Nel
caso di specie, la lavoratrice di uno studio professionale di diagnostica
strumentale era stata licenziata dopo tre giorni di assenza ingiustificata.
La
dipendente aveva contestato la legittimità del recesso, sostenendo, tra l’altro,
che il licenziamento, in realtà, le fosse stato intimato in conseguenza del
sospetto che la stessa intrattenesse una relazione con il marito dell’amministratrice
della società.
La
Corte di Appello di Palermo, confermando la sentenza del Tribunale, aveva rigettato
il ricorso, ritenendo legittimo il recesso.
La
Corte del merito aveva precisato che i
fatti oggetto della contestazione disciplinare fossero pacifici, in quanto la dipendente non si era presentata al lavoro il 18, il 22
ed il 23 aprile 2003, senza alcuna richiesta di autorizzazione ovvero
spiegazione.
Le
acquisizioni processuali avevano evidenziato un indiscutibile deterioramento
dei rapporti personali tra le parti, in conseguenza del sospetto dell’amministratrice
dell’azienda che la lavoratrice intrattenesse una relazione sentimentale con il
di lei marito, ma non avevano anche evidenziato un inadempimento datoriale delle
obbligazioni nascenti dal rapporto.
Conseguentemente,
il licenziamento è stato ritenuto giustificato,
in quanto le funzioni di segreteria nell’organizzazione dell’attività di uno
studio professionale di diagnostica strumentale, rappresentano un imprescindibile punto di
riferimento per il regolare svolgimento del servizio, sicché il descritto
comportamento della lavoratrice deve considerarsi idoneo ad incrinare il
rapporto fiduciario con il datore di lavoro.
Contro
la sentenza di Appello, la lavoratrice aveva ricorso per Cassazione, lamentando
la sproporzione tra fatto addebitato e recesso.
In
particolare, la ricorrente aveva contestato alla Corte palermitana di aver ritenuto giustificato il licenziamento
senza aver valutato le ragioni della sua
assenza, dopo avere dato atto dell’indiscutibile
deterioramento dei rapporti tra le parti.
A
detta della dipendente, il giudicante avrebbe dovuto considerare se l’assenza potesse essere addebitata ai comportamenti
censurabili del datore di lavoro, e quindi considerata come l’effetto di una sua
reazione diretta ed impulsiva ad un torto subito.
La
ricorrente, inoltre, aveva ribadito quanto emerso dalla prova testimoniale a
proposito della mancanza, a suo carico, di precedenti disciplinari, anzi, più volte i datori di lavoro avevano
apprezzato le sue capacità, mostrando l’intenzione di regolarizzarne la posizione.
Il
deteriorarsi dei rapporti - culminato nei giorni precedenti all’assenza con un
violento diverbio nel quale le sarebbero state rivolte accuse infamanti –
avevano riguardato soltanto l’amministratrice della società ed erano dipesi dal
sospetto di questa - rivelatosi infondato - che la lavoratrice intrattenesse
una relazione sentimentale con il di lei marito.
Per
ciò che attiene al licenziamento, infine, la lavoratrice aveva dedotto che una valutazione del comportamento oggetto
di contestazione, qualora avesse tenuto conto del complessivo contesto di quanto
avvenuto e delle circostanze, nonché dei risvolti soggettivi e psicologici, avrebbe dovuto
indurre la Corte territoriale a concludere che soltanto una sanzione
conservativa fosse proporzionata all’inadempienza di specie.
Investita
della questione, la Cassazione ha rigettato le domande della dipendente,
precisando come la lettura complessiva del ricorso si risolva nella denuncia di vizi di motivazione della
sentenza impugnata, non per errori di logica giuridica, ma per errata
valutazione del materiale probatorio acquisito, ai fini della ricostruzione dei
fatti.
Al
riguardo, va ricordato che la deduzione con il ricorso per Cassazione di un
vizio di motivazione della sentenza impugnata non conferisce al Giudice di
legittimità il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale, bensì
la sola facoltà di controllo della correttezza giuridica e della coerenza
logica delle argomentazioni svolte dal Giudice del merito, non essendo
consentito alla Corte di Cassazione di procedere ad una autonoma valutazione delle
risultanze probatorie, sicché le censure concernenti il vizio di motivazione
non possono risolversi nel sollecitare una lettura delle risultanze processuali
diversa da quella accolta dal Giudice del merito (1).
La
Corte di Appello - conformandosi ai consolidati principi della giurisprudenza
di legittimità - partendo dalla premessa
secondo cui la ingiustificata assenza dal servizio è un comportamento che ha un
intrinseco disvalore, in quanto lede di per sé i doveri fondamentali connessi
con il rapporto di lavoro, aveva
ritenuto proporzionata la sanzione espulsiva rispetto alla condotta addebitata
alla lavoratrice, dopo avere accertato la ricorrenza di tutti gli elementi
oggettivi e soggettivi propri della fattispecie (2).
In
particolare, la Corte territoriale, pur avendo dato atto del deterioramento dei rapporti personali tra l’amministratrice
del Centro e la lavoratrice, tuttavia, aveva escluso che quest’ultima avesse dimostrato
fatti ai quali si potessero attribuire una portata esimente ed aveva precisato,
altresì, che la dipendente non avesse
minimamente avvertito il datore di lavoro della propria intenzione di
assentarsi per diversi giorni, così creando notevoli problemi organizzativi per
lo studio professionale di diagnostica strumentale presso il quale svolgeva le
mansioni di segretaria.
Tali
ultime osservazioni sono di per sé
sufficienti a ritenere adeguatamente motivata l’affermata proporzionalità del licenziamento
al comportamento tenuto dalla dipendente.
Infatti,
tra i normali obblighi di correttezza e diligenza del prestatore di lavoro
rientra anche quello di comunicare tempestivamente al datore di lavoro
eventuali impedimenti nel regolare espletamento della prestazione che
determinino la necessità di assentarsi ed il mancato rispetto di tale obbligo
può giustificare il licenziamento, in quanto la suddetta assenza dal lavoro -
anche se, in astratto, dovuta a motivi legittimi - se non comunicata è idonea
ad arrecare alla controparte datoriale un pregiudizio organizzativo derivante
dal legittimo affidamento in ordine alla supposta effettiva ripresa della
prestazione lavorativa (3).
In
base alle richiamate argomentazioni la Suprema Corte ha concluso con il rigetto
del ricorso, disponendo, tuttavia, la compensazione tra le parti delle spese
del giudizio di legittimità.
Valerio
Pollastrini
(1)
-
Cass., Sentenza n.21486 del 18 ottobre 2011; Cass., Sentenza n.9043 del 20
aprile 2011; Cass., Sentenza n.313 del 13 gennaio 2011; Cass., Sentenza n.37
del 3 gennaio 2011; Cass., Sentenza n.20731 del 3 ottobre 2007; Cass., Sentenza
n.18214 del 21 agosto 2006; Cass., Sentenza n.3436 del 16 febbraio 2006; Cass.,
Sentenza n.8718 del 27 aprile 2005;
(2)
-
Cass., Sentenza n.27440 del 9 dicembre
2013;
(3)
-
Cass., Sentenza n.844 del 1° febbraio 1999; Cass., Sentenza n.7478 del 14
maggio 2003; Cass., Sentenza n.10552 del 17 maggio 2013;
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