CORTE
COSTITUZIONALE - Sentenza 30 aprile 2015, n. 70
Art. 24, co. 25,
D.L. n. 201/2011 conv. in L. n. 214/2011 - Illegittmità - Violazione degli
artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost. - Mancata rivalutazione -
Violazione dei principi di proporzionalità e di adeguatezza della prestazione
previdenziale - Irrazionale discriminazione in danno della categoria dei
pensionati
Ritenuto
in fatto
1.-
Il Tribunale ordinario di Palermo, sezione lavoro, con ordinanza del 6 novembre
2013, (r.o. n. 35 del 2014), la Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la
Regione Emilia-Romagna, con due ordinanze del 13 maggio 2014 (r.o. n. 158 e
r.o. n. 159 del 2014), e la Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la
Regione Liguria, con ordinanza del 25 luglio 2014, (r.o. n. 192 del 2014) hanno
sollevato questione di legittimità costituzionale del comma 25 dell’art. 24,
del decreto-legge del 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la
crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con
modificazioni, dall’ art. 1, comma 1 della legge 22 dicembre 2011, n. 214,
nella parte in cui prevede che «In considerazione della contingente situazione
finanziaria, la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, secondo
il meccanismo stabilito dall’art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n.
448, è riconosciuta, per gli anni 2012 e 2013, esclusivamente ai trattamenti
pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo
INPS, nella misura del 100 per cento», in riferimento agli artt. 2, 3, 23, 36,
primo comma, 38, secondo comma, 53 e 117, primo comma, della Costituzione. Il
Tribunale ordinario di Palermo, sezione lavoro, premette di essere stato adito
per la condanna dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) a
corrispondere al ricorrente i ratei di pensione maturati e non percepiti nel
biennio 2012-2013, maggiorati di interessi e rivalutazione monetaria fino
all’effettivo soddisfo, previa dichiarazione di illegittimità costituzionale
dell’azzeramento della perequazione automatica delle pensioni superiori a tre
volte il trattamento minimo INPS introdotto dalla norma censurata. Il giudice
rimettente rileva che la discrezionalità di cui gode il legislatore nella
scelta del meccanismo perequativo diretto all’adeguamento delle pensioni,
fondata sul disposto degli artt. 36 e 38 Cost., ha trovato il proprio
meccanismo attuativo nel sistema di perequazione automatica dei trattamenti
pensionistici, introdotto dall’art. 19 della legge 30 aprile 1969, n. 153
(Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza
sociale). Aggiunge che il blocco introdotto dalla normativa censurata reitera,
rendendola più gravosa, la misura di interruzione del sistema perequativo già a
suo tempo sancita dalla legge 24 dicembre 2007, n. 247 (Norme di attuazione del
Protocollo del 23 luglio 2007 su previdenza, lavoro e competitività per
favorire l’equità e la crescita sostenibili, nonché ulteriori norme in materia
di lavoro e previdenza sociale), che era limitata ai soli trattamenti
pensionistici eccedenti otto volte il trattamento minimo INPS, nonostante il
monito rivolto al legislatore dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 316
del 2010, teso a rimuovere il rischio della frequente reiterazione di misure
volte a paralizzare il meccanismo perequativo. Con la misura censurata, secondo
il rimettente, si sarebbe violato l’invito della Corte, mediante azzeramento
della perequazione per i trattamenti pensionistici di più basso importo, per
due anni consecutivi e senza alcuna successiva possibilità di recupero. Il
giudice a quo richiama la giurisprudenza costituzionale (in particolare la
sentenza n. 223 del 2012) secondo cui la gravità della situazione economica,
che lo Stato deve affrontare, può giustificare anche il ricorso a strumenti
eccezionali, con la finalità di contemperare il soddisfacimento degli interessi
finanziari con la garanzia dei servizi e dei diritti dei cittadini, nel
rispetto del principio fondamentale di eguaglianza. Deduce, quindi, la
violazione dell’art. 38, secondo comma, Cost., poiché l’assenza di
rivalutazione impedirebbe la conservazione nel tempo del valore della pensione,
menomandone l’adeguatezza e dell’art. 36, primo comma, Cost., in quanto il
blocco della perequazione lederebbe il principio di proporzionalità tra la
pensione, che costituisce il prolungamento della retribuzione in costanza di
lavoro, e il trattamento retributivo percepito durante l’attività lavorativa.
Sostiene, altresì, la lesione del combinato disposto degli artt. 36, 38 e 3
Cost., poiché la mancata rivalutazione, violando il principio di
proporzionalità tra pensione e retribuzione e quello di adeguatezza della
prestazione previdenziale, altererebbe il principio di eguaglianza e
ragionevolezza, causando una irrazionale discriminazione in danno della
categoria dei pensionati. Deduce, inoltre, la violazione del principio di
universalità dell’imposizione di cui all’art. 53 Cost. e di quello di non
discriminazione ai fini dell’imposizione e di parità di prelievo a parità di
presupposto di imposta di cui al combinato disposto degli artt. 3, 23 e 53
Cost., poiché, indipendentemente dal nomen iuris utilizzato, la misura adottata
si configurerebbe quale prestazione patrimoniale di natura sostanzialmente
tributaria, in quanto doverosa, non connessa all’esistenza di un rapporto sinallagmatico
tra le parti e collegata esclusivamente alla pubblica spesa in relazione ad un
presupposto economicamente rilevante.
2.-
La Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Emilia - Romagna,
che ha sollevato con due distinte ordinanze la questione di legittimità
costituzionale del comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, come
convertito, riferisce che il ricorrente nel giudizio principale lamentava la
mancata rivalutazione automatica del proprio trattamento pensionistico in applicazione
della norma oggetto di censura, per effetto della esclusione del meccanismo di
perequazione per le pensioni di importo superiore a tre volte il trattamento
minimo INPS. Evidenzia, alla luce della giurisprudenza costituzionale,
l’illegittimità delle frequenti reiterazioni di misure intese a paralizzare il
meccanismo perequativo, sottolineando, altresì, il carattere peggiorativo della
norma censurata rispetto all’art.1, comma 19, della legge n. 247 del 2007, così
determinando il blocco dell’adeguamento dei trattamenti superiori a tre volte,
anziché a otto volte, rispetto al trattamento minimo INPS, avuto anche riguardo
alla vicinanza temporale rispetto all’ultimo azzeramento attuato, nonché alla
mancata previsione di un meccanismo di recupero. In particolare, secondo il
giudice a quo, il vizio della norma censurata emerge ove si consideri che la
natura di retribuzione differita delle pensioni ordinarie è stata ormai
definitivamente riconosciuta dalla Corte costituzionale (viene richiamata la
sentenza n. 116 del 2013). Il maggior prelievo tributario rispetto ad altre
categorie risulta, con più evidenza, discriminatorio, poiché grava su redditi
ormai consolidati nel loro ammontare, collegati a prestazioni lavorative già
rese da cittadini che hanno esaurito la loro vita lavorativa, rispetto ai quali
non risulta più possibile ridisegnare sul piano sinallagmatico il rapporto di
lavoro, con conseguente lesione degli artt. 3 e 53 Cost. Ad avviso della Corte
rimettente, il mancato adeguamento delle retribuzioni equivale a una loro
decurtazione in termini reali con effetti permanenti, ancorché il blocco sia
formalmente temporaneo, non essendo previsto alcun meccanismo di recupero, con
conseguente violazione degli artt. 3, 53, 36 e 38 Cost. Tale blocco incide sui
pensionati, fascia per antonomasia debole per età ed impossibilità di
adeguamento del reddito, come evidenziato dalla Corte costituzionale, secondo
la quale i redditi derivanti dai trattamenti pensionistici non hanno, per
questa loro origine, una natura diversa e minoris generis rispetto agli altri
redditi presi a riferimento, ai fini dell’osservanza dell’art. 53 Cost., che
non consente trattamenti in peius di determinate categorie di redditi da lavoro
(viene richiamata ancora la sentenza n. 116 del 2013). La Corte dei conti
aggiunge che l’introduzione di un’imposta speciale, sia pure transitoria ed
eccezionale, viola il principio della parità di prelievo a parità di
presupposto d’imposta economicamente rilevante e che, quindi, il blocco della
perequazione si traduce in una lesione del combinato disposto di cui agli artt.
