Nella
sentenza n.2015 del 4 febbraio 2015, la
Corte di Cassazione ha ribadito che laddove il lavoro dell’associato in
partecipazione venga reso senza alcun rischio d’impresa e senza ingerenza nella
gestione aziendale, il rapporto configura, in realtà, un contratto di natura
subordinata.
Il
caso di specie è quello che ha riguardato una società commerciale titolare di
oltre venti punti vendita dislocati in diverse aree del territorio nazionale, all’interno
dei quali operavano dei lavoratori inquadrati con contratto di associazione in
partecipazione.
La
questione è giunta all’attenzione degli ermellini dopo che i giudizi del
merito, riconoscendo la pretesa dell’Inps, avevano ritenuto che, di fatto, due
dei rapporti predetti avevano celato
altrettanti contratti di lavoro subordinato.
Investita
della questione, la Suprema Corte ha ricordato come la giurisprudenza di
legittimità abbia chiarito in più occasioni che, in tema di contratto di
associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte
dell'associato, l'elemento differenziale rispetto al contratto subordinato con
retribuzione collegata agli utili d’impresa risiede nel contesto regolamentare
pattizio in cui si inserisce l'apporto della prestazione da parte
dell'associato, dovendosi verificare l'autenticità del rapporto di
associazione, che ha come elemento essenziale, connotante la causa, la
partecipazione dell'associato al rischio di impresa e alla distribuzione non solo
degli utili, ma anche delle perdite.
Pertanto,
laddove sia resa una prestazione lavorativa inserita stabilmente nel contesto
dell'organizzazione aziendale, senza partecipazione al rischio d'impresa e
senza ingerenza ovvero controllo dell’associato nella gestione dell'impresa
stessa, si ricade nel rapporto di lavoro subordinato in ragione di un generale favor accordato dall’art.35 Cost., che
tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni (1).
Del
resto, la stessa Cassazione ha costantemente affermato, altresì, che in tema di
distinzione fra contratto di associazione in partecipazione con apporto di
prestazione lavorativa da parte dell’associato e contratto di lavoro
subordinato, pur assumendo indubbio rilievo il nomen iuris utilizzato dalle parti, occorre accertare se lo schema
negoziale pattuito abbia davvero caratterizzato la prestazione lavorativa o se
questa si sia svolta con lo schema della subordinazione (2).
Ciò
premesso, gli ermellini hanno confermato che le dedotte associazioni in partecipazione avessero, in
realtà, “mascherato” dei contratti di lavoro subordinato, risultando accertato:
- che gli associati osservavano un regolare orario di lavoro, coincidente con quello di apertura e chiusura del punto vendita;
- che essi non erano a conoscenza delle spese del punto vendita e non prendevano visione del bilancio;
- che non vi era un rendiconto di gestione ed era altresì assente qualsiasi forma di controllo da parte degli associati sulla gestione della società;
- che i rendiconti depositati dalla società e consegnati ai lavoratori, invece di riportare gli utili, indicavano i corrispettivi mensili conseguiti dal singolo negozio come risultanti dal registro IVA;
- che gli associati erano soggetti al controllo dell’associante, al quale dovevano comunicare quotidianamente a mezzo di personal computer gli incassi e rimettere gli stessi, prevedendosi nel caso di ritardo ingiustificato la risoluzione del rapporto;
- che l’associante decideva la tipologia delle merci, il prezzo e le promozioni;
- che in caso di assenza gli associati dovevano darne comunicazione all’associante;
- che durante le ferie, organizzate dagli stressi associati, costoro venivano regolarmente pagati;
- che l’ingresso di altre persone veniva deciso unilateralmente dall’associante, senza il consenso degli associati, in violazione dell’art. 2550 cod. civ.;
- che la retribuzione era costituita da una percentuale sugli utili del singolo negozio, costituiti dalla differenza tra costi e ricavi, forfettariamente calcolati, e non già sugli utili dell’Impresa ai sensi dell’art. 2549 cod. civ.;
- che tale calcolo era definitivo, non risultando che venissero effettuati conguagli;
- che la retribuzione corrisposta mensilmente non era mai al di sotto di un certo importo, sì da far ritenere la ricorrenza di un "minimo garantito", provato peraltro dalla produzione dell’INPS, dalla quale, "a fronte di un fatturato nullo vengono riconosciute somme corrispondenti a quelle percepite di norma";
- che tutto ciò comportava l’assenza di rischio da parte degli associati;
- che, infine, in base al contratto, rassodante in caso di inadempienza dell’associato (quale, ad esempio, il ritardo ingiustificato nel versamento degli incassi quotidiani) poteva non rinnovare il contratto semestrale, circostanza questa che portava a ritenere che l’associato fosse sottomesso al potere disciplinare dell’assodante e che fosse altresì privo di ogni tutela, essendo tale facoltà oltre che insindacabile rimessa alla mera discrezionalità dell’associante.
Valerio
Pollastrini
- - Cass., Sentenza n.1817 del 28 gennaio 2013; Cass., Sentenza n.13179 del 28 maggio 2010; Cass., Sentenza n.24781 del 22 novembre 2006; Cass., Sentenza n.19475 del 19 dicembre 2003;
- - cfr., per tutte, Cass., Sentenza n.4524 del 24 febbraio 2011;
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