Il
caso di specie è quello di un dipendente della Cassa di Risparmio dell'Umbria che si era
rivolto al Tribunale di Perugia, esponendo di aver sottoscritto con l’azienda
una clausola di durata minima garantita del contratto a tempo indeterminato, con la previsione che, in caso di recesso,
avrebbe dovuto pagare una penale di 50 milioni di lire.
In
seguito alle sue dimissioni, rassegnate prima della scadenza del termine
previsto dalla suddetta clausola, la Banca si era avvalsa della penale pattuita
ed aveva così trattenuto dal compenso dovuto al lavoratore l'intero trattamento
di fine rapporto.
Per
tali ragioni il dipendente aveva chiesto al Tribunale che venisse dichiarata la
nullità della clausola di durata minima garantita, con restituzione della somma
netta trattenutagli dall’azienda.
Dopo
che il Tribunale di Perugia aveva accolto la domanda del ricorrente, ritenendo
la clausola nulla, per violazione di norma imperativa, la Corte
di Appello di Perugia aveva successivamente riformato la pronuncia di primo
grado, richiamando, in particolare, la giurisprudenza di legittimità, in base
alla quale il lavoratore subordinato è libero di disporre della propria facoltà di recedere dal
rapporto.
Contro
questa sentenza, il dipendente aveva adito la Cassazione, sostenendo che la
norma contenuta nell'art. 2118 c.c., garantendo allo stesso il diritto di poter
recedere, previa preavviso, dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sarebbe imperativa ed inderogabile, con
conseguente nullità di un atto negoziale che preveda l’impossibilità di esercitare
per un determinato periodo il diritto di
recesso.
Investita
della questione, la Suprema Corte ha preliminarmente riepilogato i contenuti
del quesito di diritto con il quale il lavoratore aveva chiesto se la norma
contenuta nell'art. 2118 c.c. fosse imperativa ed inderogabile, sancendo, in
caso affermativo, la nullità della clausola di durata minima del rapporto.
Secondo
gli ermellini, il suddetto motivo di
ricorso, in ragione dei principi di
diritto reiteratamente espressi dalla Cassazione, è infondato.
La
Corte ha quindi ricordato come, sin dagli anni '70, la giurisprudenza di
legittimità abbia più volte scrutinato l'ammissibilità di una simile clausola, caratterizzata
dal solo limite che il vincolo prefissato non acquisisca durata permanente (1).
Anche
di recente la Corte si era dovuta misurare su motivi di ricorso che
denunciavano "la nullità ed inefficacia" di clausole siffatte per
ragioni analoghe a quelle prospettate dall'odierno ricorrente, in quanto
inciderebbero "direttamente non solo
sulla libertà di contrattare, ma sulla libertà di lavorare, ponendosi così in
contrasto con i principi generali dell'ordinamento giuridico".
A tali obiezioni la Cassazione (2) aveva replicato
che, in tali circostanze, non fosse ravvisabile alcun contrasto tra detta
clausola e le norme e principi dell'ordinamento giuridico.
La
legge, infatti, non pone nessun limite all'autonomia privata per ciò che
attiene alla facoltà di recesso dal rapporto attribuita al lavoratore, della quale
questi potrebbe liberamente disporre,
pattuendo una garanzia di durata minima, comportante, al di fuori dell'ipotesi
di giusta causa di recesso di cui all'art. 2119 c.c., un risarcimento del danno
a favore della parte non recedente.
La
Suprema Corte ha proseguito osservando che, sempre in relazione alle clausole pattizie che regolano
l'esercizio della facoltà di recesso dal rapporto di lavoro subordinato, non
può essere prospettata nemmeno una limitazione della libertà contrattuale del
lavoratore, lesiva della tutela assicuratagli dai principi dell'ordinamento
giuridico.
Si
tratta di un principio consolidato, affermato in diverse occasione dalla Cassazione
(3), senza mutamenti.
Confermando,
quindi, che la Corte territoriale avesse deciso la controversia applicando un
orientamento più volte espresso dai giudici di legittimità, la Suprema Corte ha
ribadito come la sentenza impugnata non fosse meritevole di censura.
Per
tutte le ragioni sopra richiamate, la Cassazione ha rigettato il ricorso,
condannando il lavoratore al pagamento delle spese del processo di legittimità,
liquidate in 5.000,00 € per compensi professionali, 100,00 € per esborsi, oltre accessori secondo legge.
Valerio
Pollastrini
(1)
-
Cass., Sentenza n.2941/1976; Cass., Sentenza n.2151/1976; Cass., Sentenza
n.4144/1974; Cass., Sentenza n.2304/1974; Cass., Sentenza n.368/1971;
(2)
–
Cass., Sentenza n.1435/1998;
(3)
-
Cass., Sentenza n.17817/2005; Cass., Sentenza n.18376/2009; Cass., Sentenza
n.18547/2009;
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