3 e 53 Cost., in quanto la norma censurata limita i destinatari della stessa
soltanto ad una "platea di soggetti passivi", cioè ai percettori del
trattamento pensionistico, in violazione del principio della universalità della
imposizione. Essa sottolinea, inoltre, come l’intervento legislativo evidenzi
il carattere sempre più strutturale del meccanismo di azzeramento della
rivalutazione e non quello di misura eccezionale, non reiterabile, senza
osservare il monito espresso dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 316
del 2010, con riguardo ai gravi rischi di irragionevolezza e violazione della
proporzionalità derivanti dalla frequente reiterazione delle misure volte a
paralizzare il meccanismo di perequazione automatica, in quanto le pensioni,
anche di maggior consistenza, potrebbero non essere sufficientemente difese in
relazione ai mutamenti del potere di acquisto della moneta. Deduce, poi, come
la norma censurata si presenti lesiva anche del principio di affidamento del
cittadino nella sicurezza giuridica, garantito dall’art. 3 Cost., giacché i
pensionati adeguano i programmi di vita alle previsioni circa le proprie
disponibilità economiche, con conseguente pregiudizio per le aspettative di
vita di questi ultimi . Sostiene, quindi, la palese irragionevolezza del
provvedimento censurato e l’irrazionalità dello stesso per eccedenza del mezzo
rispetto al fine, dovendo provvedersi ad esigenze quali la «contingente
situazione finanziaria» richiamata dal legislatore mediante la fiscalità
ordinaria, secondo il disposto di cui all’art. 53 Cost. Invoca, infine, sulla
base dell’art. 117, primo comma, Cost., quale parametro interposto, la
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali firmata a Roma 4 novembre 1950 (CEDU), ratificata e resa esecutiva
con legge 4 agosto 1955, n. 848, richiamando poi il principio della certezza
del diritto, quale patrimonio comune degli Stati contraenti, nonché il diritto
dell’individuo alla libertà e alla sicurezza di cui all’art. 6 della Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000
e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, il diritto di non discriminazione
che include anche quella fondata sul patrimonio (art. 21), il diritto degli
anziani di condurre una vita dignitosa e indipendente (art. 25), il diritto
alla protezione della famiglia sul piano giuridico, economico e sociale (art.
33) ed il diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale e ai servizi
sociali di cui all’art. 34 della medesima Carta.
3.-
La Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Liguria, premette
che la ricorrente nel giudizio principale era titolare di pensione diretta e di
pensione indiretta del Fondo dipendenti INPS e che l’importo complessivo dei
due trattamenti era stato mantenuto fermo anche negli anni 2012 e 2013, in
applicazione della norma impugnata, aggiungendo che la parte aveva agito per la
condanna dell’INPS al pagamento delle quote di trattamento non corrisposte,
previo promovimento della questione di legittimità costituzionale della norma
censurata. Nel merito, osserva la Corte rimettente che, pur avendo la Corte
costituzionale ammesso, in linea di principio, la compatibilità costituzionale
di disposizioni legislative che incidano su situazioni soggettive attinenti ai
rapporti di durata, facendosi carico di esigenze di contenimento della spesa
pubblica, la stessa ha, al contempo, invitato il legislatore a salvaguardare il
principio di ragionevolezza nelle manovre economiche adottate, a tutela degli
interessi dei cittadini (viene richiamata la sentenza n. 316 del 2010). Nel
caso del comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, come convertito,
secondo il giudice a quo difetterebbero i presupposti segnalati dalla
giurisprudenza costituzionale, atteso che, in primo luogo, l’intervento non
avrebbe il carattere realmente temporaneo voluto dal giudice delle leggi,
perché esteso per un arco temporale di due anni. Inoltre, esso non riguarderebbe
soltanto le pensioni più alte, incidendo, invece, sui trattamenti pensionistici
di più basso importo, superiori ad euro 1.405,05 lordi per il 2012 ed a euro
1.441,56 lordi per il 2013. Per tali trattamenti, secondo la Corte rimettente,
la pressante esigenza di rivalutazione sistematica del correlativo valore
monetario, che garantisce il soddisfacimento degli stessi bisogni alimentari,
sarebbe irrimediabilmente frustrata. In particolare, lo sganciamento dai
meccanismi di adeguamento automatico dei trattamenti pensionistici superiori a
tre volte il minimo INPS, per un tempo considerevole, minerebbe il sistema di
adeguamento costituzionalmente rilevante, con violazione dei principi di cui
agli artt. 36 e 38 Cost. Come ricordato dal giudice rimettente, la Corte
costituzionale ha affermato (viene citata la sentenza n. 497 del 1988) che la
protezione così garantita ai lavoratori postula requisiti di effettività, tanto
più che essa si collega alla tutela dei diritti fondamentali della persona
sanciti dall’art. 2 Cost., mentre il perdurante necessario rispetto dei
principi di sufficienza ed adeguatezza delle pensioni impone al legislatore,
pur nell’esercizio del suo potere discrezionale di bilanciamento tra le varie
esigenze di politica economica e le disponibilità finanziarie, di individuare
un meccanismo in grado di assicurare un reale ed effettivo adeguamento dei
trattamenti di quiescenza alle variazioni del costo della vita (il richiamo è
alla sentenza n. 30 del 2004). Il Collegio rimettente osserva, quindi, che la
Corte costituzionale, pur avendo riconosciuto, con la sentenza n. 316 del 2010,
la legittimità di temporanee sospensioni della perequazione, anche se limitate
alle pensioni di importo più elevato, ha, al contempo, precisato che la
ragionevolezza complessiva del sistema dovrà essere apprezzata nel quadro del
contemperamento di interessi di rango costituzionale, alla luce dell’art. 3
Cost. Con ciò si intende evitare che una generalizzata esigenza di contenimento
della finanza pubblica possa risultare sempre e comunque valido motivo per
determinare la compromissione «di diritti maturati o la lesione di consolidate
sfere di interessi, sia individuali, sia anche collettivi» (viene citata la
sentenza n. 92 del 2013). Deduce, poi, il contrasto con gli artt. 3, 23, 53
Cost., sollevando d’ufficio la relativa questione, per essere stato imposto con
la norma censurata un sacrificio cospicuo ad una sola categoria di cittadini,
incorrendo nella violazione del principio di eguaglianza, a causa della
disparità di trattamento che può essere ravvisata nella differente previsione
di prestazioni patrimoniali a carico di soggetti titolari di redditi analoghi.
