Nel
caso di specie, il Tribunale di Bergamo aveva accolto la domanda proposta da
una lavoratrice intesa all'annullamento del licenziamento intimatole il 7
febbraio 2005, alla reintegrazione ed al risarcimento del danno. In Tribunale,
infatti, non aveva ravvisato la sussistenza del motivo oggettivo di recesso, ossia
le ragioni di riorganizzazione aziendale addotte dalla datrice di lavoro.
Successivamente,
questa decisione era stata confermata dalla Corte di Appello di Brescia, la
quale aveva osservato che le mansioni già assegnate alla donna, di addetta al
centralino ed alla ricezione, non erano state soppresse, bensì affidate ad
altri lavoratori assunti successivamente al suo licenziamento.
La
Corte del merito, inoltre, aveva precisato che l’azienda non era stata in grado
di provare l'impossibilità di adibire la lavoratrice ad altre mansioni del suo
medesimo profilo contrattuale, come quelle di addetto alla contabilità,
operatore acquisti, addetto spedizioni, addetto al settore personale oppure
all’infermeria.
Di
contro, il giudice dell’appello aveva riscontrato, invece, che la datrice di
lavoro aveva effettuato alcune nuove assunzioni di personale rientrante nel
profilo impiegatizio.
Dall’istruttoria
era poi stato accertato che le difficoltà economiche idonee a giustificare il
licenziamento erano emerse con la redazione del bilancio del 2005 e, dunque, non potevano risultare evidenti il 7 febbraio
dello stesso anno. Anzi, nei mesi
immediatamente successivi al recesso erano stati assunti due impiegati dello
stesso livello dell’originaria ricorrente ed uno di livello inferiore.
Avverso
questa sentenza, la società aveva proposto ricorso per Cassazione, deducendo
che la Corte territoriale avrebbe rinvenuto all'interno del materiale di causa
fatti che la parte non aveva rappresentato, pur essendo gravata dall'onere di
indicare i posti di lavoro esistenti in azienda e a lei assegnabili onde
evitare il licenziamento per motivo oggettivo.
Il
datore di lavoro, inoltre, aveva censurato l’impugnata sentenza prospettando
ancora un erronea ripartizione dell'onere della prova circa la non utilizzabilità
della dipendente licenziata.
Investita
della questione, la Cassazione ha ritenuto infondate le predette doglianze, in
relazione alle quali, gli ermellini hanno ricordato come, in base alla costante
giurisprudenza di legittimità, l'onere probatorio gravante sul datore di lavoro
che abbia intimato un licenziamento per ragioni inerenti all'attività
produttiva riguarda da un lato la concreta esistenza di quelle ragioni e,
dall'altro lato, l’impossibilità di utilizzare il dipendente estromesso in
altre mansioni compatibili con la qualifica rivestita (1).
Nonostante
il lavoratore possa indicare il posto alternativo a lui assegnabile o allegare
circostanze idonee a comprovare l'insussistenza del motivo oggettivo del
licenziamento, ciò non vale ad invertire l'onere della prova (2), né impedisce
al giudice di trovare elementi probatori utili nel materiale ritualmente
versato in atti.
In
base alle considerazioni di cui si è detto, la Cassazione ha concluso disponendo
il rigetto del ricorso, confermando, così, quanto stabilito dalla Corte
territoriale in relazione all’illegittimità del recesso.
Valerio
Pollastrini
1)
-
Cass., Sentenza n.1941 del 24 marzo 1984; Cass., Sentenza n.583 del 22 gennaio
1987; Cass., Sentenza n.4688 del 27 aprile 1991;
2)
-
Cass., Sentenza n.8254 del 7 luglio 1992;
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