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lunedì 9 febbraio 2015

Il datore di lavoro deve provare il rispetto delle prescrizioni sulla sicurezza


Nella sentenza n.2138 del 5 febbraio 2015, la Corte di Cassazione ha precisato che, in caso di infortunio del dipendente, è il datore di lavoro che deve provare di non essere imputabile per la violazione dell’obbligo di sicurezza.

Nel caso di specie, la Corte di Appello di Roma aveva confermato la sentenza con la quale il Tribunale di Frosinone, dichiarata una società  civilmente responsabile dell’incidente subito dal dipendente, aveva condannato la stessa al pagamento in favore dell’Inail della somma di 122.354,49 €, a titolo di rimborso delle somme erogate dall’Istituto a seguito dell’infortunio.

In particolare, la Corte territoriale aveva osservato che, in tema di responsabilità del datore di lavoro per violazione delle disposizioni dell'art.2087 cod. civ., la parte che subisce l'inadempimento, ovvero l’Istituto assicuratore che agisce in via di regresso (1), non è tenuta a dimostrare la colpa dell'altra parte, dato che, ai sensi dell'art.1218 cod. civ., è il debitore-datore di lavoro che deve provare l’impossibilità della prestazione o la non esatta esecuzione della stessa o, comunque, che il pregiudizio che abbia colpito la controparte sia derivato da causa a lui non imputabile.

In relazione alla vicenda ad oggetto, la Corte del merito, sulla base delle prove testimoniali raccolte, era pervenuta alla convinzione della responsabilità del datore di lavoro nella determinazione dell’infortunio, poiché non aveva predisposto idonee misure di sicurezza.

Avverso questa sentenza, la società aveva proposto ricorso per Cassazione, sostenendo che l’Inail non avrebbe provato e neppure dedotta l’esistenza di un fatto ad essa imputabile, costituente reato perseguibile d’ufficio.

Secondo la ricorrente, inoltre, vertendo la questione nell’ambito della responsabilità extracontrattuale ex art.2049 cod. civ., l’onere della prova incomberebbe su chi aziona il credito e quindi sull’Inail e non sul datore di lavoro.

A ciò la società aveva aggiunto che l’Inail non avrebbe dedotto né provato il fatto costituente reato ex art.590 cod, pen., presupposto per l’azione di regresso, sostenendo che detta azione di regresso da parte dell’Istituto sarebbe subordinata alla prova della sussistenza del fatto costituente reato perseguibile d’ufficio.

Investita della questione, la Cassazione ha ritenuto infondate le censure predette, ricordando come, contrariamente a quanto affermato dalla ricorrente, la responsabilità del datore di lavoro per inadempimento dell’obbligo di sicurezza previsto dall’art.2087 cod. civ. ha natura contrattuale, derivando tale qualificazione in base alla considerazione che, da un lato, il contenuto del contratto individuale di lavoro risulta integrato per legge (2) dalla suddetta norma e, dall'altro, che la responsabilità contrattuale è configurabile tutte le volte che risulti fondata sull’inadempimento di un’obbligazione giuridica preesistente, comunque assunta dal danneggiante nei confronti del danneggiato.

In particolare, il diritto al risarcimento è subordinato alla sussistenza dei presupposti rispettivi  della responsabilità civile, contrattuale oppure extra contrattuale (3).

Infatti, la colpa risulta, bensì, essenziale per qualsiasi tipo di responsabilità civile, ma solo per quella contrattuale  vige il regime particolare per la ripartizione dell'onere probatorio (4).

Ne risulta, infatti, stabilita - in deroga ai principi generali nella stessa materia (5), applicabili invece ad ogni altro tipo di responsabilità - la presunzione legale di colpa, appunto, a carico del  responsabile del danno da risarcire (6).

Di conseguenza, risulta dispensato  dall'onere probatorio relativo  proprio il creditore danneggiato, che - in quanto agisce per il risarcimento - ne sarebbe gravato in base ai principi generali in materia.

Sul punto, ad avviso della consolidata giurisprudenza di legittimità (7),  la responsabilità del datore di lavoro per inadempimento dell’obbligo di sicurezza (art. 2087 c.c.),  gli impone l'adozione delle misure - di sicurezza e prevenzione, appunto - che, "secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro".

D'altro canto, secondo gli ermellini nessun dubbio può sussistere sulla prospettata qualificazione giuridica della stessa responsabilità - di natura contrattuale, appunto - ove si consideri, da un lato, che il contenuto del contratto individuale di lavoro risulta integrato - per legge (ai sensi dell'art.1374 c.c.) - dalla disposizione che impone l'obbligo di sicurezza  e, dall'altro, che la responsabilità contrattuale è configurabile tutte le volte che risulti fondata sull'inadempimento di un’obbligazione giuridica preesistente, comunque assunta dal danneggiarle nei confronti del danneggiato.

