Il
caso di specie è quello scaturito dal trasferimento del redattore di un noto
quotidiano di Napoli dal “prestigioso” settore della cronaca politica, a quello
della “cucina”.
Nel
convenire in giudizio il proprio editore, il lavoratore aveva lamentato l’illegittimo
mutamento in peius delle proprie
mansioni, deducendo come detto trasferimento avesse pregiudicato sia il suo rapporto
diretto con le fonti di informazione che la visibilità della firma.
Conseguentemente,
il giornalista, oltre alla reintegrazione nelle precedenti funzioni, aveva
richiesto il risarcimento dei danni professionali asseritamente subiti.
Tuttavia,
le argomentazioni fornite dal lavoratore a sostegno della propria pretesa non
sono state condivise dalla Cassazione, che, investita della questione, ha
precisato come la titolazione dei pezzi,
la scelta delle foto a corredo e l’impaginazione, ovvero tutte quelle mansioni
necessarie per la realizzazione del giornale quale “prodotto finale”, non solo rappresentino un’attività posta sullo
stesso piano della scrittura vera e propria, ma, anzi, “tale partecipazione con apporto di originalità creativa al prodotto
collettivo redazionale è il connotato indefettibile della qualifica di
redattore”.
Nel
rigettare il ricorso, gli ermellini hanno poi ricordato che il Contratto Collettivo
di riferimento non configura alcuna distinzione tra il profilo di articolista e
quello del “deskista”. Tutt’al più, un’eventuale distinzione rappresenterebbe
una mera individuazione di comodo all’interno della categoria del redattore.
Valerio
Pollastrini
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