4.-
Si è costituito in giudizio (r.o. n. 35 del 2014) C.G., ricorrente nel giudizio
principale pendente dinanzi al Tribunale ordinario di Palermo, sezione lavoro,
instando per la declaratoria di illegittimità costituzionale della disposizione
legislativa censurata. Sostiene, in particolare, il pregiudizio per
l’adeguatezza delle prestazioni previdenziali, la quale imporrebbe la costante
perequazione della pensione al mutamento dei valori monetari. Aggiunge il
difetto di qualsivoglia modalità di recupero della somma oggetto di blocco
della perequazione per il biennio 2012-2013 e la conseguente violazione degli
artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., in quanto il criterio
adottato sarebbe irragionevole, lesivo del principio di proporzionalità tra
pensione e retribuzione, nonché del principio di adeguatezza di cui all’art. 38
Cost. 5.- Si è, altresì, costituito in tutti i giudizi, (r.o. n.n. 35, 158, 159
e 192 del 2014), l’INPS, chiedendo che siano dichiarate manifestamente
infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate, alla luce della
giurisprudenza costituzionale secondo cui spetta alla discrezionalità del
legislatore, in conformità a un ragionevole bilanciamento dei valori
costituzionali, dettare la disciplina di un adeguato trattamento pensionistico
alla stregua delle risorse disponibili, fatta salva la garanzia di salvaguardia
delle esigenze minime di protezione della persona. L’Istituto osserva, al
riguardo, che la norma censurata si limita a sospendere l’operatività del
meccanismo rivalutativo esistente per un breve orizzonte temporale e a
salvaguardare le posizioni più deboli sotto il profilo economico, evidenziando,
altresì, come la Corte, con la sentenza n. 316 del 2010, abbia già deciso,
respingendola, analoga questione di legittimità costituzionale dell’art. 1,
comma 19, della legge n. 247 del 2007 ed aggiungendo che la mancata perequazione
per un tempo limitato della pensione non incide sulla sua adeguatezza, in
particolare per le pensioni di importo più elevato. 6.- Ha proposto intervento
ad adiuvandum T.G., premettendo di essere iscritto al Fondo pensioni del
personale delle Ferrovie dello Stato spa, di non aver goduto, in forza
dell’applicazione della norma di cui al comma 25 dell’art. 24, del d.l. n. 201
del 2011, come convertito, degli aumenti di perequazione automatica per la
parte di pensione superiore a tre volte il trattamento minimo e di aver
depositato analogo ricorso per le proprie pretese pensionistiche dinanzi alla
sezione giurisdizionale del Tribunale amministrativo regionale del Lazio, allo
scopo di sentir dichiarato il proprio diritto alla perequazione automatica. Assume,
in particolare, a sostegno dell’ammissibilità del proprio intervento, il
difetto di tutela per chi non abbia partecipato al giudizio principale, ma
versi nelle medesime condizioni delle parti e, nel merito, la violazione degli
artt. 38, secondo comma, 36, primo comma, e 3 Cost., nonché, infine, dell’art.
53 e del combinato disposto degli artt. 2, 23 e 53 Cost. 7.- E’ intervenuto nei
giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, instando per l’inammissibilità o,
comunque, per la manifesta infondatezza della questione sollevata. La difesa
dello Stato eccepisce preliminarmente il difetto della previa domanda
amministrativa, presupposto dell’azione, la cui mancanza renderebbe la domanda
improponibile e adduce l’esistenza di una temporanea carenza di giurisdizione,
rilevabile in qualsiasi stato e grado del giudizio. L’Avvocatura generale
rileva, in ogni caso, la manifesta infondatezza della questione riguardo a
tutti i parametri segnalati e richiama la giurisprudenza costituzionale, nonché
il principio dalla stessa espresso, secondo cui la mancata perequazione della
pensione per un periodo contenuto non incide sull’adeguatezza del trattamento
pensionistico.
8.-
All’udienza pubblica, le parti costituite hanno insistito per l’accoglimento
delle conclusioni formulate nelle difese scritte.
Considerato
in diritto
1.-
Il Tribunale ordinario di Palermo, sezione lavoro, con ordinanza del 6 novembre
2013 (r.o. n. 35 del 2014), la Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la
Regione Emilia-Romagna, con due ordinanze del 13 maggio 2014 (r.o. n. 158 e n.
159 del 2014) e la Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione
Liguria, con ordinanza del 25 luglio 2014 (r.o. n. 192 del 2014), dubitano
della legittimità costituzionale del comma 25 dell’art. 24, decreto-legge del 6
dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il
consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art. 1,
comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214, nella parte in cui, per gli anni
2012 e 2013, limita la rivalutazione monetaria dei trattamenti pensionistici
nella misura del 100 per cento, esclusivamente alle pensioni di importo
complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS, in riferimento, nel
complesso, agli artt. 2, 3, 23, 36, primo comma, 38, secondo comma, 53 e 117,
primo comma della Costituzione, quest’ultimo in relazione alla Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali
firmata a Roma il 4 novembre 1950 (CEDU), ratificata e resa esecutiva con legge
4 agosto 1955, n. 848. Tutti i giudici rimettenti ritengono che il comma 25
dell’art. 24 sarebbe costituzionalmente illegittimo per violazione degli artt.
3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., in quanto la mancata
rivalutazione, violando i principi di proporzionalità e adeguatezza della
prestazione previdenziale, si porrebbe in contrasto con il principio di
eguaglianza e ragionevolezza, causando una irrazionale discriminazione in danno
della categoria dei pensionati. La norma censurata recherebbe anche un vulnus
agli artt. 2, 23 e 53 Cost., poiché la misura adottata si configurerebbe quale
prestazione patrimoniale di natura sostanzialmente tributaria, in violazione
del principio dell’universalità dell’imposizione a parità di capacità
contributiva, in quanto posta a carico di una sola categoria di contribuenti.
La sola Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Emilia -
Romagna censura, infine, la predetta disposizione, anche con riferimento
all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione alla CEDU, richiamando, poi, gli
artt. 6, 21, 25, 33 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12
dicembre 2007.
2.-
I giudizi hanno ad oggetto la stessa norma, censurata in relazione a parametri
costituzionali, per profili e con argomentazioni in larga misura coincidenti.
Deve, pertanto, esser disposta la riunione dei giudizi al fine di un’unica
pronuncia (ex plurimis, sentenza n. 16 del 2015, ordinanza n. 164 del 2014).
