Gli
inadempimenti configuranti una giusta causa di recesso legittimano il licenziamento
della lavoratrice in maternità. E’ quanto ribadito dal Tribunale di Udine nell’Ordinanza
n.788 del 31 dicembre 2014.
La
donna, inquadrata come dirigente, aveva dedotto che, cambiato il C.d.A. della
società resistente, il nuovo amministratore
delegato aveva espresso critiche nei suoi confronti, invitandola a decidere
come risolvere il contratto di lavoro.
Successivamente,
la società aveva intimato alla ricorrente la risoluzione del rapporto di lavoro
per motivi oggettivi, ma tale recesso era risultato nullo, in quanto irrogato
durante il periodo di gravidanza della dipendente.
Preso
atto della comunicazione con la quale la ricorrente aveva informato il datore
di lavoro del suo stato di gravidanza, detto licenziamento era stato revocato.
A
revoca ottenuta, però, l’azienda aveva avviato nei confronti della dirigente un
procedimento disciplinare, al termine del quale era stato intimato alla donna
il licenziamento per giusta causa.
Chiamato
a dirimere la controversia, il giudice del lavoro ha preliminarmente osservato
come, dall’istruttoria svolta nella fase sommaria, non possa ritenersi sussistente la natura discriminatoria
del recesso prospettata dalla ricorrente.
Come
ripetutamente chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, nel caso di
licenziamento ritorsivo o discriminatorio è onere del lavoratore dimostrare che
l’intento discriminatorio abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della
volontà del datore di lavoro. Intento, del quale, nel caso di specie, la
ricorrente non aveva fornito la prova.
E’
vero, infatti, che alla dirigente era stato inizialmente intimato un recesso
per giustificato motivo oggettivo, poi
revocato una volta che la stessa aveva ufficializzato lo stato di gravidanza,
tuttavia, successivamente, previa contestazione degli addebiti, la società
aveva irrogato un licenziamento per giusta causa, che, quando sussistente,
risulta idoneo a legittimare il recesso durante il periodo di gestazione.
A
proposito del primo licenziamento, il
giudicante ha osservato che, dagli atti prodotti in causa, era emersa solamente la precisa volontà dell’amministratore
delegato di dare un nuovo corso alla gestione dell’azienda, sostituendo quindi
la dirigente non con finalità discriminatorie, bensì per la mancata
condivisione dell’operato di quest’ultima.
Conseguentemente,
la volontà espulsiva non può considerarsi sorretta da un intento
discriminatorio nei confronti della lavoratrice madre.
Chiarita
la natura del primo recesso, il Tribunale ha quindi affrontato la questione
inerente alla supposta insussistenza della giusta causa nel secondo provvedimento.
A
questo proposito, il giudice ha osservato come la sommaria istruttoria svolta
avesse sostanzialmente comprovato la sussistenza dei fatti contestati alla
ricorrente, ovvero l’utilizzo di risorse e materiale aziendale ed il ricorso ai
consulenti dell’impresa per fini personali, tutte condotte idonee a configurare
giusta causa di recesso.
Per
tutte le riportate considerazioni, il giudice del lavoro, respinte le domande
proposte dalla ricorrente, ha ritenuto legittimo il licenziamento.
Valerio
Pollastrini
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