Nel
caso di specie, la Corte di Appello di Venezia aveva respinto il gravame
proposto da un lavoratore contro il rigetto, pronunciato dal Tribunale del
primo grado, dell’impugnativa del licenziamento per giustificato motivo oggettivo
intimatogli il 29 settembre 2003, mentre aveva accolto la domanda di
risarcimento del danno da dequalificazione sofferto dal dipendente nel periodo intercorrente
tra il 1° novembre 2002 ed il 29 settembre 2003, rigettando, però, quella di risarcimento dei danni da mobbing.
Avverso
questa sentenza, il lavoratore aveva proposto ricorso per Cassazione, lamentando
vizio di motivazione nella parte in cui l’impugnata sentenza, pur riconoscendo
il demansionamento patito, non ne aveva tenuto conto ai fini dell’accoglimento
della domanda di risarcimento dei danni da mobbing e dell’impugnativa di
licenziamento.
In
tal modo, secondo il ricorrente, la Corte del merito avrebbe trascurato che la subita
dequalificazione professionale, di per
sé, dimostrasse il comportamento
persecutorio posto in essere ai suoi danni, nonché il carattere strumentale
della soppressione del posto di lavoro di responsabile del nuovo Ufficio Marketing,
cui il dipendente era stato assegnato nel luglio 2003. Sul punto, infatti, il
ricorrente aveva precisato di non aver ricevuto le necessarie dotazioni degli
strumenti di lavoro informatici, il che lo avrebbe costretto a quella
sostanziale inattività poi sanzionata dallo stesso giudice dell’appello in
termini di riconoscimento del danno da dequalificazione professionale.
Investita
della questione, la Cassazione ha ritenuto il ricorso fondato nella parte in
cui il lavoratore aveva censurato vizio di motivazione in ordine all’effettiva
sussistenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento.
A
tale proposito, gli ermellini hanno osservato che, sebbene non sia sindacabile nei suoi
profili di congruità ed opportunità la soppressione del settore lavorativo o
del reparto o del posto cui era addetto il dipendente licenziato, nondimeno al
giudice del merito spetta il controllo della reale sussistenza del motivo
addotto dall’imprenditore, nel senso che ne risulti l’effettività e la non
pretestuosità (1).
L’impugnata
sentenza, invece, lungi dall’accertare in concreto la genuinità della scelta
aziendale, si era limitata a rilevarne l’insindacabilità nel merito, che è cosa
ben diversa.
La
Corte territoriale, infatti, aveva erroneamente ritenuto di doversi limitare ad
una verifica meramente formale dell’avvenuta soppressione del nuovo Ufficio
Marketing ed aveva omesso di sottoporre al doveroso vaglio giurisdizionale la
mancanza di idonei mezzi di lavoro a disposizione del ricorrente, unitamente al
rilievo che il nuovo ufficio era stato costituito nel luglio 2003, cioè appena
due mesi prima di essere soppresso, e che il dipendente aveva patito una
dequalificazione professionale già a partire dal 1° novembre 2002: si trattava, in sostanza, di elementi
presuntivi potenzialmente sintomatici del fatto che il nuovo ufficio fosse
stato creato non affinché funzionasse, ma solo per poterlo chiudere poco dopo
avervi adibito il lavoratore.
Sul
punto, pertanto, era mancato qualunque
apprezzamento che confermasse od escludesse il lamentato carattere strumentale
della creazione e della successiva soppressione di tale nuovo ufficio e della
mancata predisposizione in esso dei relativi mezzi di lavoro.
In
conclusione, la Suprema Corte ha quindi accolto il ricorso del dipendente esclusivamente
nei sensi sopra chiariti, rigettando, invece, la domanda di quest’ultimo relativa
alla condotta mobbizzante asseritamente posta in essere ai suoi danni.
Valerio
Pollastrini
1)
-
Cass., Sentenza n.7474/2012; Cass.,
Sentenza n.24235/2010; Cass., Sentenza n.21282/2006; Cass., Sentenza n.21121/2004;
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