A
tal fine, infatti, occorre che sussista
una comunanza spirituale ed economica analoga a quella del matrimonio.
Il
caso in commento è quello scaturito dalla denuncia con la quale una donna aveva
dichiarato alla Direzione territoriale del lavoro di avere lavorato in un bar.
L’ufficio
preposto aveva ritenuto che l’istante
avesse effettivamente svolto un’attività di lavoro subordinato e, pertanto,
aveva emesso due ordinanze-ingiunzione
contro l'esercente del locale.
Dopo
che il Tribunale ne aveva respinto il ricorso, l'uomo si era quindi rivolto
alla Corte di Appello, sostenendo che il giudice del primo grado avesse
ritenuto provata la subordinazione solo in base alle dichiarazioni rese in sede
amministrativa da alcuni informatori.
Il
ricorrente, inoltre, aveva lamentato l'occasionalità delle prestazioni svolte dalla donna, aggiungendo che il lavoro fosse stato reso dalla
stessa a titolo gratuito, in quanto, a quel tempo, era la di lui convivente.
Investita
della questione, la Corte genovese ha riconosciuto
la sussistenza del rapporto subordinato, circostanza confermata agli ispettori
non soltanto dalle dichiarazioni rese dagli informatori ma anche da quelle avanzate
dallo stesso imprenditore che, durante la verifica, aveva ammesso di aver retribuito la donna in
contanti.
Il
Giudice dell’appello ha quindi proseguito precisando come un semplice rapporto
di convivenza non possa far presumere la gratuità delle prestazioni lavorative.
Per
poter affermare il contrario, infatti, è necessario provare una comunanza
spirituale ed economica analoga a quella esistente nel rapporto coniugale.
Valerio
Pollastrini
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