazioni asseritamente illecite attribuite
all'incolpato.
Ancora, la Corte
d'appello riteneva incerta l'incolpazione mossa allo Z., sia per la vaghezza
del linguaggio (operazioni bancarie eseguite fittiziamente "con movimento
di denaro contante", "con ragionevole certezza", oppure
operazioni "a dir poco inusuali") sia perché il carattere illecito
delle operazioni non era specificato, non essendosi indicate le norme deontologiche
o d'altro genere violate dal dipendente.
Contro questa
sentenza ricorre per cassazione la Banca mentre Io Z. resiste con
controricorso.
Motivi della
decisione
Nella parte
narrativa del suo atto d’impugnazione la Banca ricorrente precisa che il
comportamento addebitato al lavoratore preposto ad una succursale era, secondo
la lettera di contestazione, di avere autorizzato il giorno 2 luglio 2002 una
complessa operazione compiuta da una cliente e consistita nell'avere depositato
nel proprio conto corrente una somma di trecentosessantamila euro solo
apparentemente, ma in realtà senza versare alcun denaro contante;
nell'addebito, di due minuti successivo e sullo stesso conto, di una pari somma
per "conferimento socio" in aumento capitale di una certa società;
nell'accredito, di due minuti successivo, della stessa somma e per la stessa
causale in favore di quella società. Questi passaggi fittizi avevano
determinato "improprie registrazioni nell'archivio unico informatico
tenuto ai sensi della legge 197/91 - antiriciclaggio". Esse venivano
definite, sempre nella detta lettera, "irregolari e non in linea con i
principi e le regole di una corretta tenuta della contabilità".
L'autenticità
del contenuto di questa lettera non è stata mai contestata dalla controparte.
Ciò premesso,
col primo motivo la ricorrente lamenta omessa motivazione e violazione
dell’art. 7 l. 20 maggio 1970 n. 300, per non avere tenuto conto che la Banca
ebbe conoscenza delle operazioni del dipendente solo attraverso la notifica,
avvenuta il 5 luglio 2007, di un provvedimento penale della Procura della
Repubblica presso il Tribunale di Lecce.
Quest’argomento
è plausibile.
La regola
d’immediatezza della contestazione disciplinare, intesa anzitutto a garantire
al lavoratore incolpato l'effettiva possibilità di difesa, non è violata se il
datore di lavoro proceda all'incolpazione solo dopo avere avuto piena
conoscenza dei fatti e piena possibilità di convincersi dell'illiceità di essi,
ciò che, quando si tratti di complesse operazioni bancarie, può richiedere un congruo
periodo di tempo, nell'interesse dello stesso lavoratore. Tanto più quando si
tratti di comportamenti penalmente rilevanti (Cass. 22 febbraio 1995 n.2018, 27
marzo 2008 n. 7983).
Per di più
l'illiceità delle operazioni di cui si tratta poteva apparire dubbia agli
operatori bancari che ritennero di rilevarla, come risulterà qui anche dai
successivi motivi di ricorso, e ciò spiega come essi non si siano risolti,
nell'interesse dello stesso dipendente, a formulare un capo d'incolpazione
disciplinare prima di sapere che per gli stessi fatti esistevano indagini
penali.
L'errore della
Corte d'appello nel ritenere tardiva l'incolpazione non può tuttavia portare
alla cassazione della sentenza impugnata, il cui dispositivo è conforme a
diritto, come risulterà dall'esame dei successivi motivi di locali ricorso.
Col secondo
mezzo d'impugnazione la ricorrente deduce vizi di motivazione in ordine alla
genericità della contestazione disciplinare, ritenuta dalla Corte d'appello.
Sostanzialmente
la stessa censura viene svolta nel terzo motivo (vizi di motivazione e
violazione dell’art. 2119 cod. civ.), con riferimento al "favore"
reso scorrettamente dal lavoratore alla cliente della Banca.
I due motivi, da
esaminare insieme perché connessi, non sono fondati.
In tema di
licenziamenti disciplinari l'esigenza di specificità della contestazione non è
così rigida come nel processo penale ma si uniforma al principio di correttezza
vigente nei rapporti contrattuali ed obbedisce all'interesse dell’incolpato ad
esercitare il diritto di difesa (Cass. 30 dicembre 2009 n. 27842). A tal fine è
necessario che dal capo d'incolpazione risultino con certezza non soltanto il
fatto addebitato ma, quando si tratta di norme di livello legislativo o
regolamentare, e tanto più di norme di livello inferiore, è necessaria, se non
l'indicazione precisa della norma violata, almeno una descrizione del fatto
tanto precisa da risultarne chiara la sussumibilità sotto una regola
determinata.
Nel caso di
specie tanto la lettera di contestazione quanto ora il ricorso per cassazione
non indicano le norme violate ma contengono un vago riferimento a regole di
corretta tenuta della contabilità e ad "improprie" registrazioni
effettuate contro la legge 197/91- antiriciclaggio, là dove non avrebbe dovuto
essere difficile indicare, se non le regole di contabilità, almeno come esse
fossero state in concreto violate.
Quanto alla
cosiddetta legge antiriciclaggio, si tratta del d.l. 3 maggio 1991 n.143 conv.
in l. 5 luglio 1991 n. 197, recante "provvedimenti urgenti per limitare
l'uso del contante e dei titoli al portatore nelle transazioni e prevenire
l'utilizzazione del sistema finanziario a scopo di riciclaggio". Essa pone
diverse cautele contro l'uso del contante (art. 1), impone obblighi
d'identificazione e di registrazione (art. 2) nonché di segnalazione a soggetti
preposti all'attività dell'impresa bancaria o alle autorità di polizia 1 (art.
3), ed indica così i soggetti per il tramite dei quali è possibile trasferire
denaro oltre un certo importo, dice i modi con cui può essere compiuto il
trasferimento e prevede le conseguenti attività di documentazione.
Dalla
contestazione disciplinare non risultò come il lavoratore incolpato, nel
compiere una complessa e tuttavia subitanea operazione per un importo pecuniario
elevato, avesse violato quegli obblighi. Sarebbe stato necessario fare
riferimento almeno al capo d'imputazione formulato dal giudice penale. Non fu
chiaro in definitiva perché i suddetti passaggi fossero da ritenere fittizi e
le registrazioni dell'archivio fossero "improprie".
Tutte queste
vaghezze e imprecisioni sono incompatibili col principio di sufficienza della
contestazione disciplinare, tale da rendere non eccessivamente difficile la
difesa dell'incolpato, sia in sede di procedimento intraziendale sia nel
successivo procedimento civile.
Il contrasto
dell'attività di riciclaggio del denaro dev'essere severo ma perché esso sia
efficace in sede giudiziaria è necessario il rispetto delle regole della
procedura, anche nelle controversie private fra datore e prestatore di lavoro.
Il ricorso
dev’essere pertanto rigettato mentre le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il
ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali in euro
cento/00, oltre ad euro quattromila per compensi professionali, più accessori
di legge.
Nessun commento:
Posta un commento