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mercoledì 3 settembre 2014

Legittima la clausola di durata minima garantita

Nella sentenza n.17010 del 25 luglio 2014, la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità della clausola di durata minima del rapporto, eventualmente apposta in un contratto di lavoro subordinato.

Il caso di specie è quello di un dipendente della  Cassa di Risparmio dell'Umbria che si era rivolto al Tribunale di Perugia, esponendo di aver sottoscritto con l’azienda una clausola di durata minima garantita del contratto a tempo indeterminato,  con la previsione che, in caso di recesso, avrebbe dovuto pagare una penale di 50 milioni di lire.

In seguito alle sue dimissioni, rassegnate prima della scadenza del termine previsto dalla suddetta clausola, la Banca si era avvalsa della penale pattuita ed aveva così trattenuto dal compenso dovuto al lavoratore l'intero trattamento di fine rapporto.

Per tali ragioni il dipendente aveva chiesto al Tribunale che venisse dichiarata la nullità della clausola di durata minima garantita, con restituzione della somma netta trattenutagli dall’azienda.

Dopo che il Tribunale di Perugia aveva accolto la domanda del ricorrente, ritenendo la clausola  nulla,  per violazione di norma imperativa, la Corte di Appello di Perugia aveva successivamente riformato la pronuncia di primo grado, richiamando, in particolare, la giurisprudenza di legittimità, in base alla quale il lavoratore subordinato è libero di disporre  della propria facoltà di recedere dal rapporto.

Contro questa sentenza, il dipendente aveva adito la Cassazione, sostenendo che la norma contenuta nell'art. 2118 c.c., garantendo allo stesso il diritto di poter recedere, previa preavviso, dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato,  sarebbe imperativa ed inderogabile, con conseguente nullità di un atto negoziale che preveda l’impossibilità di esercitare per un determinato periodo il  diritto di recesso.

Investita della questione, la Suprema Corte ha preliminarmente riepilogato i contenuti del quesito di diritto con il quale il lavoratore aveva chiesto se la norma contenuta nell'art. 2118 c.c. fosse imperativa ed inderogabile, sancendo, in caso affermativo, la nullità della clausola di durata minima del rapporto.

Secondo gli ermellini, il suddetto  motivo di ricorso,  in ragione dei principi di diritto reiteratamente espressi dalla Cassazione, è infondato.

La Corte ha quindi ricordato come, sin dagli anni '70, la giurisprudenza di legittimità abbia più volte scrutinato l'ammissibilità di una simile clausola, caratterizzata dal solo limite che il vincolo prefissato non acquisisca durata permanente (1).

Anche di recente la Corte si era dovuta misurare su motivi di ricorso che denunciavano "la nullità ed inefficacia" di clausole siffatte per ragioni analoghe a quelle prospettate dall'odierno ricorrente, in quanto inciderebbero "direttamente non solo sulla libertà di contrattare, ma sulla libertà di lavorare, ponendosi così in contrasto con i principi generali dell'ordinamento giuridico".

A tali obiezioni la Cassazione (2) aveva replicato che, in tali circostanze, non fosse ravvisabile alcun contrasto tra detta clausola e le norme e principi dell'ordinamento giuridico.

La legge, infatti, non pone nessun limite all'autonomia privata per ciò che attiene alla facoltà di recesso dal rapporto attribuita al lavoratore, della quale questi potrebbe liberamente  disporre, pattuendo una garanzia di durata minima, comportante, al di fuori dell'ipotesi di giusta causa di recesso di cui all'art. 2119 c.c., un risarcimento del danno a favore della parte non recedente.

La Suprema Corte ha proseguito osservando che, sempre in  relazione alle clausole pattizie che regolano l'esercizio della facoltà di recesso dal rapporto di lavoro subordinato, non può essere prospettata nemmeno una limitazione della libertà contrattuale del lavoratore, lesiva della tutela assicuratagli dai principi dell'ordinamento giuridico.

Si tratta di un principio consolidato, affermato in diverse occasione dalla Cassazione (3), senza mutamenti.

Confermando, quindi, che la Corte territoriale avesse deciso la controversia applicando un orientamento più volte espresso dai giudici di legittimità, la Suprema Corte ha ribadito come la sentenza impugnata non fosse meritevole di censura.

Per tutte le ragioni sopra richiamate, la Cassazione ha rigettato il ricorso, condannando il lavoratore al pagamento delle spese del processo di legittimità, liquidate in 5.000,00 € per compensi professionali, 100,00 € per esborsi,  oltre accessori secondo legge.

Valerio Pollastrini

 
(1)   - Cass., Sentenza n.2941/1976; Cass., Sentenza n.2151/1976; Cass., Sentenza n.4144/1974; Cass., Sentenza n.2304/1974; Cass., Sentenza n.368/1971;
(2)   – Cass., Sentenza n.1435/1998;
(3)   - Cass., Sentenza n.17817/2005; Cass., Sentenza n.18376/2009; Cass., Sentenza n.18547/2009;

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