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venerdì 5 settembre 2014

Il lavoro del convivente deve essere retribuito

Nella sentenza n.162 del 14 aprile 2014, la Corte di Appello di Genova ha affermato che la convivenza non è sufficiente  per affermare la gratuità dell'attività lavorativa prestata dal  partner.

A tal fine, infatti, occorre  che sussista una comunanza spirituale ed economica analoga a quella del matrimonio.

Il caso in commento è quello scaturito dalla denuncia con la quale una donna aveva dichiarato alla Direzione territoriale del lavoro di avere lavorato in un bar.

L’ufficio preposto aveva  ritenuto che l’istante avesse effettivamente svolto un’attività di lavoro subordinato e, pertanto, aveva  emesso due ordinanze-ingiunzione contro l'esercente del locale.

Dopo che il Tribunale ne aveva respinto il ricorso, l'uomo si era quindi rivolto alla Corte di Appello, sostenendo che il giudice del primo grado avesse ritenuto provata la subordinazione solo in base alle dichiarazioni rese in sede amministrativa da alcuni informatori.

Il ricorrente, inoltre, aveva lamentato l'occasionalità delle prestazioni  svolte dalla donna,  aggiungendo che il lavoro fosse stato reso dalla stessa a titolo gratuito, in quanto, a quel tempo, era la di lui convivente.

Investita della questione, la Corte genovese  ha riconosciuto la sussistenza del rapporto subordinato, circostanza confermata agli ispettori non soltanto dalle dichiarazioni rese dagli informatori ma anche da quelle avanzate dallo stesso imprenditore che, durante la verifica,  aveva ammesso di aver retribuito la donna in contanti.

Il Giudice dell’appello ha quindi proseguito precisando come un semplice rapporto di convivenza non possa far presumere la gratuità delle prestazioni lavorative.

Per poter affermare il contrario, infatti, è necessario provare una comunanza spirituale ed economica analoga a quella esistente nel rapporto coniugale.

Valerio Pollastrini

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