Nel giudizio promosso dal Tribunale ordinario di Palermo, sezione lavoro, ha
spiegato intervento ad adiuvandum T.G., che non è parte nel procedimento
principale, assumendo di aver proposto analogo ricorso dinanzi alla Corte dei
conti, sezione giurisdizionale per la Regione Lazio, allo scopo di sentir
riconosciuto il proprio diritto alla perequazione automatica del trattamento
pensionistico, per gli anni 2012 e 2013, negato dall’INPS. Secondo la costante
giurisprudenza di questa Corte (per tutte, sentenza n. 216 del 2014), possono
intervenire nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale le sole
parti del giudizio principale ed i terzi portatori di un interesse qualificato,
immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non
semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme
oggetto di censura. La circostanza che l’istante sia parte in un giudizio
diverso da quello oggetto dell'ordinanza di rimessione, nel quale sia stata
sollevata analoga questione di legittimità costituzionale, non è sufficiente a
rendere ammissibile l'intervento (ex plurimis, ordinanza n. 150 del 2012).
Conseguentemente, poiché T.G. non è stato parte del giudizio principale nel
corso del quale è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale
oggetto dell'ordinanza iscritta al n. 35 del reg. ord. 2014, né risulta essere
titolare di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al
rapporto sostanziale dedotto in giudizio, l’intervento dallo stesso proposto va
dichiarato inammissibile.
3.-
La Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Emilia-Romagna,
nelle due ordinanze di rimessione, dubita della legittimità costituzionale del
comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, come convertito dalla legge n.
214 del 2011, in riferimento, fra l’altro all’art. 117, primo comma, Cost. e
invoca genericamente, quale parametro interposto, la CEDU, per poi richiamare, più
specificamente, una serie di disposizioni contenute nella Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea. In particolare, sono evocati, oltre al
principio della certezza del diritto quale «patrimonio comune agli Stati
contraenti», anche « gli altri diritti garantiti dalla Carta: il diritto
dell’individuo alla libertà e alla sicurezza (art. 6), il diritto di non
discriminazione, che include anche quella fondata sul "patrimonio",
(art. 21), il diritto degli anziani di condurre una vita dignitosa ed indipendente
(art. 25), il diritto alla protezione della famiglia sul piano giuridico,
economico e sociale (art. 33), il diritto di accesso alle prestazioni di
sicurezza sociale e ai servizi sociali (art. 34)». La questione, come
prospettata, è inammissibile. Va preliminarmente rilevato che questa Corte
ritiene configurarsi un’ipotesi di inammissibilità della questione, qualora il
giudice non fornisca una motivazione adeguata sulla non manifesta infondatezza
della stessa, limitandosi a evocarne i parametri costituzionali, senza
argomentare in modo sufficiente in ordine alla loro violazione (ex plurimis,
ordinanza n. 36 del 2015). In tale ipotesi, il difetto nell’esplicitazione
delle ragioni di conflitto tra la norma censurata e i parametri costituzionali
evocati inibisce lo scrutinio nel merito delle questioni medesime (fra le
altre, ordinanza n. 158 del 2011), con conseguente inammissibilità delle
stesse. Nel caso di specie, la Corte rimettente si limita a richiamare l’art.
117, primo comma, Cost., per violazione della CEDU «come interpretata dalla
Corte di Strasburgo» senza addurre alcun elemento a sostegno di tale asserito
vulnus, in particolare con riferimento alle modalità di incidenza della norma
oggetto di impugnazione sul parametro costituzionale evocato. Inoltre il
richiamo alla CEDU si rivela, nella sostanza, erroneo, atteso che esso risulta
affiancato dal riferimento a disposizioni normative riconducibili alla Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Quest’ultima fonte, come risulta
dall’art. 6, comma 1 del Trattato sull’Unione europea, come modificato dal
Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007, ratificato e reso esecutivo
con la legge 2 agosto 2008, n. 130, ha lo stesso valore giuridico dei trattati.
Pertanto, l’esame dell’ordinanza di rimessione non consente di evincere in qual
modo le norme della CEDU siano compromesse, per effetto dell’applicazione della
disposizione oggetto di censura. Una tale carenza argomentativa costituisce
motivo di inammissibilità della questione di legittimità costituzionale, in
quanto preclusiva della valutazione della fondatezza. Il giudice a quo non
fornisce sufficienti elementi che consentano di vagliare le modalità di
incidenza della norma censurata sul parametro genericamente invocato ed omette
di allegare argomenti a sostegno degli effetti pregiudizievoli di tale
incidenza, richiamando erroneamente disposizioni normative afferenti al diritto
primario dell’Unione europea.
4.-
La questione di costituzionalità per violazione degli artt. 2, 3, 23 e 53
Cost., in relazione alla presunta natura tributaria della misura in esame, non
è fondata. Tutte le ordinanze di rimessione affermano che, nel caso di specie,
indipendentemente dal nomen iuris utilizzato, la misura di azzeramento della
rivalutazione automatica per gli anni 2012 e 2013, relativa ai trattamenti
pensionistici superiori a tre volte il trattamento minimo INPS, configurerebbe
una prestazione patrimoniale di natura tributaria, lesiva del principio di
universalità dell’imposizione a parità di capacità contributiva, in quanto
posta a carico di una sola categoria di contribuenti. Nell’imporre alle parti
di concorrere alla spesa pubblica non in ragione della propria capacità contributiva,
essa violerebbe il principio di eguaglianza. I rimettenti richiamano, in
particolare, le decisioni n. 116 del 2013 e n. 223 del 2012 nella parte in cui
si afferma che la Costituzione non impone una tassazione fiscale uniforme, con
criteri assolutamente identici e proporzionali per tutte le tipologie di
imposizione tributaria, ma esige un indefettibile raccordo con la capacità
contributiva, in un quadro di sistema informato a criteri di progressività,
come svolgimento ulteriore, nello specifico campo tributario, del principio di
eguaglianza (in tal senso, fra le più recenti, sentenza n. 10 del 2015). Ciò si
collega al compito di rimozione degli ostacoli economico-sociali che di fatto
limitano la libertà e l’eguaglianza dei cittadini-persone umane, in spirito di
solidarietà politica, economica e sociale di cui agli artt. 2 e 3 della
Costituzione (ordinanza n. 341 del 2000, ripresa sul punto dalla sentenza n.
