Nel
caso di specie, il dipendente era stato licenziato per le parole offensive rivolte
al superiore che lo aveva richiamato all'ordine.
Impugnato
il recesso, il lavoratore aveva convenuto in giudizio l’azienda, lamentando l'errata
qualificazione dell'illecito disciplinare che, a suo dire, avrebbe configurato
una colpa lieve e che, dunque, sarebbe
stato insufficiente a giustificarne il licenziamento.
Per
rafforzare la propria tesi, il dipendente aveva precisato come, nell’episodio
in questione, non si fosse rifiutato di adempiere ad una prestazione lavorativa,
aggiungendo, inoltre, che nel contratto collettivo di categoria la sanzione espulsiva
risultava connessa esclusivamente in relazione a gravi reati accertati con
sentenza definitiva.
Investita
della questione, la Cassazione ha confermato l’illegittimità del recesso
sancita al termine dei giudizi di merito, osservando come le parole profferite
dal ricorrente fossero scaturite, di
fatto, da un turbamento psichico
transitorio.
Nella
pronuncia in commento, gli ermellini hanno ribadito, inoltre, che la norma
contrattuale richiamata dal dipendente equipara l’insubordinazione grave, giustificativa
del licenziamento, ai reati accertati in sede penale, quali il furto ed il
danneggiamento. Conseguentemente, la
condotta posta ad oggetto della contestazione disciplinare, certamente illecita,
non poteva legittimare l’irrogazione della massima sanzione espulsiva.
Valerio
Pollastrini
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