Dalla prospettata natura contrattuale della responsabilità, la stessa giurisprudenza ricava, per quel che qui interessa, significative implicazioni sul piano della distribuzione degli oneri probatori relativi.

Come è già stato anticipato, infatti, la presunzione legale di colpa a carico del datore di lavoro inadempiente all'obbligo di sicurezza  deroga, parzialmente, il principio generale  che impone - a "chi vuol fare valere un diritto in giudizio" - l'onere di provare i "fatti che ne costituiscono il fondamento".

Non ne risulta, tuttavia, una ipotesi di responsabilità oggettiva, né la dispensa, da qualsiasi onere probatorio, del lavoratore danneggiato.

Questi, infatti, resta gravato - in forza del ricordato principio generale - dell'onere di provare il "fatto" costituente inadempimento dell'obbligo di sicurezza, nonché il nesso di causalità materiale tra l'inadempimento stesso ed il danno da lui subito, mentre esula dall'onere probatorio a carico del dipendente - in deroga, appunto, allo stesso principio generale - la prova della colpa del datore di lavoro nel danneggiarlo, sebbene concorra ad integrare la fattispecie costitutiva del diritto al risarcimento.

Ai sensi dell’art.1218 c.c., infatti, è lo stesso datore di lavoro ad essere gravato  - quale "debitore", in relazione all’obbligo di sicurezza - dell'onere di provare la non imputabilità dell'inadempimento (8).

Dopo aver chiarito questo aspetto, la Suprema Corte ha poi ricordato che l’azione di regresso promossa dall'Inail (9) è connotata da una sua peculiarità ed autonomia. Essa, infatti, è concessa all'Istituto in funzione delle sue finalità  ed è esperibile contro il datore di lavoro responsabile del fatto da cui è derivato l'infortunio, attuando un autonomo diritto dell'Ente derivante dal rapporto assicurativo.

Secondo la disciplina di riferimento, in sostanza, il presupposto del diritto di regresso è costituito dalla circostanza che il fatto di cui il datore di lavoro deve rispondere civilmente costituisca reato perseguibile d’ufficio.

Sul punto, la Cassazione ha ricordato, inoltre, che, per effetto degli interventi della Corte Costituzionale (10), l'accertamento giudiziale dell’obbligazione del datore di lavoro può avvenire sia in sede penale che in quella civile.

Il processo penale, infatti, si può chiudere con sentenza di condanna o di assoluzione che non fa stato, rispettivamente, nei confronti del datore di lavoro o dell’Inail, rimasti estranei al giudizio, e, in tal caso, l'accertamento deve essere compiuto nel giudizio civile.

Ne consegue che le azioni in sede civile possono essere esperite indipendentemente dal processo penale, salvo il riscontro dell'eventuale pregiudizialità penale.

Egualmente, l'accertamento deve compiersi esclusivamente in sede civile quando, per qualsiasi causa, non sia stato espletato in sede penale e lo stesso avviene se un procedimento penale non si è mai aperto per difetto della relativa notitia criminis.

Discende dal sistema, dunque, che perché nasca il credito dell'Istituto verso la persona civilmente obbligata è necessario che il fatto costituisca reato perseguibile di ufficio, ma l’accertamento giudiziale, sempre che si renda necessario in mancanza di adempimento spontaneo del soggetto debitore o di bonario componimento della lite, può avvenire sia in sede civile che in sede penale.

Sulla base di tutte le richiamate considerazioni, pertanto, la Cassazione ha concluso rigettando il ricorso.

 

Valerio Pollastrini

 

  1. - ai sensi dell'art.11 del D.P.R. n.1124/1965;
  2. - ai sensi dell'art.1374 cod. civ.;
  3. - vedi, per tutte, Cass., Sentenze n.16250, n.2357 del 2003 e n.15133,  n.1114 del 2002;
  4. - vedi, per tutte, Cass., Sentenza n.16250/2003; Cass., Sentenza n.15133/2002; Cass., Sentenza n.12763/1998;
  5. - di cui all’art.2697 c.c;
  6. - vedi, per tutte, Cass., Sentenza n.16250/2003; Cass., Sentenza n.2357/2003; Cass., Sentenza n.15133/2002; Cass., Sentenza n.3162/2002; Cass., Sentenza n.602/2000; Cass., Sentenza n.9247/1998; Cass., Sentenza n.7792/1998; Cass., Sentenza n.4078/1995;
  7. - vedine, per tutte, le sentenze n. 15133/02, cit., 9385/2001, 291/1999 delle sezioni unite e n. 16250, 2357/2003, 4129, 3162/2002, 14469, 5491, 1307, 602/2000, 7792/1999, 12763, 9247, 3367/1988 della sezione lavoro;
  8. - Cass., Sentenza n.12445 del 25 maggio 2006;
  9. - ai sensi degli artt.11 e 112, u.p., del D.P.R. n.1124/1965;
  10. - in particolare, si vedano le sentenze n. 102 del 1981, n. 118 del 1986 e n. 372 del 1988;

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