223 del 2012). L’azzeramento della perequazione automatica oggetto di censura,
tuttavia, sfugge ai canoni della prestazione patrimoniale di natura tributaria,
atteso che esso non dà luogo ad una prestazione patrimoniale imposta,
realizzata attraverso un atto autoritativo di carattere ablatorio, destinato a
reperire risorse per l’erario. La giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis,
sentenze n. 219 e n. 154 del 2014) ha costantemente precisato che gli elementi
indefettibili della fattispecie tributaria sono tre: la disciplina legale deve
essere diretta, in via prevalente, a procurare una (definitiva) decurtazione
patrimoniale a carico del soggetto passivo; la decurtazione non deve integrare
una modifica di un rapporto sinallagmatico; le risorse, connesse ad un
presupposto economicamente rilevante e derivanti dalla suddetta decurtazione,
devono essere destinate a sovvenire pubbliche spese. Un tributo consiste in un
«prelievo coattivo che è finalizzato al concorso alle pubbliche spese ed è
posto a carico di un soggetto passivo in base ad uno specifico indice di
capacità contributiva» (sentenza n. 102 del 2008). Tale indice deve esprimere
l’idoneità di ciascun soggetto all’obbligazione tributaria (fra le prime,
sentenze n. 91 del 1972, n. 97 del 1968, n. 89 del 1966, n. 16 del 1965 e n. 45
del 1964). Il comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, come convertito,
che dispone per un biennio il blocco del meccanismo di rivalutazione dei
trattamenti pensionistici superiori a tre volte il trattamento minimo INPS, non
riveste, quindi, natura tributaria, in quanto non prevede una decurtazione o un
prelievo a carico del titolare di un trattamento pensionistico. In base ai
criteri elaborati da questa Corte in ordine alle prestazioni patrimoniali, in
assenza di una decurtazione patrimoniale o di un prelievo della stessa natura a
carico del soggetto passivo, viene meno in radice il presupposto per affermare
la natura tributaria della disposizione. Inoltre, viene a mancare il requisito
che consente l’acquisizione delle risorse al bilancio dello Stato, poiché la
disposizione non fornisce, neppure in via indiretta, una copertura a pubbliche
spese, ma determina esclusivamente un risparmio di spesa. Il difetto dei
requisiti propri dei tributi e, in generale, delle prestazioni patrimoniali
imposte, determina, quindi, la non fondatezza delle censure sollevate in riferimento
al mancato rispetto dei principi di progressività e di capacità contributiva.
5.-
La questione prospettata con riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, e 38,
secondo comma, Cost. è fondata. La perequazione automatica, quale strumento di
adeguamento delle pensioni al mutato potere di acquisto della moneta, fu
disciplinata dalla legge 21 luglio 1965, n. 903 (Avviamento alla riforma e
miglioramento dei trattamenti di pensione della previdenza sociale), all’art.
10, con la finalità di fronteggiare la svalutazione che le prestazioni
previdenziali subiscono per il loro carattere continuativo. Per perseguire un
tale obiettivo, in fasi sempre mutevoli dell’economia, la disciplina in
questione ha subito numerose modificazioni. Con l’art.19 della legge 30 aprile
1969, n. 153 (Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di
sicurezza sociale), nel prevedere in via generalizzata l’adeguamento
dell’importo delle pensioni nel regime dell’assicurazione obbligatoria, si
scelse di agganciare in misura percentuale gli aumenti delle pensioni
all’indice del costo della vita calcolato dall’ISTAT, ai fini della scala
mobile delle retribuzioni dei lavoratori dell’industria. Con l’art. 11, comma
1, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503, recante «Norme per il
riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a
norma dell’art. 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421», oltre alla cadenza
annuale e non più semestrale degli aumenti a titolo di perequazione automatica,
si stabilì che gli stessi fossero calcolati sul valore medio dell’indice ISTAT
dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati. Tale modifica
mirava a compensare l’eliminazione dell’aggancio alle dinamiche salariali, al
fine di garantire un collegamento con l’evoluzione del livello medio del tenore
di vita nazionale. L’art. 11, comma 2, previde, inoltre, che ulteriori aumenti
potessero essere stabiliti con legge finanziaria, in relazione all’andamento
dell’economia. Il meccanismo di rivalutazione automatica dei trattamenti
pensionistici governato dall’art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n.
448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo) si
prefigge di tutelare i trattamenti pensionistici dalla erosione del potere di
acquisto della moneta, che tende a colpire le prestazioni previdenziali anche
in assenza di inflazione. Con effetto dal 1° gennaio 1999, il meccanismo di
rivalutazione delle pensioni si applica per ogni singolo beneficiario in
funzione dell’importo complessivo dei trattamenti corrisposti a carico
dell'assicurazione generale obbligatoria. L’aumento della rivalutazione
automatica opera, ai sensi del comma 1 dell’art. 34 citato, in misura
proporzionale all’ammontare del trattamento da rivalutare rispetto all’ammontare
complessivo. Tuttavia, l’art 69, comma 1, della legge 23 dicembre 2000, n. 388
(Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato
- legge finanziaria 2001), con riferimento al meccanismo appena illustrato di
aumento della perequazione automatica, prevede che esso spetti per intero
soltanto per le fasce di importo dei trattamenti pensionistici fino a tre volte
il trattamento minimo INPS. Spetta nella misura del 90 per cento per le fasce
di importo da tre a cinque volte il trattamento minimo INPS ed è ridotto al 75
per cento per i trattamenti eccedenti il quintuplo del predetto importo minimo.
Questa impostazione fu seguita dal legislatore in successivi interventi, a
conferma di un orientamento che predilige la tutela delle fasce più deboli. Ad
esempio, l’art. 5, comma 6, del decreto-legge 2 luglio 2007, n. 81
(Disposizioni urgenti in materia finanziaria), convertito, con modificazioni,
dall’art.1, comma 1, della legge 3 agosto 2007, n. 127, prevede, per il
triennio 2008-2010, una perequazione al 100 per cento per le fasce di importo
tra tre e cinque volte il trattamento minimo INPS. In conclusione, la
disciplina generale che si ricava dal complesso quadro storico-evolutivo della
materia, prevede che soltanto le fasce più basse siano integralmente tutelate
dall’erosione indotta dalle dinamiche inflazionistiche o, in generale, dal
ridotto potere di acquisto delle pensioni.
