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mercoledì 29 aprile 2015

Falsa testimonianza - Dichiarazioni mendaci dei lavoratori sui colleghi clandestini

Nella sentenza n.16443 del 20 aprile 2015, la Corte di Cassazione ha confermato la condanna di alcuni dipendenti per il reato di falsa testimonianza per aver falsamente dichiarato -  nel corso del processo a carico del loro datore di lavoro  imputato di aver occupato nella sua officina un cittadino extracomunitario privo del permesso di soggiorno - di non aver mai visto lavoratori stranieri presso l’azienda.

Nella pronuncia in commento, la Suprema Corte ha ricordato che, in tema di favoreggiamento personale, la causa di esclusione della punibilità prevista per chi ha commesso il fatto per essere stato costretto dalla necessità di salvare sé stesso o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore opera anche nelle ipotesi in cui il soggetto agente abbia reso mendaci dichiarazioni per evitare un'accusa penale nei suoi confronti, ovvero per il timore di essere licenziato e perdere il proprio posto di lavoro, tutelando in tal modo l'esercizio sia del diritto di difesa che del diritto al lavoro, quali manifestazioni della libertà personale di ciascun individuo (1).

In sostanza,  il lavoro, inteso come diritto ad una occupazione e come strumento di crescita della personalità individuale anche nei suoi aspetti di integrazione e interrelazione sociali, deve reputarsi astrattamente sussumibile nell’ambito di esplicazione della "libertà" personale di ciascun individuo.

Del resto, un ausilio nella prefigurata impostazione interpretativa è offerto indirettamente dalla sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione (2)  con cui è stato stabilito che è ravvisabile il reato di favoreggiamento nei confronti dell'acquirente di sostanze stupefacenti per uso personale che, escusso come persona informata dei fatti, si rifiuti di fornire alla P.G. informazioni sulle persone da cui ha ricevuto la droga, ferma restando, in tale ipotesi, l'applicabilità dell'esimente prevista dall'art.384, comma 1 c.p., "se, in concreto, le informazioni richieste possano determinare un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell'onore". Nocumento che consiste anche, quanto al pregiudizio de liberiate, nella prevedibile eventualità di "una grave compromissione della normale situazione esistenziale e lavorativa" dell'imputato di favoreggiamento, purché di siffatta compromissione siano acquisiti nel giudizio di merito adeguati elementi di prova ("in concreto", affermano le Sezioni Unite) sulla situazione personale, lavorativa, familiare e ambientale dell‘imputato.

Ciò premesso, gli ermellini hanno precisato che, tuttavia, in tema di reati contro l'amministrazione della giustizia, l'esimente prevista dall'art.384, comma primo, cod. pen. non può essere invocata sulla base del mero timore, anche solo presunto o ipotetico, di un danno alla libertà o all'onore, in quanto essa implica un rapporto di derivazione del fatto commesso dalla esigenza di tutela di detti beni che va rilevato sulla base di un criterio di immediata ed inderogabile consequenzialità e non di semplice supposizione (3), come invece avvenuto nel caso di specie.

Valerio Pollastrini

1)      – Cass., Sentenza n.37398 del 16 giugno 2011;
2)      - Cass. S.U., Sentenza n.21832 del 22 febbraio 2007 n. 21832;
3)      – Cass., Sentenza n.10271 del 15 novembre 2012;

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