6.-
Quanto alle sospensioni del meccanismo perequativo, affidate a scelte
discrezionali del legislatore, esse hanno seguito nel corso degli anni
orientamenti diversi, nel tentativo di bilanciare le attese dei pensionati con
variabili esigenze di contenimento della spesa. L’art. 2 del decreto-legge 19
settembre 1992, n. 384 (Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di
pubblico impiego, nonché disposizioni fiscali) previde che, in attesa della
legge di riforma del sistema pensionistico e, comunque, fino al 31 dicembre
1993, fosse sospesa l’applicazione di ogni disposizione di legge, di
regolamento o di accordi collettivi, che introducesse aumenti a titolo di
perequazione automatica delle pensioni previdenziali ed assistenziali,
pubbliche e private, ivi compresi i trattamenti integrativi a carico degli enti
del settore pubblico allargato, nonché aumenti a titolo di rivalutazione delle
rendite a carico dell’INAIL. In sede di conversione di tale decreto, tuttavia,
con l’art. 2, comma 1-bis, della legge 14 novembre 1992, n. 438 (Conversione in
legge, con modificazioni, del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384, recante
misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego,
nonché disposizioni fiscali), si provvide a mitigare gli effetti della
disposizione, che dunque operò non come provvedimento di blocco della
perequazione, bensì quale misura di contenimento della rivalutazione, alla
stregua di percentuali predefinite dal legislatore in riferimento al tasso di
inflazione programmata. In seguito, l’art. 11, comma 5, della legge 24 dicembre
1993, n. 537 (Interventi correttivi di finanza pubblica), provvide a
restituire, mediante un aumento una tantum disposto per il 1994, la differenza
tra inflazione programmata ed inflazione reale, perduta per effetto della
disposizione di cui all’art. 2 della legge n. 438 del 1992. Conseguentemente,
il blocco, originariamente previsto in via generale e senza distinzioni
reddituali dal legislatore del 1992, fu convertito in una forma meno gravosa di
raffreddamento parziale della dinamica perequativa. Dopo l’entrata in vigore
del sistema contributivo, il legislatore (art. 59, comma 13 della legge 27
dicembre 1997, n. 449, recante «Misure per la stabilizzazione della finanza
pubblica») ha imposto un azzeramento della perequazione automatica, per l’anno
1998. Tale norma, ritenuta legittima da questa Corte con ordinanza n. 256 del
2001, ha limitato il proprio campo di applicazione ai soli trattamenti di
importo medio - alto, superiori a cinque volte il trattamento minimo. Il
blocco, introdotto dall’art. 24, comma 25, come convertito, del d.l. n. 201 del
2011, come convertito, ora oggetto di censura, trova un precedente nell’art. 1,
comma 19, della legge 24 dicembre 2007, n. 247 (Norme di attuazione del
Protocollo del 23 luglio 2007 su previdenza, lavoro e competitività per
favorire l’equità e la crescita sostenibili, nonché ulteriori norme in materia
di lavoro e previdenza sociale) che, tuttavia, aveva limitato l’azzeramento
temporaneo della rivalutazione ai trattamenti particolarmente elevati,
superiori a otto volte il trattamento minimo INPS. Si trattava - come si evince
dalla relazione tecnica al disegno di legge approvato dal Consiglio dei
ministri il 13 ottobre 2007 - di una misura finalizzata a concorrere
solidaristicamente al finanziamento di interventi sulle pensioni di anzianità,
a seguito, dell’innalzamento della soglia di accesso al trattamento
pensionistico (il cosiddetto "scalone") introdotto, a decorrere dal
1° gennaio 2008, dalla legge 23 agosto 2004, n. 243 (Norme in materia
pensionistica e deleghe al Governo nel settore della previdenza pubblica, per
il sostegno alla previdenza complementare e all’occupazione stabile e per il
riordino degli enti di previdenza ed assistenza obbligatoria). L’azzeramento
della perequazione, disposto per effetto dell’art. 1, comma 19, della legge n.
247 del 2007, prima citata, è stato sottoposto al vaglio di questa Corte, che
ha deciso la questione con sentenza n. 316 del 2010. In tale pronuncia questa
Corte ha posto in evidenza la discrezionalità di cui gode il legislatore, sia
pure nell’osservare il principio costituzionale di proporzionalità e
adeguatezza delle pensioni, e ha reputato non illegittimo l’azzeramento, per il
solo anno 2008, dei trattamenti pensionistici di importo elevato (superiore ad
otto volte il trattamento minimo INPS). Al contempo, essa ha indirizzato un monito
al legislatore, poiché la sospensione a tempo indeterminato del meccanismo
perequativo, o la frequente reiterazione di misure intese a paralizzarlo,
entrerebbero in collisione con gli invalicabili principi di ragionevolezza e
proporzionalità. Si afferma, infatti, che «[...] le pensioni, sia pure di
maggiore consistenza, potrebbero non essere sufficientemente difese in
relazione ai mutamenti del potere d’acquisto della moneta».
7.-
L’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, oggetto di
censura nel presente giudizio, si colloca nell’ambito delle "Disposizioni
urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici"
(manovra denominata "salva Italia") e stabilisce che «In
considerazione della contingente situazione finanziaria», la rivalutazione
automatica dei trattamenti pensionistici, in base al già citato meccanismo
stabilito dall’art. 34, comma 1, della legge n. 448 del 1998, è riconosciuta,
per gli anni 2012 e 2013, esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo
complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS, nella misura del cento
per cento. Per effetto del dettato legislativo si realizza un’indicizzazione al
100 per cento sulla quota di pensione fino a tre volte il trattamento minimo
INPS, mentre le pensioni di importo superiore a tre volte il minimo non
ricevono alcuna rivalutazione. Il blocco integrale della perequazione opera,
quindi, per le pensioni di importo superiore a euro 1.217,00 netti. Tale
meccanismo si discosta da quello originariamente previsto dall’art. 24, comma
4, della legge 28 febbraio 1986, n. 41 (Disposizioni per la formazione del
bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 1986) e
confermato dall’art. 11 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 (Norme
per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e
pubblici, a norma dell’articolo 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), che non
discriminava tra trattamenti pensionistici complessivamente intesi, bensì tra
fasce di importo. Secondo la normativa antecedente, infatti, la percentuale di
aumento si applicava sull'importo non eccedente il doppio del trattamento
minimo del fondo pensioni per i lavoratori dipendenti. Per le fasce di importo
comprese fra il doppio ed il triplo del trattamento minimo la percentuale era
ridotta al 90 per cento. Per le fasce di importo superiore al triplo del
trattamento minimo la percentuale era ridotta al 75 per cento. Le modalità di
funzionamento della disposizione censurata sono ideate per incidere sui trattamenti
complessivamente intesi e non sulle fasce di importo. Esse trovano un unico
correttivo nella previsione secondo cui, per le pensioni di importo superiore a
tre volte il trattamento minimo INPS e inferiore a tale limite incrementato
della quota di rivalutazione automatica spettante, l’aumento di rivalutazione è
comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato. La norma
censurata è frutto di un emendamento che, all’esito delle osservazioni rivolte
al Ministro del lavoro e delle politiche sociali (Camera dei Deputati,
Commissione XI, Lavoro pubblico e privato, audizione del 6 dicembre 2011), ha
determinato la sostituzione della originaria formula. Quest’ultima prevedeva
l’azzeramento della perequazione per tutti i trattamenti pensionistici di
importo superiore a due volte il trattamento minimo INPS e, quindi, ad euro
946,00. Il Ministro chiarì nella stessa audizione che la misura da adottare non
confluiva nella riforma pensionistica, ma era da intendersi quale
«provvedimento da emergenza finanziaria». La disposizione censurata ha formato
oggetto di un’interrogazione parlamentare (Senato della Repubblica, seduta n.
93, interrogazione presentata l’8 agosto 2013, n. 3 - 00321) rimasta inevasa,
in cui si chiedeva al Governo se intendesse promuovere la revisione del
provvedimento, alla luce della giurisprudenza costituzionale. Dall’excursus
storico compiuto traspare che la norma oggetto di censura si discosta in modo
significativo dalla regolamentazione precedente. Non solo la sospensione ha una
durata biennale; essa incide anche sui trattamenti pensionistici di importo
meno elevato. Il provvedimento legislativo censurato si differenzia, altresì,
dalla legislazione ad esso successiva. L’art. 1, comma 483, lettera e), della
legge di stabilità per l’anno 2014 (legge 27 dicembre 2013, n. 147, recante
«Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello
Stato-legge di stabilità») ha previsto, per il triennio 2014-2016, una
rimodulazione nell’applicazione della percentuale di perequazione automatica
sul complesso dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo di cui
all’art. 34, comma 1, della legge n. 448 del 1998, con l’azzeramento per le
sole fasce di importo superiore a sei volte il trattamento minimo INPS e per il
solo anno 2014. Rispetto al disegno di legge originario le percentuali sono
state, peraltro, parzialmente modificate. Nel triennio in oggetto la
perequazione si applica nella misura del 100 per cento per i trattamenti
pensionistici di importo fino a tre volte il trattamento minimo, del 95 per
cento per i trattamenti di importo superiore a tre volte il trattamento minimo
e pari o inferiori a quattro volte il trattamento minimo del 75 per cento per i
trattamenti oltre quattro volte e pari o inferiori a cinque volte il
trattamento minimo, del 50 per cento per i trattamenti oltre cinque volte e
pari o inferiori a sei volte il trattamento minimo INPS. Soltanto per il 2014
il blocco integrale della perequazione ha riguardato le fasce di importo
superiore a sei volte il trattamento minimo. Il legislatore torna dunque a
proporre un discrimen fra fasce di importo e si ispira a criteri di
progressività, parametrati sui valori costituzionali della proporzionalità e
della adeguatezza dei trattamenti di quiescenza. Anche tale circostanza
conferma la singolarità della norma oggetto di censura.
8.-
Dall’analisi dell’evoluzione normativa in subiecta materia, si evince che la
perequazione automatica dei trattamenti pensionistici è uno strumento di natura
tecnica, volto a garantire nel tempo il rispetto del criterio di adeguatezza di
cui all’art. 38, secondo comma, Cost. Tale strumento si presta contestualmente
a innervare il principio di sufficienza della retribuzione di cui all’art. 36
Cost., principio applicato, per costante giurisprudenza di questa Corte, ai
trattamenti di quiescenza, intesi quale retribuzione differita (fra le altre,
sentenza n. 208 del 2014 e sentenza n. 116 del 2013). Per le sue
caratteristiche di neutralità e obiettività e per la sua strumentalità rispetto
all’attuazione dei suddetti principi costituzionali, la tecnica della
perequazione si impone, senza predefinirne le modalità, sulle scelte
discrezionali del legislatore, cui spetta intervenire per determinare in
concreto il quantum di tutela di volta in volta necessario. Un tale intervento
deve ispirarsi ai principi costituzionali di cui agli artt. 36, primo comma, e
38, secondo comma, Cost., principi strettamente interconnessi, proprio in
ragione delle finalità che perseguono. La ragionevolezza di tali finalità
consente di predisporre e perseguire un progetto di eguaglianza sostanziale,
conforme al dettato dell’art. 3, secondo comma, Cost. così da evitare disparità
di trattamento in danno dei destinatari dei trattamenti pensionistici.
Nell’applicare al trattamento di quiescenza, configurabile quale retribuzione
differita, il criterio di proporzionalità alla quantità e qualità del lavoro
prestato (art. 36, primo comma, Cost.) e nell’affiancarlo al criterio di
adeguatezza (art. 38, secondo comma, Cost.), questa Corte ha tracciato un
percorso coerente per il legislatore, con l’intento di inibire l’adozione di
misure disomogenee e irragionevoli (fra le altre, sentenze n. 208 del 2014 e n.
316 del 2010). Il rispetto dei parametri citati si fa tanto più pressante per
il legislatore, quanto più si allunga la speranza di vita e con essa
l’aspettativa, diffusa fra quanti beneficiano di trattamenti pensionistici, a
condurre un’esistenza libera e dignitosa, secondo il dettato dell’art. 36 Cost.
Non a caso, fin dalla sentenza n. 26 del 1980, questa Corte ha proposto una
lettura sistematica degli artt. 36 e 38 Cost., con la finalità di offrire «una
particolare protezione per il lavoratore». Essa ha affermato che
proporzionalità e adeguatezza non devono sussistere soltanto al momento del
collocamento a riposo, «ma vanno costantemente assicurate anche nel prosieguo,
in relazione ai mutamenti del potere d’acquisto della moneta», senza che ciò
comporti un’automatica ed integrale coincidenza tra il livello delle pensioni e
l’ultima retribuzione, poiché è riservata al legislatore una sfera di
discrezionalità per l’attuazione, anche graduale, dei termini suddetti (ex
plurimis, sentenze n. 316 del 2010; n. 106 del 1996; n. 173 del 1986; n. 26 del
1980; n. 46 del 1979; n. 176 del 1975; ordinanza n. 383 del 2004). Nondimeno,
dal canone dell’art. 36 Cost. «consegue l’esigenza di una costante adeguazione
del trattamento di quiescenza alle retribuzioni del servizio attivo» (sentenza
n. 501 del 1988; fra le altre, negli stessi termini, sentenza n. 30 del 2004).
Il legislatore, sulla base di un ragionevole bilanciamento dei valori
costituzionali deve «dettare la disciplina di un adeguato trattamento
pensionistico, alla stregua delle risorse finanziarie attingibili e fatta salva
la garanzia irrinunciabile delle esigenze minime di protezione della persona»
(sentenza n. 316 del 2010). Per scongiurare il verificarsi di «un non
sopportabile scostamento» fra l’andamento delle pensioni e delle retribuzioni,
il legislatore non può eludere il limite della ragionevolezza (sentenza n. 226
del 1993). Al legislatore spetta, inoltre, individuare idonei meccanismi che
assicurino la perdurante adeguatezza delle pensioni all’incremento del costo
della vita. Così è avvenuto anche per la previdenza complementare, che, pur non
incidendo in maniera diretta e immediata sulla spesa pubblica, non risulta del
tutto indifferente per quest’ultima, poiché contribuisce alla tenuta
complessiva del sistema delle assicurazioni sociali (sentenza n. 393 del 2000)
e, dunque, all’adeguatezza della prestazione previdenziale ex art. 38, secondo
comma, Cost. Pertanto, il criterio di ragionevolezza, così come delineato dalla
giurisprudenza citata in relazione ai principi contenuti negli artt. 36, primo
comma, e 38, secondo comma, Cost., circoscrive la discrezionalità del
legislatore e vincola le sue scelte all’adozione di soluzioni coerenti con i
parametri costituzionali.
9.-
Nel vagliare la dedotta illegittimità dell’azzeramento del meccanismo
perequativo per i trattamenti pensionistici superiori a otto volte il minimo
INPS per l’anno 2008 (art. 1, comma 19 della già citata legge n. 247 del 2007),
questa Corte ha ricostruito la ratio della norma censurata, consistente
nell’esigenza di reperire risorse necessarie «a compensare l’eliminazione
dell’innalzamento repentino a sessanta anni a decorrere dal 1° gennaio 2008,
dell’età minima già prevista per l’accesso alla pensione di anzianità in base
all’articolo 1, comma 6, della legge 23 agosto 2004, n. 243», con «lo scopo
dichiarato di contribuire al finanziamento solidale degli interventi sulle
pensioni di anzianità, contestualmente adottati con l’art. 1, commi 1 e 2,
della medesima legge» (sentenza n. 316 del 2010). In quell’occasione questa
Corte non ha ritenuto che fossero stati violati i parametri di cui agli artt.
3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost. Le pensioni incise per un solo
anno dalla norma allora impugnata, di importo piuttosto elevato, presentavano
«margini di resistenza all’erosione determinata dal fenomeno inflattivo».
L’esigenza di una rivalutazione costante del correlativo valore monetario è
apparsa per esse meno pressante. Questa Corte ha ritenuto, inoltre, non violato
il principio di eguaglianza, poiché il blocco della perequazione automatica per
l’anno 2008, operato esclusivamente sulle pensioni superiori ad un limite
d’importo di sicura rilevanza, realizzava «un trattamento differenziato di
situazioni obiettivamente diverse rispetto a quelle, non incise dalla norma
impugnata, dei titolari di pensioni più modeste». La previsione generale della
perequazione automatica è definita da questa Corte «a regime», proprio perché
«prevede una copertura decrescente, a mano a mano che aumenta il valore della
prestazione». La scelta del legislatore in quel caso era sostenuta da una ratio
redistributiva del sacrificio imposto, a conferma di un principio
solidaristico, che affianca l’introduzione di più rigorosi criteri di accesso
al trattamento di quiescenza. Non si viola il principio di eguaglianza, proprio
perché si muove dalla ricognizione di situazioni disomogenee. La norma, allora
oggetto d’impugnazione, ha anche superato le censure di palese
irragionevolezza, poiché si è ritenuto che non vi fosse riduzione quantitativa
dei trattamenti in godimento ma solo rallentamento della dinamica perequativa
delle pensioni di valore più cospicuo. Le esigenze di bilancio, affiancate al
dovere di solidarietà, hanno fornito una giustificazione ragionevole alla
soppressione della rivalutazione automatica annuale per i trattamenti di
importo otto volte superiore al trattamento minimo INPS, «di sicura rilevanza»,
secondo questa Corte, e, quindi, meno esposte al rischio di inflazione. La
richiamata pronuncia ha inteso segnalare che la sospensione a tempo
indeterminato del meccanismo perequativo, ovvero la frequente reiterazione di
misure intese a paralizzarlo, «esporrebbero il sistema ad evidenti tensioni con
gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità», poiché
risulterebbe incrinata la principale finalità di tutela, insita nel meccanismo
della perequazione, quella che prevede una difesa modulare del potere
d’acquisto delle pensioni. Questa Corte si era mossa in tale direzione già in
epoca risalente, con il ritenere di dubbia legittimità costituzionale un
intervento che incida «in misura notevole e in maniera definitiva» sulla
garanzia di adeguatezza della prestazione, senza essere sorretto da una
imperativa motivazione di interesse generale (sentenza n. 349 del 1985). Deve
rammentarsi che, per le modalità con cui opera il meccanismo della
perequazione, ogni eventuale perdita del potere di acquisto del trattamento,
anche se limitata a periodi brevi, è, per sua natura, definitiva. Le successive
rivalutazioni saranno, infatti, calcolate non sul valore reale originario,
bensì sull’ultimo importo
nominale, che dal mancato adeguamento è già stato
intaccato.
10.- La censura relativa al comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, se vagliata sotto i profili della proporzionalità e adeguatezza del trattamento pensionistico, induce a ritenere che siano stati valicati i limiti di ragionevolezza e proporzionalità, con conseguente pregiudizio per il potere di acquisto del trattamento stesso e con «irrimediabile vanificazione delle aspettative legittimamente nutrite dal lavoratore per il tempo successivo alla cessazione della propria attività» (sentenza n. 349 del 1985). Non è stato dunque ascoltato il monito indirizzato al legislatore con la sentenza n. 316 del 2010. Si profila con chiarezza, a questo riguardo, il nesso inscindibile che lega il dettato degli artt. 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost. (fra le più recenti, sentenza n. 208 del 2014, che richiama la sentenza n. 441 del 1993). Su questo terreno si deve esercitare il legislatore nel proporre un corretto bilanciamento, ogniqualvolta si profili l’esigenza di un risparmio di spesa, nel rispetto di un ineludibile vincolo di scopo «al fine di evitare che esso possa pervenire a valori critici, tali che potrebbero rendere inevitabile l’intervento correttivo della Corte» (sentenza n. 226 del 1993). La disposizione concernente l’azzeramento del meccanismo perequativo, contenuta nel comma 24 dell’art. 25 del d.l. 201 del 2011, come convertito, si limita a richiamare genericamente la «contingente situazione finanziaria», senza che emerga dal disegno complessivo la necessaria prevalenza delle esigenze finanziarie sui diritti oggetto di bilanciamento, nei cui confronti si effettuano interventi così fortemente incisivi. Anche in sede di conversione (legge 22 dicembre 2011, n. 214), non è dato riscontrare alcuna documentazione tecnica circa le attese maggiori entrate, come previsto dall’art. 17, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, recante «Legge di contabilità e finanza pubblica» (sentenza n. 26 del 2013, che interpreta il citato art. 17 quale «puntualizzazione tecnica» dell’art. 81 Cost.). L’interesse dei pensionati, in particolar modo di quelli titolari di trattamenti previdenziali modesti, è teso alla conservazione del potere di acquisto delle somme percepite, da cui deriva in modo consequenziale il diritto a una prestazione previdenziale adeguata. Tale diritto, costituzionalmente fondato, risulta irragionevolmente sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio. Risultano, dunque, intaccati i diritti fondamentali connessi al rapporto previdenziale, fondati su inequivocabili parametri costituzionali: la proporzionalità del trattamento di quiescenza, inteso quale retribuzione differita (art. 36, primo comma, Cost.) e l’adeguatezza (art. 38, secondo comma, Cost.). Quest’ultimo è da intendersi quale espressione certa, anche se non esplicita, del principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. e al contempo attuazione del principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, secondo comma, Cost. La norma censurata è, pertanto, costituzionalmente illegittima nei termini esposti.
P.Q.M.
Riuniti
i giudizi, 1) dichiara inammissibile l’intervento di T.G.; 2) dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art. 24, comma 25, del decreto-legge 6
dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il
consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art. 1,
comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214, nella parte in cui prevede che
«In considerazione della contingente situazione finanziaria, la rivalutazione
automatica dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo stabilito
dall’art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, è riconosciuta,
per gli anni 2012 e 2013, esclusivamente ai trattamenti pensionistici di
importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS, nella misura
del 100 per cento»; 3) dichiara non fondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, come
convertito, sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, 23 e 53, della
Costituzione, dal Tribunale ordinario di Palermo, sezione lavoro, dalla Corte
dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Emilia-Romagna e dalla Corte
dei Conti, sezione giurisdizionale per la Regione Liguria, con le ordinanze
indicate in epigrafe; 4) dichiara inammissibile la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, come
convertito, sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, della
Costituzione, in relazione alla Convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre
1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dalla Corte
dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Emilia-Romagna, con le
ordinanze indicate in epigrafe.
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